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“Visioni di Selinunte“- Presentazione del volume di G. Bonanno e E. Miceli

In una sala del Museo A. Pepoli è stata illustrata una ricca pubblicazione sulle vestigia dell'antica città di Selinunte.

Relatore: Prof. Antonino Tobia

 Dopo la visita guidata della Sezione Archeologica del Museo, il prof. Erasmo Miceli, il prof. Antonino Tobia e l’archeologa Martine Fourmont hanno presentato il libro "Visioni di Selinunte. Si riporta qui di seguito la relazione del prof. Tobia. 

Immagine riferita a: “Visioni di Selinunte“- Presentazione del volume di G. Bonanno e E. MiceliImmagine riferita a: “Visioni di Selinunte“- Presentazione del volume di G. Bonanno e E. MiceliG. BONANNO- E. MICELI : VISIONI DI SELINUNTE

Tra le valli del Belice e del Modione, fiume di scarsa portata, che nasce nel territorio di Santa Ninfa, i templi e le rovine di Selinunte, la colonia greca più occidentale della Sicilia, continuano a trasmetterci, dopo tanti secoli, sorprendenti emozioni. Qui arrivarono, nel 628 o  605 a.C., i Greci, di origine dorica, partiti da MegaraHyblea, dopo essere stati scacciati da Gelone, tiranno di Siracusa. Erano  guidati da un esperto ecista di nome Pamillos, che si era prefisso di fondare una nuova colonia, e allo stesso tempo di trasferire nella nuova terra le tradizioni civili e religiose della madrepatria, la cittadina attica da dove erano partiti i primi megaresi. Il fenomeno migratorio nasce con la comparsa dell’uomo sulla Terra. Esso consentì la diffusione nel bacino del Mediterraneo della civiltà greca, perché il mare non costituì un limite o un confine, bensì il ponte che i Greci attraversavano ogni qual volta erano costretti a lasciare la loro terra per motivi politici o di sovrappopolazione, o per un certo ulissismo esistenziale.

A differenza dei Fenici, che solcavano il Mediterraneo in lungo e in largo per istallare le loro basi commerciali, i Greci miravano ad istaurare nuove colonie e grecizzavano  i luoghi in cui fondavano la nuova patria. Da qui nacque la Magna Grecia.

L’Eneide di Virgilio è il poema dell’emigrazione, dei profughi di Ilio costretti a lasciare la loro patria, distrutta dalle armi nemiche, alla ricerca disperata di nuove terre dove soggiornare con i loro Penati.  L’eroe troiano Enea, nella lezione virgiliana, svolge il ruolo di ecista, che si affida al mare, nella speranza di trovare ospitalità e un nuovo soggiorno per i compagni superstiti. L’ospitalità era considerata un dovere sacro da tutti i popoli del Mediterraneo, in nome di Zeus Xenios. Il figlio di Afrodite e di Anchise si sente investito di una missione divina che non ammette distrazioni. Approda e rimane per circa un anno presso la generosa  e innamorata Didone, ma sa che non può deviare il corso del suo itinerario fatale. La flotta dell’eroe troiano getta l’ancora nelle spiagge del litorale trapanese, alle falde di Erice, due volte. Questi luoghi sono sormontati dal tempio dedicato ad Afrodite,la sua divina madre, che i Romani invocheranno come Venere Ericina, la Venus ridenscantata da Orazio nell’ode 27 del III libro dei suoi Carmi. Qui moriva Anchise, qui veniva sepolto e in suo onore ad un anno di distanza, abbandonata l’infelicevedova di Sicheo, il figlio organizzava i ludi funebri, da Virgilio descritti con la maestria di un eccellente giornalista sportivo nel libro V dell’Eneide. Aceste, il re del luogo, era consanguineo dei Troiani. Era approdato nel territorio ericino ancor prima della distruzione di Troia e, insieme con gli indigeni Sicani, aveva dato vita alla civiltà elima, dal nome di Elimo. secondo alcuni, figlio di Anchise, fratellastro di Enea. Virgilio lo presenta invece come suddito di Aceste. Pare che il re Aceste, recatosi a Troia per aiutare Priamo contro l’aggressione dei Greci, di ritorno in Sicilia, avesse portato con sé il giovane Elimo con le sue tre navi. Gli Elimi fondarono diverse città nella parte occidentale dell’Isola, come Erice, Segesta, Entella. Segesta, secondo Virgilio, sarebbe stata fondata da Enea per far riposare i vecchi e le donne, dopo che queste avevano appiccato il fuoco alle navi, decise a non riprendere il viaggio. Così, quando da Megara Iblea i coloni greci vennero a fondare Selinunte, furono costretti a scontrarsi con i nemici di un tempo. A dissotterrare l’ascia di guerra fu Segesta elima, che non volle mai scendere a patti con i Greci di Selinunte, mossi da questioni matrimoniali e da controversie territoriali, come c’informa Tucidide (l.VI.6).

Nel giro di qualche decennio la colonia prosperò e divenne per importanza la seconda città greca in Sicilia dopo Siracusa. Per due secoli Selinunte, che prese il nome dall’abbondanza di sedano, sèlinon, che spontaneamente cresceva in quel territorio, prosperò grazie alla sua intensa rete commerciale e all’abilità dei suoi artigiani. Nel  540/530 a. C. i Selinuntini disponevano del didracma d’argento, una moneta di circa 9 grammi, che mostrava al diritto la foglia di sélinon, al rovescio un quadrato incluso, diviso in otto sezioni. Il tetradracma di 17,20 grammi d’argento era diffuso agli inizi del V secolo, e presentava al diritto la dea Nike sulla quadriga, al rovescio il dio Sélinos, che sacrifica sull’altare. L’imponenza dei templi con le loro rovine testimoniano la ricchezza che questa colonia dorica era riuscita a creare.  

Nel VI libro della Storia del Peloponneso, Tucidide ci informa che Selinunte disponeva di una grande flotta navale, la seconda dopo quella di Siracusa.

Il filologo classico tedesco, Julius Schubring, che visitò la Sicilia tra il 1865  e il 1866, sostiene, invece, che l’unico porto di cui disponevano i Selinuntini fosse a Mazara all’estremità occidentale del territorio, distante tre ore dalla capitale, sebbene sia stato dimostrato che in quei tempi Mazara fosse solo un emporio, un punto d’attracco delle  imbarcazioni cartaginesi. Vicino alla zona portuale i Selinuntini edificarono un tempio a Demetra Malophoros, come attesta una stele votiva del V secolo, consacrata da un navigante chiamato Theyllos, grato alla dea per aver superato indenne una tempesta. Il santuario, insieme a tanti altri, sorgeva su una collina sabbiosa parallela all’acropoli, chiamata Gaggera, dal nome di una fonte di acqua dolce, ancora esistente.

Francesco Saverio Cavallari, direttore delle antichità siciliane, dal 1866 al 1872,  esplorò le necropoli selinuntine, devastate dagli scavi clandestini. Anche il Salinas, dieci anni dopo, diede notizie degli scavi di quest’area che si estende per circa due chilometri quadrati e mezzo, una delle più ampie città mortuarie della Sicilia ellenica.

Il V secolo segna l’inizio della fine di tanto splendore. Intorno al 410, Selinunte si scontrò con Segesta. Questa chiese aiuto ai Cartaginesi, che inviarono una flotta considerevole e un poderoso esercito di 5.800 uomini. Selinunte fu assediata  e, come racconta Diodoro Siculo, gli abitanti resistettero per 9 giorni, finché dovettero arrendersi. La città fu incendiata, 16 mila Selinuntini trucidati, 5.000 tratti in schiavitù. Selinunte non si risollevò mai completamente e rimase tributaria di Cartagine.

Nel 408 Ermocrate, politico e militare siracusano, mandato in esilio dal governo democratico instauratosi a Siracusa, si impadronì di quello che era rimasto di Selinunte. La città in breve tempo fu ricostruita, ripopolata  e fortificata, anche se non risorse all’antico splendore.

Nel 249 la colonia di Megara Iblea è nuovamente saccheggiata dai Cartaginesi. Questi, per evitare che la città cadesse sotto il dominio romano nel corso della prima guerra punica, trasferirono i suoi abitanti a Lylibeo. Così finiva la storia di Selinunte, la nobile città greca, che oggi, in questa prestigiosa sala, dinanzi a questo colto e sensibile uditorio, è richiamata a nuova vita dall’amore e dall’impegno culturale di due infaticabili studiosi, Giuseppe Bonanno e Erasmo Miceli. Con la loro pregevole pubblicazione i due autori di Visioni di Selinunte ci consentono di rileggere il nostro passato e di guardare con maggiore fiducia al nostro futuro.

Abbiamo parlato di emigrazione e dell’importanza del confronto tra i popoli, ci si augura che la nostra bella Trinacria, terra del  mito e faro luminoso nella storia dell’umanità, continui ad essere crocevia di genti diverse, approdo sicuro dei tanti migranti, che disperatamente invocano il diritto alla vita. È quanto fecero circa 2.600 anni fa i Megaresi che, costretti a lasciare la loro terra, approdarono sulle spiagge dell’estremo lembo occidentale della Sicilia e vi edificarono la loro nuova patria, la maestosa Sélinon.

Trapani, Museo Regionale A. Pepoli

30.IX.2022                                           prof. Antonino Tobia

 

Autore Legre

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Inserito il 30 Novembre 2022 nella categoria Relazioni svolte