Il prof. Antonino Tobia ha illustrato la vita e le opere di Giuseppe Ungaretti, uno dei massimi poeti italiani del Novecento
Relatore: Prof. Antonino Tobia
Si riporta, qui di seguito, la relazione integrale del prof. Antonino Tobia: "Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d’Egitto, nel quartiere di periferia Moharrem Bey l’8 febbraio del 1888 da genitori italiani originari della provincia di Lucca. Il padre, Antonio Ungaretti (1842-1890), era un operaio, impiegato allo scavo del Canale di Suez, che morì due anni dopo la nascita di Giuseppe, stremato dal duro lavoro di sterratore, dove aveva contratto l’idropisia.La madre, Maria Lunardini (1850-1926), mandò avanti la gestione del forno, che i coniugi avevano messo su appena emigrati da Lucca con il figlio maggiore Costantino. Il poeta porterà sempre con sé il ricordo della casa della sua infanzia:'Nella povertà della nostra casa, che era fuori porta, in una zona in subbuglio, una baracca con la corte e le galline, l’orto e tre piante di fichi fatte venire dalla campagna di Lucca'.Nel 1886 il piccolo Giuseppe iniziò il primo ciclo di studio presso l’Istituto don Bosco, in cui gli veniva imposta una disciplina che non riusciva a sopportare. Successivamente, la madre lo iscrisse alla prestigiosa Ècole Suisse Jacot.Qui cominciò ad appassionarsi alla lettura dei poeti simbolisti francesi e scopriva la poesia del Leopardi, che più tardi comprenderà 'in tutta la sua grandezza e la sua segreta potenza' per avere avuto prima di Nietzsche la percezione dei suoi tempi. La frequentazione di una popolazione cosmopolitica era uno stimolo importante per il giovane studente, sempre più vocato alla poesia e alle nuove correnti artistiche. In quegli anni strinse amicizia con l’anarchico Enrico Pea, poeta, scrittore e impresario teatrale, e fece amicizia anche con il poeta greco Costantino Kavafis, anch’egli nato ad Alessandria d’Egitto, più grande di lui di 25 anni. Così ricorda le serate trascorse con gli amici e il suo caro compagno di scuola MoammedSceab: ' Sedevamo tutte le sere insieme al caffè, e fra noi veniva anche Costantino Cavafy, un poeta che oggi la critica d’ogni dove annovera tra i quattro o cinque veri del Ventesimo secolo'. Ma carmina non dantpaneme, pertanto, dopo avere investito in affari sbagliati una parte dei soldi ricevuti dalla vendita del forno, non trovando lavoro e sempre più desideroso di ampliare i suoi orizzonti culturali, nel 1912 lasciò per sempre Alessandria per proseguire gli studi a Parigi, la patria dei simbolisti e del turbolento mondo delle avanguardie. Alla Sorbona frequentò i corsi di illustri docenti e rimase affascinato dalle lezioni del filosofoHenri.LouisBergsonsulla concezione del tempo come durata, così presente nella sua prima produzione poetica. Nei caffè letterari della capitale francese aveva l’opportunità di frequentare i maggiori esponenti delle avanguardie artistiche. Conobbe Apollinaire,Pablo Picasso e nel 1914 incontrò Filippo Tommaso Marinetti, che nella capitale francese aveva pubblicato il Manifesto futurista nel 1909, e tanti artisti italiani che cercavano nuove vie espressive e nuovi percorsi estetici, come Palazzeschi, Papini, Carrà, Boccioni, De Chirico, Amedeo Modigliani. La metropoli parigina affascinava il giovane Ungaretti, perché gli consentiva di soddisfare la sua curiosità intellettuale:'Fu la scoperta di un colore nuovo quella che feci in particolare a Parigi; anzi delle sfumature all’infinito smorzate dal colore; di come gli oggetti, le persone, il cielo, un albero e tutto possa graduarsi in incessante delicatezza di colore. I grigi di Parigi'. La citta gli si presentava come una tavolozza di colori delicati e poetici, come se l’arte vi trovasse la sua fonte perenne, un nuovo Parnaso. Era diventato amico di Amedeo Modigliani perché entrambi, per risparmiare, spesso si ritrovavano nella piccola trattoria di sora Rosalia (mère Rosalie) in Rue Dorian: Arrivava con la sua giovanissima donna, fasciata in una redingote dal lungo garbo, di velluto azzurro elettrico. Modigliani non mangiava quasi nulla, rimandava in cucina tre o quattro volte il suo piatto.Non smetteva di disegnare la gente che era lì e quanto gli balenasse in mente, e lasciava sulla tavola quei pezzetti di disegni che poi furono venduti, penso, dalla proprietaria del locale. Modigliani, che avevo conosciuto prima della guerra, divenne mio amico. E presto, poco tempo dopo, arriva la notizia (1920) che Modigliani era malato, e poi, prestissimo, che era morto (era il 24 gennaio). Morì di quella malattia che infieriva allora, la febbre spagnola Il giorno stesso della sua morte, la sua donna, gravida, si buttò dal balcone'. Era Jeanne Hébuterne, anche lei pittrice, dalla quale aveva avuto una figlia.Nel 1914 lasciò Parigi per fare ritorno in Italia. Il Paese era agitato dagli scontri tra interventisti e neutralisti. Prevalse il movimento degli interventisti, che spinse il governo Salandra a scendere in guerra con le forze dell’Intesa contro gli Imperi Centrali. Ungaretti fu un accesso interventista, fu arruolato e mandato sul Carso come soldato semplice del XIX Reggimento di fanteria e successivamente in Francia, nella Champagne- Ardenne. Finita la guerra, andò a vivere a Parigi, dove il 20 giugno 1920 sposò Jeanne Dupoix, un’insegnante di francese, da cui ebbe la figlia Ninon e Antonietto. La moglie, che gli rimase vicina tutta la vita, morirà nel 1958. In una lettera inviata ad un suo precedente amore, la bella francese Marthe Roux, amata anche dal suo amico Apollinaire, così scriveva: 'Sono abbattuto dal dolore, la parte più solida della mia vita è in una tomba. Non riesco più a dormire, mi sveglio la notte e mi muovo in casa come se fossi un matto'.Era da poco sposato, quando insieme con la moglie, vide entrare nella trattoria da lui frequentata un uomo che non parlava, grugniva. La sora Rosalia posò in fretta per terra una fila di barattoli e pennelli ed alcune cartoline con vedute, se ricordo bene, di Montmartre, e portò da bere. Sentii la sora Rosalia nominare l’uomo, e seppi che era Utrillo ed egli bevve e tornò a bere. Negli intervalli tra un bicchiere e l’altro dipingeva le pareti del locale. Presto invasero la stanza cieli, prati, case, un cantare si alzò dove scienza ed innocenza fondendosi davano la misura vera della poesia. In quel punto comparve strillando sulla porta la madre del pittore, la pittrice Veladon, nota e brava: la seguivano infermieri della casa di cura dalla quale Utrillo se l’era svignata per avere da bere: da bere! afferrato dalla madre e dagli infermieri, fu buttato nell’autoambulanza e via. Un anno dopo quei muri furono segati e ne ha oggi il possesso non so quale fortunato mortale d’America'.Durante gli anni del conflitto il poeta aveva pubblicato le sue prime raccolte di versi: nel 1916 Il porto sepolto, che racchiude l’esperienza di quell’anno trascorso nelle trincee sul Monte San Michele del Carso; nel 1919 Allegria di naufragi, la cui poesia, come scrisse il Raboni, 'è caratterizzata da un lavoro di isolamento e di esaltazione della parola singola sia nei suoi valori di sonorità e di ritmo che nei suoi valori d’intensità emotiva e di significato'. Come il poeta stesso racconta nel suo Ricordo del primo incontro con Ettore Serra, scriveva i suoi versi dove e come poteva, utilizzando brandelli di carta, 'cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali,spazi bianchi di care lettere ricevute', che custodiva gelosamente nel suo tascapane militare. Il giovane tenente Ettore Serra, suo superiore, che amava la poesia e leggeva la Voce, fu il primo estimatore dei versi di Ungaretti. Così, un giorno portò con sé quei brandelli di carta, li fece stampare in ottanta copie e ne fece dono all’amico Ungaretti nel dicembre del 1916. I versi riscossero un immediato successo e furono recensiti qualche mese dopo da Giovanni Papini sul Resto del Carlino. Nel 1923 l’amico Ettore Serra curò una nuova edizione del Porto sepolto che comprendeva anche i versi di Allegria, con la prefazione di Benito Mussolini, che aveva conosciuto nel 1915 tra i più accesi socialisti interventisti. Nel 1925 firmò il Manifesto degli intellettuali fascisti. L’adesione al Fascismo fu per molti intellettuali, anche di estrazione liberale, un disperato tentativo di ritrovane l’ordine dopo il caos della guerra e un nuovo umanesimo come antidoto all’anarchia. L’esperienza drammatica della guerra aveva creato una voragine spirituale, un vuoto che il poeta non riusciva a colmare neppure con gli appelli retorici del vitalismo fascista, in cui in un primo momento aveva creduto. Era un gridare senza voce, una continua domanda senza una risposta. Nel 1928 la sua ansia d’infinito trovava nella conversione al cattolicesimo un approdo al suo male di vivere. Cinque anni dopo, nel 1933, usciva a Firenze la sua seconda raccolta di poesie, Sentimento del tempo. La parola, che nella precedente raccolta, era stata usata nel suo valore primigenio e assoluto, tornava ad assolvere la sua funzione di parte del discorso. La riscoperta dell’endecasillabo e del ritmo metrico caratterizzano la nuova raccolta che contiene poesie più riflesse sui temi della morte, del tempo, della fede. Ungaretti era ormai un poeta conosciuto ed apprezzato anche oltre i confini nazionali, impegnato in un giro di conferenze sulla letteratura italiana contemporanea in vari paesi europei. Nel 1936, invitato dal governo argentino a partecipare al Congresso del Pen Club, gli venne offerta in quella occasione la cattedra di letteratura italiana dall’Università di San Paolo in Brasile, che il poeta accettò anche per dare agio alle sue precarie condizioni economiche. Furono anni segnati dal dolore: nel 1937 morì suo fratello Costantino, che ricorderà nelle prime due poesie della raccolta Il dolore, che la casa editrice Mondadori pubblicherà nel 1947. Nel 1939 un’appendicite mal curata gli portò via il figlio Antonietto di nove anni. Nel 1942 rientrò in Italia, fu nominato Accademico d’Italia e professore di letteratura italiana contemporanea per chiara fama all’Università di Roma. L’incarico, finita la guerra, gli fu revocato a seguito del processo di epurazione, ma successivamente la cattedra gli venne riconfermata. Il poeta poté dedicarsi alla poesia, all’insegnamento e alle opere di traduzione e di critica letteraria. Il povero nella città è la sua prima raccolta di prose, pubblicata nel 1949. L’anno successivo pubblicò La Terra Promessa. Nel 1958 morì la moglie Jeanne, e due anni dopo uscì Il Taccuino del Vecchio, comprendente le poesie scritte dopo il 1952.Gli anni che seguirono videro il poeta impegnato nell’insegnamento, nell’opera di traduzione da Gòngora a Mallarmé, da Saint-John Perse a Blake e in una frenetica attività di conferenziere in Italia e all’estero. La mia generazione ebbe il privilegio di vederlo in alcune trasmissioni culturali della RAI, durante le quali affascinava con il suo reverenziale aspetto di vate canuto, mentre leggeva passi dell’Odissea e alcuni suoi versi, scandendone le sillabe e soffermandosi in pause cariche di silenzio.Onorato dalla maggior parte della classe intellettuale, raggiunse una certa notorietà presso il grande pubblico e fu insignito di premi prestigiosi, come il Premio Montefeltro nel 1960 e il Premio internazionale di poesia Etna-Taormina nel 1966. Nell’estate di questo stesso anno, Giuseppe Ungaretti quasi ottantenne si recò in Brasile, una terra che conosceva bene ed amava, per un ciclo di conferenze pubbliche. Alla fine di uno di questi incontri gli si avvicinò una giovane donna vestita di rosso, Bruna Bianco, di origine italiana, che consegnò all’illustre ospite alcune sue poesie. Ebbe inizio un fittissimo scambio epistolare dal ’66 al ‘69, di cui oggi veniamo a conoscenza grazie alla pubblicazione curata da Silvio Ramat per i tipi della Mondadori. Le quattrocento lettere tutte scritte con inchiostro verde gelosamente custodite dalla destinataria, insieme ai regali ricevuti, raccolte ora sotto il titolo Lettere a Bruna, svelano gli ultimi ardori passionali del vegliardo Ungaretti, più vecchio di oltre cinquant’anni della sua ultima fiamma appena ventiseienne. Si tratta di una pagina della lunga vita del poeta poco nota e assente nella biografia curata dalla stessa casa editrice nei Meridiani del 1969. Il giornalista Marco Cicala ha incontrato recentemente la signora Bruna a Pietra Ligure, dove trascorre le sue vacanze, e hanno conversato con confidente cordialità.Ungaretti aveva tenuto una conferenza all’Hotel Ca’ d’Oro e così rievoca in una sua lirica il primo incontro con Bruna: 'Sei comparsa al portone/ in un vestito rosso/ per dirmi che sei fuoco/ che consuma e riaccende'. Il poeta la invitò immediatamente a colazione, ma lei rifiutò. Di ritorno da Rio, dove s’era intrattenuto per tre giorni, chiamò la ragazza a telefono. Si rividero, andarono in giro per la città, visitarono la tomba del figlioletto Antonietto, morto nel’39 e poi finirono in un parco:'Era di lunedì/ per stringerci le mani/ e parlare felici/ non si trovò rifugio/ che in un giardino triste/ della città convulsa'. La prima lettera data il 14 settembre 1966, inviata dalla motonave che riportava il poeta in Italia; è un telegramma Italcable, la società concessionaria delle telecomunicazioni, firmato 'nonno Ungaretti'.L’amore travolgente e impetuoso riaccende nel poeta la voglia di cantare. Nasce il 'Dialogo', un opuscoletto in edizione numerata di 59 esemplari fuori commercio, comprendente oltre alle sue nove liriche un gruppo di cinque poesie, le Repliche, di Bruna. La giovane donna ha prodotto come una nuova illuminazione nell’animo del poeta, che scopre in leil’allure della bellezza reale e l’incarnazione della figura poetica: Stella, mia unica stella,/ nella povertà della notte, sola,/ per me, solo, rifulgi,/ nella mia solitudine rifulgi;/ ma, per me, stella/ che mai non finirai d’illuminare,/ un tempo ti è concesso troppo breve,/ mi elargisci una luce/ che la disperazione in me/ non fa che acuire'. Il tema del divario anagrafico, come nell’epistolario, trova eco nella poesia. Il suo cuore è inquieto. tormentato dalla consapevolezza che i suoi battiti sono fuori tempo: Sono ormai troppo vecchio, oltre misura vecchio, quasi un antenato'. Forse è vero che al cuor non si comanda e che l’amore tra una giovane e un vecchio può fondarsi su alcuni valori che trascendono la sfera dei sensi per rivolgersi direttamente alla voce dell’anima. Mai, però, come in questa circostanza l’entusiasmo dell’eros deve fare i conti con l’incombenza di thanatos. Bruna si sente predestinata a questo amore impossibile, che vive come 'dolorosa attesa dell’immagine amata'. E nelle Variazioni sul tema della rosa annota: 'Il tuo amore fece germogliare/ sulle spine domate un fiore rosso/ che affido alle tue mani./ Ma già dall’orizzonte accenni addio/ con la tua mano tutta insanguinata./ L’ha punta la rosa donata/ che nutrendo si va di pianto./ Inguantata di sangue/ saluta la tua mano'.Il dialogo d’amore si snoda tra il sogno radioso di una felicità insperata e l’ombra di un tramonto che porta via il sogno: 'Scompare a poco a poco, amore, il sole/ ora che sopraggiunge lunga sera./ Con uguale lentezza dello strazio/ farsi lontana vidi la sua luce/ per un non breve nostro separarci'. Ungà, così il poeta si firmava nelle lettere e nel Dialogo, appare comunque rinvigorito dalla folle passione che improvvisamente lo riconcilia con i piaceri della vita. 'Abbandonò i bastoni, racconta Bruna, smise di camminare curvo. Cambiò perfino abbigliamento. Era sempre in giacca e cravatta. Elegante come un gentleman, profumato come un bebè'. Il poeta aveva un fascino irresistibile, una tale carica sensuale da fare vibrare il corpo della sua ammiratrice al semplice contatto fisico:'Mi abbracciò e mi accompagnò con un lungo gesto delle mani. Tutto il mio corpo fu solcato da una lunga, intima vibrazione, da un piacere sensoriale che non avevo mai provato'. Queste sono le prime sensazioni che Bruna provò fin dal primo incontro con Ungà.Tale la fascinazione esercitata dal poeta settantottenne attraverso il semplice tocco della mano che Bruna pensò subito che quello era l’uomo della sua vita. Decise quindi di presentarlo ai suoi intenzionata a sposarlo. Quest’amore violento e questa passione travolgente scandirono tre anni della loro vita, con rari incontri, sei in tutto, tre in Brasile e tre in Italia. Ungaretti sembrava disposto al matrimonio, se aveva ordinato già le fedi nuziali. Si sarebbero sposati in Brasile per poi insieme trasferirsi in Italia. L’abitazione di Ungaretti era a Roma, in un modesto appartamentino all’EUR che divideva con la figlia e il genero. C’era la possibilità di una casa a Canelli in provincia di Asti di proprietà della famiglia di Bruna, ma la proposta non fu benaccetta. Nel 1968 Ungaretti ricevette in occasione dei suoi ottant’anni solenni onoranze da parte del Governo italiano. Ma nonostante la veneranda età, il poeta non cessava di viaggiare da Roma a Parigi, da Venezia a Londra, da Palermo a Tel Aviv, dalla Svezia alla Germania, dagli Stati Uniti all’America Latina, in Brasile e in Perù per ricevere le lauree Honoris causa, conferitegli dall’Università di San Paolo e di Lima. Ungaretti era convinto di meritare il premio Nobel e ci contava per migliorare le sue condizioni economiche, comprare una casa a Capri e offrire alla sua amata un agiato stile di vita, prossimo a quello in cui ella viveva grazie alle facoltose sostanze del padre. Il premio mancato fu una grossa delusione, ma altri fattori esterni contribuirono a non fare andare in porto il progetto matrimoniale. Non furono tanto le resistenze della famiglia di Bruna, quanto l’opposizione del marito della figlia Ninon, che pare sequestrasse la corrispondenza di Bruna, e anche di alcuni amici, che gli facevano notare che questa sarebbe stata una fiamma passeggera e si sarebbe spenta anch’essa come le numerose avventure che aveva avuto con tante altre figure femminili, sempre belle e di giovane aspetto. Ma la passione per Bruna doveva avere qualcosa in più. Come lei stessa ama raccontare 'gli abbracci di Ungà erano un orgasmo totale', e altrettanto violenti erano gli orgasmi di Ungà, seguiti da polluzioni notturne solitarie, dal momento che anche durante i loro viaggi dormivano in camere separate, sotto l’occhio vigile della governante.L’ultimo messaggio del poeta, che portava già i segni della malattia, giunse a Bruna in Brasile sotto forma di una dedica posta in un libro del 6 novembre 1969:'L’amore mio per te arde/ sempre sotto la cenere' Ungà. Fu l’addio poetico di un amore che accompagnerà il poeta fino al suo ultimo respiro.Bruna, dopo questi tre anni di intensa passione che la legarono all’uomo e al poeta, è rientrata nella dimensione della vita borghese con il suo segreto da custodire. Ha continuato a vivere in Brasile, dove il padre gestiva un’industria di spumanti, ha esercitato la professione di avvocato, si è sposata, ha avuto tre figli, è diventata nonna e, rimasta vedova, dopo cinquant’anni s’è decisa a tirar fuori dallo scrigno le lettere che contengono le pagine più belle ed esaltanti della sua esistenza. Era il mese di giugno del 2012. Francesca Cricelli, poetessa e traduttrice brasiliana, si trovava nella sala riunioni della Casa dasRosas, centro studi di San Paolo, dove stava organizzando una commemorazione di Giuseppe Ungaretti attraverso foto, libri, video del poeta, tanto caro alla studiosa brasiliana, che voleva approfondire il rapporto affettivo e artistico del vate italiano con il Brasile, incuriosita dalla lettura del Dialogo. In quella occasione, la segretaria del Centro Studi le consegnò un bigliettino firmato Bruna Bianco e un numero telefonico. Fu questo l’inizio di un percorso che avrebbe portato Francesca a conoscere Bruna e a cominciare la lettura e la trascrizione delle lettere a quatto mani.Le lettere confermano ed esaltano gli aspetti vitalistici della personalità del vecchio poeta, ardente nelle passioni a dispetto del dato anagrafico. Ungaretti fu un poeta costantemente innamorato della vita, che per lui coincideva con l’arte e con l’amore. Deciso a tuffarsi in tutto quello che si poteva sperimentare di nuovo, era appassionato della pop music; volle fare esperienza della marijuana, che subito respinse perché gli toglieva le forze e non gli dava alcun piacere; amava le mode giovanili, ammirava le ragazze che indossavano con tanta disinvoltura e sfida la minigonna. Stimava la purezza della poesia di Pasolini, anche se i suoi valori etici e religiosi lo tenevano lontano dal giustificare ogni forma di pederastia e di omosessualità, la cui diffusione lo allarmava.Non comprendeva le ragioni della contestazione giovanile del ’68, i cui protagonisti, di estrazione per lo più borghese, accusava di essere 'gridaioli per stupidissimo snobismo e presuntuosi ignoranti".Con i poeti del suo tempo non ebbe rapporti sempre amichevoli.Su Montale il suo giudizio fu altalenante, anche se finì per riconoscerne le abilità poetiche, mentre mal sopportò Quasimodo, 'mediocre poeta che ha rifatto continuamente la mia poesia dannunzianeggiandola. Accusava, poi, il Nobel siciliano di essere un suo calunniatore per la sua adesione al fascismo.Anche se non ebbe la gioia di ricevere il premio Nobel, a differenza di Quasimodo e di Montale, fu insignito, tra i tanti importanti riconoscimenti, della Légion d’honeur e dell’Ordredumérite de la République Française e del titolo di Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana.Tra il 31 dicembre del 1969 e la mattina del 1° gennaio del 1970 scrisse l’ultima poesia L’impietrito e il velluto.L’8 febbraio del 1970 Ungaretti festeggiò il suo ottantaduesimo compleanno in un ristorante romano con pochi amici, tra cui Renato Guttuso, Giacomo Manzù, Goffredo Parise e il suo biografo Leone Piccioni. Fu una serata molto allegra e il poeta sembrava anche fisicamente vigoroso. Poco tempo dopo, infatti, decise di recarsi negli Strati Uniti per ricevere il prestigioso premio internazionale di poesia dell’Università di Oklahoma. Da qui volle recarsi a New York, dove l’acuto gelo della città aggravò la sua bronchite che degenerò in una grave forma di broncopolmonite. Riuscì a riprendersi e a tornare in Italia. La sua fibra ormai era pesantemente provata e le cure mediche cui si sottopose a Milano non riuscirono a prolungare la suaesistenza. Moriva nella notte tra il 1° e il 2° giugno e i funerali si svolsero due giorni dopo a Roma, dove riposa accanto alla moglie Jeanne nel cimitero del Verano.Carlo Bo, uno dei maggiori critici letterari del Novecento, salutò con bellissime parole il poeta scomparso, che la morte ora illuminava di quell’immenso che aveva cercato per tutta la vita e gli concedeva il privilegio di essere ricordato come Un uomo senza tempo, come risuona nella canzone che la famosa cantante Iva Zanicchi gli ha dedicato".-Prof. Antonino Tobia
Inserito il 27 Gennaio 2018 nella categoria Relazioni svolte
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