La vita, la filosofia, lo stile, il linguaggio e la sintassi di Seneca, sono stati presentati brillantemente dal nostro Presidente, Antonino Tobia
Relatore: Prof. Antonino Tobia
Si riporta, qui di seguito, la relazione di Antonino Tobia
Seneca, un gigante, uno dei personaggi della letteratura latina che più si amano, anche e, starei per dire, soprattutto per i suoi difetti, i quali lo fanno apparire così vicino a noi, pur con la sua grandezza. Con tale giudizio Ettore Paratore introduce questo grande autore delle lettere latine nel suo disegno storico della letteratura latina. Di aristocratica e colta famiglia spagnola, Lucio Anneo Seneca nacque a Cordova verso la fine del I sec. a. C., o probabilmente nell’anno 4 dell’era volgare. La madre Elvia eil padre, Seneca il Vecchio, maestro di retorica, si trasferirono a Roma, per assicurare ai figli una buona formazione culturale e avviarli alla carriera politica. A Roma il giovane Anneo fu avviato dal padre agli studi di retorica, ma ben presto prevalse l’interesse per la filosofia, attratto dall’insegnamento del filosofo neopitagorico Sozione di Alessandria. Il neopitagorismo era una setta a carattere filosofico- religioso, guidata da Quinto Sestio. In essa si sosteneva il dualismo tra il mondo e dio, la metempsicosi,la fede in una realtà trascendente ed era caratterizzato da un forte misticismo fondato su certe regole, tipiche della scuola pitagorica, come l’astensione dalla carne, in un continuo esercizio di perfezionamento interiore.La frequentazione del circolo di Sestio aiutò il giovane a sopportare i suoi mali fisici e a concepire serenamente l’idea della morte, ma lo indebolì ulteriormente nel fisico. I culti stranieri erano, però, perseguitati dalla classe politica romana, che considerava tali sette un pericolo per la stabilità del potere. Di ciò era consapevole il padre, che indusse il figlio ad allontanarsi dalla scuola dei Sestii. Seneca si avvicinò alla dottrina stoica, per tanti aspetti vicina alla concezione esistenziale del neopitagorismo. Il suo maestro Papirio Fabiano era, infatti, retore e filosofo stoico vicino alla dottrina dei Sestii. Così Seneca parla della sua formazione giovanile nell’epistola a Lucilio:' Visto che ho cominciato a raccontarti come da giovane mi sono accostato alla filosofia … non mi vergognerò di confessarti il mio amore per la filosofia pitagorica. Sozione spiegava perché Pitagora si era astenuto, dal mangiar carne e perché in sèguito se ne era astenuto Sestio. Le loro motivazioni erano diverse, ma entrambe nobili. Secondo Sestio l’uomo dispone di una quantità sufficiente di alimenti senza che versi sangue e inoltre, quando si straziano dei corpi per il proprio piacere, si crea un’abitudine alla crudeltà. Aggiungeva poi che dobbiamo ridurre i motivi di dissolutezza; e concludeva che la varietà di alimenti è dannosa alla salute e nociva al nostro corpo. Pitagora, invece, sosteneva l’esistenza di una parentela di tutti gli esseri fra loro e la trasmigrazione delle anime da una forma di vita all’altra. Nessun’anima, secondo lui, muore o rimane inerte, se non nell’attimo in cui passa in un altro corpo… Non credi che negli animali domestici o feroci o acquatici possa esserci l’anima che un tempo fu di un uomo? Non credi che nulla finisca in questo mondo, ma muti unicamente sede? Che non solo i corpi celesti percorrano un cammino prefissato, ma anche gli esseri animati abbiano i loro cicli e che le anime seguano una loro orbita?... Se queste teorie sono vere, l’astinenza dalle carni ci rende immuni da colpe; se sono false, ci rende frugali. Che danno te ne deriva a crederci? Ti impedisco di nutrirti come i leoni e gli avvoltoi." Stimolato da questi discorsi, cominciai ad astenermi dalle carni: dopo un anno era diventata per me un’abitudine non solo facile, ma anche piacevole. Avevo la sensazione che il mio spirito fosse più vivace, ma oggi non potrei dirti con sicurezza se lo fosse veramente. Vuoi sapere come ho abbandonato questa pratica? La mia giovinezza coincise con i primi anni del regno di Tiberio: i culti stranieri erano allora messi al bando e l’astinenza dalle carni di certi animali era considerata una prova di pratiche superstiziose. Per le preghiere di mio padre, che non temeva le false accuse, ma odiava la filosofia, ritornai alle vecchie abitudini; egli mi convinse senza difficoltà a mangiare meglio.ep. 108, 17-22 passim. La sua formazione filosofica fu sostanzialmente stoica, ma non disdegnò quanto d’insegnamento morale potesse derivargli dal pensiero cinico ed epicureo. Anzi, sostiene Paratore, nessuno scrittore latino, eccetto Lucrezio che si professò sacerdote dell’epicureismo, cita e loda Epicuro come lui, seguace dello stoicismo, in quanto aveva intuito il profondo legame etico esistente tra le due dottrine filosofiche nella lotta contro le passioni. Nell’epistola 110, 19, la sua formazione giovanile traspare in riflessioni di profonda moralità nella condanna delle ambizioni e del lusso sfrenato: Tutto quanto poteva esserci utile, dio, nostro padre, ce lo ha messo vicino; non ha aspettato che noi lo cercassimo, ce lo ha dato spontaneamente: le cose nocive, invece, le ha nascoste nelle viscere della terra. Possiamo lagnarci solo di noi stessi: abbiamo portato alla luce le cause della nostra rovina, facendo violenza alla natura che ce le nascondeva. Abbiamo assoggettato l’anima al piacere … ; l’abbiamo consegnata all’ambizione, alla sete di gloria, e ad altre aspirazioni ugualmente vane e futili. Ti piace vedere in tavola animali marini e terrestri: gli uni sono più graditi se arrivano freschi sulla tavola, gli altri se, nutriti a lungo e ingrassati a forza, grondano grasso e sembra quasi che scoppino; ti piace la loro squisitezza ottenuta ad arte. Ma perbacco, queste pietanze procurate con enorme fatica e preparate in tanti modi diversi, quando finiranno nello stomaco, diventeranno un unico ammasso ripugnante. Vuoi disprezzare il piacere del cibo? Guarda che fine fa.Attorno al 20 Seneca partì per l’Egitto, ospite della sorella della madre, moglie del prefetto della regione C. Galerio. L’allontanamento da Roma era stato consigliato dai medici, per curare i disturbi alle vie respiratorie, che frequentemente lo angustiavano, come si legge nella lettera 78:Ti tormentano continuamente catarro e febbriciattole, inevitabile conseguenza di un catarro cronico e di vecchia data; mi dispiace tanto più perché ci sono passato anch’io per questo genere di malattia: all’inizio non ci feci caso, ero giovane e potevo ancòra sopportare i danni di un male e comportarmi con una certa arroganza nei suoi confronti; poi, dovetti soccombere, e mi ridussi a essere tutto catarro e diventai uno scheletro. Tante volte mi prese la voglia di farla finita: ma mi trattenne la vecchiaia del mio amorevolissimo padre. Pensai non come potevo morire da forte, ma come mio padre non avesse la forza di sopportare la mia scomparsa. Perciò mi imposi di vivere; talvolta anche vivere è un atto di coraggio.Ti dirò che cosa mi diede sollievo… Gli studi furono la mia salvezza. È grazie alla filosofia se mi sono risollevato, se sono guarito; alla filosofia sono debitore della vita …Anche gli amici contribuirono molto alla mia guarigione; i loro consigli, le veglie, le conversazioni mi erano di sollievo. Niente, mio ottimo Lucilio, rianima un ammalato e lo sostiene quanto l’affetto degli amici, niente serve tanto a ingannare l’attesa e il timore della morte. … Questi sono i farmaci da prendere: il medico ti prescriverà quante passeggiate o quanto moto devi fare; ti raccomanderà di non abbandonarti all’ozio cui si tende quando una malattia costringe all’inattività; di leggere ad alta voce e di esercitare il fiato perché vie respiratorie e polmoni lavorano male; di andare in barca per smuovere le viscere con quel dolce ondeggiare; ti dirà che cosa devi mangiare, quando devi bere vino per darti forza, quando devi astenertene per non provocare e inasprire la tosse. Io ti prescrivo un rimedio adatto non solo a questa malattia, ma a tutta l’esistenza: il disprezzo della morte. Non c’è più nulla di triste, se ci sottraiamo alla paura della morte….Non renderti più gravosi i tuoi mali, non opprimerti con i lamenti: il dolore è leggero se non lo accresci con la tua suggestione. Se comincerai invece a farti coraggio e a dirti: "Non è niente o almeno è cosa da poco; resistiamo, sta per finire", con questi pensieri lo renderai leggero. Tutto dipende dalla suggestione. …Ognuno è infelice quanto ritiene di esserlo. Dopo 11 anni rientrò a Roma con la zia, che lo introdusse nell’ambiente della corte, facendogli ottenere il grado di questore e un anno dopo entrò a far parte del senato. Erano gli anni dell’impero di Caligola, quelli in cui il giovane Seneca decideva di avviarsi alla carriera forense. Il terzo imperatore romano, appartenente alla dinastia Giulio Claudia, era salito al trono il 18 marzo del 37, ma a soli 28 anni fu assassinato da alcuni soldati della guardia pretoriana, a seguito delle stravaganze delle sue scelte politiche e dell’avversione della classe senatoria, da lui ostentatamente esautorata. Anche Seneca era stato preso di mira dall’imperatore.Geloso della brillante eloquenza del giovane oratore, aveva progettato di farlo uccidere, ma aveva desistito per intercessione di una sua favorita, la quale era riuscita a convincerlo che Seneca, macilento qual era a causa della sua vita ascetica, sarebbe morto da lì a poco. Comunque, non poté più pronunciare arringhe, come ricorda all’amico Lucilio con amarezza:Poco fa sedevo fanciullo alla scuola del filosofo Sozione, poco fa cominciavo a discutere le cause, poco fa decidevo di non discuterle più, poco fa cominciavo a non poterlo più fare. Il tempo scorre velocissimo e ce ne accorgiamo soprattutto quando guardiamo indietro: mentre siamo intenti al presente, passa inosservato, tanto vola via leggero nella sua fuga precipitosa (ep. 49,2).Non ebbe maggiore fortuna col prossimo imperatore Claudio. Messalina, moglie dell’imperatore, gelosa di Giulia Livilla, sorella di Caligola, accusò di adulterio la rivale, coinvolgendo nel reato proprio Seneca. Giulia Livilla fu giustiziata, Seneca, a seguito del processo, fu condannato alla relegazione in Corsica, isola selvaggia e inospitale, dove rimase per otto anni, fino al 49.Non è difficile però sospettare che la vera ragione dell’esilio fosse la sua posizione politica in difesa delle prerogative del senato, contro il dispotismo dell’imperatore. La triste esperienza dell’esilio lo indusse ad una più profonda riflessione etico-filosofica che, sotto forma di indagine e di approfondimento dell’anima umana, è giunta fino a noi, che ne ravvisiamo dopo venti secoli il pregio della modernità.Seneca, tuttavia, non pretese mai di essere riconosciuto un eroe, un martire, un superuomo, anzi frequentemente sottopone se stesso ad una severa analisi, rivelando i meriti e i vizi, le debolezze e le virtù, che lo rendono vicino a noi, un uomo che non ritiene nulla alieno da sé nel bene e nel male. Il comportamento di Seneca durante i difficili anni del soggiorno forzato in Corsica rivelò le debolezze di un qualsiasi animo umano. Cercò, infatti ogni forma di raccomandazione per rientrare a Roma. Indirizzò al potente liberto di Claudio, Polibio, una lettera per consolarlo della perdita del fratello, colma di adulazioni per lui e per l’imperatore Claudio, che definisce il più mite dei Cesari, quello stesso imperatore che da morto, nell’Apocolocyntosis, avrebbe beffeggiato senza pietà per compiacere il successore, Nerone: Claudio non è divinizzato, come gli altri imperatori, ma è condotto agli Inferi da Mercurio, processato per i suoi assassini e condannato a giocare a dadi con un bossolo sfondato, costretto a far da servo ad un liberto. Durante gli anni dell’esilio Seneca aveva indirizzato una consolazione alla madre Elvia, in cui comunicava alla madre, con la tranquillità dello stoico, che egli era sereno e che il vulnussubito aveva colpito solo il corpo ma non aveva scalfito il suo animo.Degli stessi anni sono i tre libri De ira, di cui il terzo libro scritto durante l’esilio. Nel trattato lumeggia la saggezza di chi ha appreso a controllare le proprie passioni e può insegnare agli altri, in questo caso il destinatario è il fratello Novato, a rifuggire gli individui posseduti dall’ira, facilmente riconoscibili dai seguenti indizi: gli occhi ardono e mandano scintille,su tutto il viso si diffonde un intenso rossore perché il sangue ribolle, le labbra tremano, i denti sono serrati, i capelli si drizzano irti sul capo, il fiato è oppresso, la parola esce a singhiozzi, le mani si urtano di continuo l’una contro l’altra, e la faccia, con tratti alterati e gonfi, è orribile e disgustosa a vedersi (De ira, l. 1, 1 passim).Nel 49 Agrippina, la nuova moglie di Claudio, anch’essa sorella di Caligola, convinse il marito a far rientrare a Roma Seneca, lo fece nominare pretore e gli affidò l’educazione del figlio L. Domizio, che nel 54divenne imperatore col nome di Nerone. Furono anni felici per l’organizzazione dell’impero. Seneca e il pretore Afranio Burro guidavano la politica del principe con grande equilibrio, rivalutando le funzioni del senato e stabilendo rapporti più equi con gli abitanti delle province. Non mancarono i successi anche in politica estera. Infatti i Parti si ritirarono dall’Armenia senza fare ricorso alle armi e in Germania e in Britannia si stabilirono pacifici accomodamenti. Dal 54 al 59 fu un quinquennio di felice governo. Ma, dopo la fine per avvelenamentonel 55 di Britannico, figlio di Claudio e di Messalina,destinato dal padre al trono e la successiva uccisione della madre Agrippina,i due consiglieri di Nerone si videro costretti a scendere a compromessi con l’imperatore e ad avallare le sue inclinazioni dispotiche, nella speranza di potere in parte controllarne ulteriori eccessi criminosi. Ma ormai il dispotismo neroniano non conosceva limiti e sentiva ingombrante chi pensava di poter interferire nelle sue scelte. La posizione di Seneca, pertanto, diventava sempre più rischiosa e cessava di essere quella del consigliere del principe. La sua persona era oggetto di gravissime calunnie da parte del popolo aizzato dai detrattori, che gli rinfacciavano di essere coinvolto nei delitti del principe e di essersi arricchito a dismisura, sfruttando il suo potere politico. Sull’attendibilità di simili accuse, il giudizio dei critici non è univoco. È probabile che Seneca abbia chiuso gli occhi dinanzi ai crimini del tiranno,perché non poteva fare diversamente,sebbene lo storico Tacito, severo nei confronti del comportamento incoerente e ambiguo del filosofo, esiti a denunciare sue complicità con i delitti neroniani. Nel 62 moriva Burro, forse avvelenato. Seneca vide allora fallire il suo disegno filosofico-politico e decise di ritirarsi a vita privata, avanzando le sue precarie condizioni fisiche e l’età senile. Di certo, Nerone non accolse favorevolmente la decisione di Seneca, che suonava come un rifiuto delle scelte politiche e amministrative dell’imperatore e aspettava l’occasione per liberarsene definitivamente. Nel 65 fu scoperta la congiura antineroniana guidata dalla famiglia deiPisoni. Lucano, nipote di Seneca, fu tra i primi arrestati e con lui tanti rappresentanti dell’aristocrazia romana. Anche Seneca fu coinvolto, perché correva voce che i congiurati avevano deciso di eliminare Nerone e di elevare al trono imperiale Seneca. Non si conoscono le vere responsabilità del filosofo riguardo ai piani dei congiurati, ma le voci che circolavano sul suo conto furono sufficienti ad attirargli la condanna a morte di Nerone.La morte di Seneca presenta molti punti in comune con quella del filosofo Socrate, descritta da Platone nel Fedone: prima di morire il filosofo parla con i suoi amici per consolarli, allontana la moglie, beve la cicuta e offre una libagione alla divinità. Tacito nel XV libro degli Annalesdescrive i particolari della morte di Seneca, esaltandone la nobiltà di spirito, che riscatta le ambiguità della propria esistenza: 62-64 passim. Voltatosi verso gli amici, dal momento che gli veniva proibito di ringraziarli per i loro meriti, diceva di lasciare in eredità la sola cosa che aveva, per quanto bellissima, l’esempio della propria vita… Come disse queste e altre cose come rivolto a tutti, abbraccia la moglie, … e chiede e prega di dominare il dolore, ma di sopportare il desiderio del marito morto con una vita vissuta per mezzo della virtù. Quella al contrario afferma con certezza che la morte era destinata anche a lei e chiede la mano del boia. Allora Seneca, non rifiutandole la gloria, sia per amore, sia per non lasciare esposta alle offese la donna amata in maniera unica da lui, disse: 'Io ti avevo mostrato i sollievi della vita, tu preferisci l’onore della morte: non mi opporrò a questo gesto esemplare… Dopo queste cose con lo stesso colpo si taglia le braccia con il ferro. Seneca, poiché il corpo vecchio e indebolito dalla scarsa alimentazione offriva una lenta uscita al sangue, tagliò anche le vene delle gambe e delle ginocchia; stanco per i crudeli tormenti, per non infrangere con il proprio dolore l’animo della moglie e vedendo i tormenti di lei, la convince ad allontanarsi in un’altra stanza. Ma Nerone, non essendoci nessun odio personale nei confronti di Paolina, e affinché non si accrescesse l’odio per la sua crudeltà, ordina che sia fermata la morte... I servi e i liberti bendano le braccia, le tamponano il sangue. … Intanto Seneca, persistendo lentezza della morte, prega AnneoStazio, apprezzato da lungo tempo per la fedeltà dell’amicizia e per l’arte della medicina, di consegnargli il veleno ; e bevve invano, freddo negli arti ed essendo serrato il corpo alla potenza del veleno. Infine, …essendo finalmente portato in un bagno caldo ed essendo stato ucciso dal vapore di quello, viene cremato senza alcun funerale solenne. Così aveva precedentemente scritto nelle disposizioni testamentarie, quando, ancora molto ricco e potente, pensava alla sua fine.Prima di esalare l’ultimo respiro, Seneca poscit testamenti tabulas al fine di modificare il proprio testamento a favore dei suoi amici. Ma il centurione glielo vieta. Il testamento, in età imperiale, era un atto molto importante, con cui la persona condannata dal sovrano nominava co-erede proprio il dittatore che aveva decretato la sua morte, al fine di tutelare i suoi familiari da ulteriori vendette del principe.Seneca con le sue opere ha lasciato all’umanità un patrimonio di idee che non conosce l’usura del tempo. Da stoico egli sosteneva l’esistenza di due res publicae, una universale governata dal logos, quindi regolata da leggi eterne, che rappresenta la casa di tutti, una omnium domus (De beneficiis, VII, 1, 7) , e una casa limitata allo Stato in cui il destino ti ha fatto nascere, soggetta alla corruzione dei governanti. Il dovere del sapiente è quello di sostenere la politica del principe, guidandolo sulla via della giustizia, della clemenza, della moderazione. Per questo, chi è a capo della cosa pubblica non deve lasciarsi trascinare dagli umori del popolo, per non cedere ai facili populismi, che trascinano i governanti a scelte nocive alla collettività. È un atteggiamento aristocratico ma non classista, in cui si intravvede la sua formazione stoica, lontana dall’individualismo epicureo, che esclude il saggio dall’impegno pubblico.Tutti gli uomini sono membra di uno stesso corpo, sociisumuseius et membra (Epist. 92, 30) e tutti sono legati l’uno a l’altro da un reciproco sostegno come le pietre che unite insieme reggono la volta di un edificio. Anche gli schiavi sono parte di questa costruzione, hanno piena dignità umana e meritano rispetto. Non si nasce schiavi, ma lo si diventa per cause esterne. La storia, infatti, ci insegna che personaggi importanti, principi e potenti hanno subito un capovolgimento della sorte e sono passati dallo stato di liberi a quello di schiavi.Bene, quindi, si comporta il suo discepolo Lucilio, che era procuratore imperiale in Sicilia, a considerare gli schiavi parte della sua stessa famiglia, familiaritercumservis vivere, rispettandoli come uomini, anzi come contubernales, termine di origine militare, che focalizza la medesima militanza dell’esistenza cui sono sottoposti schiavi e padroni vivendo sotto lo stesso tetto: Vis tu cogitare istum, quemservumtuumvocas, ex isdemseminibusortum, eodemfruicaelo, aeque spirare, aeque vivere, aeque mori? (Epist. 47, 1-10, passim).A questa disposizione umanitaria, si accompagna il motivo stoico sel cosmopolitismo. Nella consolazione che invia dall’esilio in Corsica alla madre Elvia il giovane filosofo ribadisce che non è determinante il luogo in cui si nasce. L’individuo, al pari dei corpi celesti, è portato a spostarsi, non riconoscendo alcun confine. La terra è madre e patria comune a tutti gli uomini. Tuttavia, Seneca mantiene sempre una ben precisa aristocrazia intellettuale, determinata dalla saggezza. Infatti, non ama confondersi con il volgo, dal quale è facile essere contagiati nei vizi e nei falsi valori. Una volta, per distrarsi, si era recato al circo e ne era uscito disgustato dalla violenza degli spettacoli. Come pure nella Epistola 56 a Lucilio dichiara tutto lo sconcerto che aveva provato ai bagni termali di Baia, luogo di gozzoviglie, di baldoria e di corruzione, dal quale fuggì il giorno stesso dell’arrivo, stanco di sentire i sospiri profondissimi di chi praticava il sollevamento pesi, o il rumore delle mani che massaggiavano e frizionavano i corpi e ancora il vociare di chi giocava a palla e dei venditori di bibite, o ancora i gridolini di chi si affidava al depilatore (alipilus) per farsi depilare le ascelle .Seneca non è il tipo che ama perdere il suo tempo in attività inutili, convinto che il periodo da vivere che ci viene concesso dalla sorte sia il tesoro più importante concessoci dal destino. I beni materiali, infatti, possono scivolar via e subito dopo essere recuperati, il tempo, invece, una volta perso, non è più recuperabile. Critica perciò quanti, tra cui intellettuali del livello di Aristotele e Ippocrate, si lamentano della malignità della natura, che avrebbe consesso all’uomo un tempo esiguo da vivere:Non exiguumtemporishabemus, sedmultumperdidimus. Satis longa vita … si tota bene collocaretur… aetas nostra bene disponenti multumpatet ( De brevitate vitae , 1). Seneca riconosce all’uomo una sua autonomia che gli consente di scegliere tra il bene e il male e la sua scelta l’allontana o l’avvicina a Dio. Il Dio di Seneca è l’assoluto, il logos che regola l’universo, è l’armonia del Creato. Il Dio senecano si muova tra l’immanenza della ratio e la trascendenza di uno spirito eterno che permea di sé tutta la natura. Si tratta di una concezione che presenta affinità col pensiero giudaico-cristiano che si andava diffondendo anche nelle classi alte della società romana. NellaEpist. 41, 1-2 dà a Lucilio una sua interpretazione della divinità: Non occorre elevare le mani al cielo e non è necessario pregare il custode del tempio, affinché ti consenta di avvicinare le tue labbra all’orecchio della statua del dio, come se potessimo essere ascoltati. Dio è vicino a te, con te, dentro di te …, dentro di noiha sede un sacro spirito, che osserva e controlla le nostre azioni buone cattive. Il perfezionamento morale e la sapienza segnano il cammino che porta a Dio. Questo modo di celebrare la divinità è al contempo la celebrazione dell’uomo. L’individuo senecano non ha bisogno della Grazia divina, propria della fede cristiana, per avvicinarsi a Dio. Egli può aspirare al divino, in quanto partecipe della ratio che lo accomuna a Dio.La divinità non richiede di essere onorata con culti esterni, né essa va antropomorfizzata col ricorso a pratiche superstiziose. In Dio si sommano grandezza infinità e bontà infinita. Se si vuole onoralo occorre agire dentro la nostra mente e prenderlo a modello di perfezione.Da una simile concezione della divinità, che comprende in sé elementi stoici, suggerimenti pitagorici e platonici, deriva una morale che non si distacca molto dalla precettistica cristiana. Si pensi all’esame di coscienza, che precede la confessione, alla comunione di tutti gli esseri viventi in Dio, alla fratellanza e all’uguaglianza, che elimina ogni privilegio di classe, alla condanna dei vizi e alla ricerca della virtù come strumento di perfezionamento spirituale, al rifiuto della violenza e del paganesimo, al concetto di Dio provvidenza, creatore e ordinatore del mondo. Queste e altre affinità tra il pensiero senecano e cristiano hanno fatto pensare ad una corrispondenza epistolare tra il filosofo e S.Paolo. Questa ipotesi, che non trova alcun riscontro critico, per tutto il Medioevo fu suffragata da un epistolario di 14 lettere, redatte nel IV secolo e note a S. Girolamo e a S. Agostino.L’autorevolezza del pensiero senecano presso i cristiani è stato ed è rimasto tale che ancora oggi, con malcelata ironia, si vuole apostrofare chi si esprime con arrogante sicumera con l’espressione siciliana : 'e cu parla Seneca !'. E’ interessante vedere come Seneca anche sul piano psicologico riesca a sorprenderci per la sua modernità. Il suo dialogo non è solo rivolto agli altri, ma anche a se stesso. I malesseri dello spirito non si curano cambiando luogo, ma trovando nella propria mente le cause della depressione. Il proprio io sotto qualsiasi cielo rimane il medesimo e non esiste altro medico che possa curarti se non il tuo quotidiano esame di coscienza. Parlare di interiorità riflessiva nella Roma di Nerone non era facile, eppure il filosofo aveva il coraggio di suggerire al suo Lucilio di essere prius scrutator di se stesso, poi del mondo: per quanto puoi poniti sotto accusa, indaga su te stesso, assumi il ruolo di accusatore, poi di giudice, infine di difensore, talvolta condànnati (Ep. 28, 10). Solo analizzando se stessi è possibile raggiungere la verità, senza fidarsi più del dovuto del pensiero altrui, ma utilizzarlo per averne uno proprio: patet omnibus veritas (Ep. 33). Perciò, da buon osservatore della natura, Seneca consiglia di imitare le api: esse suggono il miele dai diversi fiori scelti, lo portano all’alveare e lo dispongono nei favi con ordine. Allo stesso modo noi ci serviamo di diverse letture e cercheremo di fondere in un pensiero coerente il frutto di ciò che abbiamo letto, in modo che il nostro giudizio presenti un’impronta personale (Ep. 84, passim). E sulla scia di SenecaMichel de Montaigneannota che la cultura personale nasce dallo studio di chi ci ha preceduto; ma perché esso acquisti una dimensione nuova e si trasformi in profitto occorre che tutto sia bene assimilato: E’ prova di non aver maturato e di non aver digeritorigettare il cibo come si è inghiottito. Lo stomaco non ha compiuto la sua opera se non ha fatto cambiare aspetto e forma a quello che gli era dato da cuocere (Essais,1, 26).Seneca sorprende il lettore contemporaneo per il modo in cui scruta i pregi e i difetti dell’umanità, la quale sembra ripetere costantemente certi comportamenti o soffrire dei medesimi mali di due mila anni fa. La frenesia della vita romana del suo tempo è la medesima che viviamo noi uomini del terzo millennio, in uno stato di alienazione che c’impedisce di dedicarci a noi stessi, sopraffatti dal mondo esterno, che oggi penetra nelle nostre vite in modo prepotente ed eccessivamente gridato. Anche il problema ecologico e del giusto rapporto che l’uomo deve mantenere con la natura è da Seneca affrontato in più occasioni. Nella Consolazione alla madre, condanna Apicio, il maestro di scienza culinaria, che decise di togliersi la vita, dopo avere consumato buona parte del suo patrimonio nella lussuria e nella raffinatezza estrema dei suoi lauti banchetti. I dieci milioni di sesterzi rimastigli gli facevano temere di dover patire la fame. Veramente felici furono i tempi in cui la vita scorreva nella semplicità dei costumi e si chiedeva alla natura quanto essa poteva fornire. Non esistevano case costruite su altre case e città che incalzano altre città con periferie degradate. 'Credimi, veramente felici furono i tempi in cui non esistevano architetti né decoratore. I nostri antenati 'non avevanosulle loro teste soffitti intarsiati, ma, giacendo all’aperto , vedevano sopra di sé il moto degli astri nello splendido spettacolo delle notti. Di giorno e di notte godevano di questa bellissima dimora, e con piacere osservavano nel firmamento il tramonto di alcune costellazioni e il sorgere all’orizzonte di altre. … Voi invece, rinchiusi nelle vostre case affrescate, vi allarmate e fuggite pieni di spavento al più piccolo rumore… Quelli non avevano case grandi come città. Il libero respirare dell’aria a cielo aperto, le ombre lievi delle rupi e degli alberi, le acque limpide delle sorgenti, i fiumi non ancora avviliti dall’uomo entro tubi o alvei artificiali, ma liberi nel loro corso, i prati belli naturalmente, e in mezzo a tali delizie un’abitazione campestre costruita da mano rustica, sì che era una dimora secondo natura, in cui si viveva con letizia, senza paura né della casa né per la casa, che ora è gran parte della nostra paura (ep. 90, passim). Lo stoico Seneca estende la sua visione filosofica anche all’esame dei fenomeni scientifici, di cui si occupò nei sette libri delle Naturalesquestiones, che scrisse probabilmente dopo il ritiro dalla vita pubblica.Per gli antichi, potremmo dire fino a Galileo e allo stesso Kant, la filosofia comprendeva anche l’indagine scientifica della natura. Seneca più volte nelle Epistole dichiara la sua commossa ammirazione per le bellezze naturali: …mundumquemsaepetamquamspectatornovus video (ep. 64, 7). Il fascino che il mondo naturale esercita sul filosofo ha in sé qualcosa di intimamente religioso. Dio è natura, è l’universo, è provvidenza. Pertanto, lo studio dei fenomeni naturali, dall’origine dei fulmini ai vento, dai terremoti alle comete non crea solo commossa meraviglia, ma rappresenta la via che conduce al divino, di cui egli sente di fare parte.Per il pensiero stoico c’era una perfetta coincidenza tra la natura e il divino, ma è anche vero che Seneca talvolta si avvicina al neoplatonismo, quando afferma che la virtù libera l’anima e la prepara alla conoscenza delle cose celesti e la rende degna di presentarsi al cospetto di Dio. Ed è tipico del pensiero di Platone il passo in cui immagina che l’anima, al di fuori del corpo, si libri in alto, osservi il mondo e si chieda: Hoc est illudpunctumquod inter tot gentes ferro et ignedividitur? O quamridiculisuntmortalium termini?La medesima riflessione si trova nel SomniumScipionis di Cicerone, anche se in Seneca si tinge di un valore etico più sofferto.Anche se non è perfettamente chiaro se il Dio di Seneca sia un’entità immanente o trascendente, è comunque evidente che il reale e il divino sono inseriti nel medesimo ordine cosmico, regolato da un disegno razionale e provvidenziale.Nell’arco della sua vita, Seneca oltre alle Epistole e ai Trattati, ci ha lasciato nove tragedie, le uniche della letteratura latina pervenuteci integralmente. Si è pensato che i testi fossero destinati alla lettura, ma la critica più recente ne coglie l’aspetto tipicamente drammatico. I modelli sono i tragediografi greci, Eschilo, Sofocle ed Euripide. Se in Hercules furens, in Oedipus e In Agamemnon il dramma si svolge attraverso il rapporto dell’uomo con la divinità e sulla ineluttabilità del fato, che regola l’agire umano, nelle sei tragedie della maturità, le Troades, Medea, Phaedra, le Phoenissae, Oedipus, come nota Ettore Paratore, 'Seneca compie il miracolo di trasferire il dramma dal cielo sulla terra, dalla religiosa trascendenza all’immanenza del nudo dato passionale' (Letteratura latina, vol. 2°, FI, 1983, p. 198). Rispetto ai modelli greci, Seneca accentua i momenti patetici, indugia nell’orrido e nella violenza sanguinaria, allo scopo di dimostrare, sulla scia della dottrina stoica, come il sonno della ragione genera i mostri del delitto, della sopraffazione, di ogni comportamento truce e orripilante, che il sapiente denuncia senza contaminarsi. Lo stile, il linguaggio e la sintassi di Seneca si presentavano ai giovani del tempo come una svolta rivoluzionaria rispetto al paludato classicismo imposto da Quintiliano, con il ritorno allaconcinnitas ciceroniana. Quintiliano giudicava la prosa senecana corrotta e perniciosissima, intessuta di seducenti difetti. Lo scopo che Seneca voleva perseguire era quello di dialogare e di convincere, di educare e di esporre. Pertanto, il suo codice comunicativo doveva essere chiaro, paratattico, quello semplice della conversazione. Seneca apparve subito come un autore moderno per i contenuti delle sue opere e per il suo stile. Piacque alle nuove generazioni e, attraverso il rispetto che il suo pensiero meritava nell’insorgente mondo cristiano, giunse fino a noi come maestro di vita, paradigma della grandezza e della miseria umana. Prof. Antonino Tobia
Inserito il 13 Novembre 2018 nella categoria Relazioni svolte
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