La Libera Università 'Tito Marrone' conclude i lavori dell'A. A. 2010-2011 con un seminario sulla tragedia greca, organizzato dal presidente della Libera Università, prof. Antonino Tobia
Origine del nome
Non esiste una spiegazione sufficiente dell’origine del nome tragedia, che risulta composto da due vocaboli greci: tràgos=capro e odé= canto. È probabile che il termine derivi dal fatto che originariamente il coro nella tragedia indossasse pelli di capra, ovvero che sia in riferimento al sacrificio di un capro, animale sacro al dio Dioniso, il dio del vino e dell’estasi, il cui altare veniva allestito nel teatro in mezzo alla piattaforma riservata alla danza (orchéstra). Il suo culto era associato al ditirambo (una forma di poesia lirica corale), alla commedia e alla tragedia, spettacoli che venivano rappresentati alle feste in suo onore, le Grandi Dionisie, che cominciavano il decimo giorno del mese di Elafebolione (marzo).
Origine della tragedia
Le sole tragedie greche che possediamo sono ateniesi. E’ difficile delineare la sua storia prima del V secolo a. C.. Il poeta latino Orazio attribuisce a Tespi l’origine della tragedia. A lui la tradizione assegna l merito di avere introdotto un attore unico (diventeranno due con Eschilo e tre con Sofocle), il quale copriva il ruolo di un personaggio, che recitava con il capo del coro. Si dice anche che egli abbia inventato la maschera e che vinse il concorso alle Dionisie ad Atene, tra il 536 e il 533 a. C. Il 472 a. C. è la data della prima opera che ci è rimasta, I Persiani di Eschilo.
Istituzione e organizzazione
La tragedia era messa in scena sotto il patronato dello Stato. Alle Dionisie il magistrato incaricato degli spettacoli teatrali era l’arconte eponimo (così denominato perché dava nome all’anno in cui era in carica). Ad Atene il dramma era terreno di competizione. È verosimile che i concorsi drammatici fossero stati istituiti dal tiranno Pisistrato (600-527 a. C.). Tra tutti quelli che facevano richiesta di partecipazione erano scelti tre poeti tragici, ai quali l’arconte assicurava un coro. Un attore principale, il protagonista, era assegnato per sorteggio a ciascun poeta, fra tre scelti e pagati appositamente dallo Stato. Ad eccezione di ciò, le spese erano sostenute dai coreghi, scelti tra i cittadini più ricchi di Atene, che dovevano assumersi l’onere della retribuzione del coro. Ciascun autore metteva in scena tre tragedie, seguite da un dramma satiresco. Il poeta vittorioso era premiato con una corona d’alloro. Gli attori e i componenti del coro erano tutti uomini e solo a cittadini ateniesi era consentito prender parte alle rappresentazioni.
Struttura della tragedia
Nella tragedia greca spiccano due elementi: il canto del coro con accompagnamento musicale, e i dialoghi drammatici tra i personaggio. In generale il coro svolge la parte di coloro che assistono agli eventi; la sua partecipazione all’azione è limitata, simpatizza per l’uno o per l’altro dei personaggi e commenta o interpreta la situazione drammatica. Il coro era composto da dodici coreuti nelle tragedie di Eschilo, portati a quindici da Sofocle. Tutti gli attori e il coro portavano maschere adatte al loro ruolo, tranne il suonatore di flauto che accompagnava il canto del coro. Le maschere coprivano tutta la metà frontale della testa, comprese le orecchie e vi erano attaccate le parrucche. Erano di lino impastato con stucco e dipinte. L’uso della maschera consentiva che un solo attore sostenesse due ruoli. La tragedia greca comprendeva le parti seguenti: A) il prologo, la parte che precede l’ingresso del coro, in cui viene esposto l’argomento della tragedia e la situazione dalla quale prende l’avvio. B) la parodo, il canto che il coro esegue entrando in scena. C) gli episodi, scene alle quali prendono parte, insieme al coro, uno o più attori. D) gli stasima, canti del coro che sta fermo nell’orchestra. E) l’esodo, o scena finale, dopo l’ultimo stasimo. Erano rispettate, come scrive Aristotele nella Poetica, le tre unità di tempo luogo e azione. La funzione era la catarsi degli spettatori attraverso le atrocità presenti sulla scena. La nemesi, la dea della giustizia puniva la ybris, cioè la tracotanza dell’uomo.
Nell’Origine della tragedia il filosofo tedesco Nietzesche sostiene che la tragedia greca sia la sintesi artistica dell’elemento apollineo e dionisiaco.
Andromaca
La tragedia di Euripide, scritta probabilmente nel 426 a. C., durante la prima fase della Guerra del Peloponneso, prende il nome dalla moglie di Ettore, l’eroe troiano ucciso da Achille sotto le mura di Troia. Andromaca finisce nel bottino di guerra di Neottòlemo, figlio di Achille, che la porta con sé in Tessaglia e ne fa la sua concubina. A lui Andromaca dà un figlio, Molosso. Dieci anni dopo, Neottolemo sposa Ermiòne, figlia di Menelao ed Elena. Dal matrimonio non nascono figli ed Ermione accusa l’odiata rivale, Andromaca, di essere la causa della sua sterilità. Pertanto, approfittando della assenza del marito Neottolemo, che si è recato al santuario di Apollo a Delfi, con l’aiuto del padre Menelao decide di uccidere Andromaca e il figlio. Ma la donna riesce a rifugiarsi nel tempio della dea Teti, madre di Achille e nonna di Neottolemo, mentre il piccolo Molosso rimane nelle mani di Ermione e di suo padre Menelao, che minacciano di uccidere per strappare Andromaca dal tempio. I due però vengono salvati dall’intervento del vecchio Peleo, sposo di Teti e padre di Achille e nonno di Neottolemo. Inaspettatamente sopraggiunge Oreste, figlio di Agamennone e cugino di Ermione. Egli annuncia di avere ucciso a Delfi Neottolemo perché da tempo era innamorato di Ermione, promessagli prima che Neottolemo la chiedesse in sposa. Così rapisce la sua amata. Infine, appare Teti, che ristabilisce l’ordine e annunzia il sereno futuro che attende Andromaca ed il figlio, rispettivamente destinati ad essere l’una sposa di Eleno, l’altro capostipite dei re della Molossia. Eleno era figlio di Priamo, quindi cognato di Andromaca, e si trovava come lei schiavo di Neottolemo.
La tragedia pone due donne a confronto e due diversi atteggiamenti dinanzi al destino: Ermione si rivela immatura, incapace di accettare il confronto con Andromaca, né tanto meno la sua sterilità. Appare colta da crisi isteriche anche quando rimprovera alla sua avversaria la condizione di schiava e di concubina e soprattutto di dividere il letto proprio con il figlio di chi l’ha resa vedova. ' E tu, schiava, bottino di guerra, aspiri a diventare la padrona, mi vuoi scacciare. È per i tuoi veleni che il mio sposo mi odia e questo ventre non concepisce … Ma io ti fermo. Morirai. Qui non c’è più il tuo Ettore: questa è una città dei Greci … Ecco la razza barbara, è così: padri e figlie s’uniscono tra loro, figli e madri, sorelle con fratelli … Non è bello che un uomo abbia due donne. Ama una donna sola e ne è felice chi non vuole coprirsi di vergogna'.
Andromaca si presenta con grande dignità sulla scena. Le sue sofferenze l’hanno aiutato a maturare e ad accettare la situazione di concubina, costretta a giacere accanto al padrone non certo di sua volontà. Ma è pronta a morire per salvare il proprio figlio, consegnandosi ai suoi nemici, per i quali è solo una schiava, una 'barbara' Troiana, verso la quale i suoi nemici greci rivelano un atteggiamento di superiorità razziale. Andromaca sfida Ermione riguardo alla sua virtù, che considera dote superiore alla bellezza. 'Sono così fiorente, così giovane, così forte di amici e di ricchezza da fare la regina al posto tuo? … No, non sono i miei veleni se il tuo sposo non ti ama. Per tua sorte, sei incapace di vivere con lui. … La bellezza non fa felice il compagno del talamo, ma la virtù. Tu sei orgogliosa di essere spartana e gridi che Sparta è più grande di Sciro, la patria di tuo marito. E Menelao, tuo padre, è per te più grande di Achille, tuo suocero. Sei troppo orgogliosa dei tuoi natali, ma la donna deve amare anche uno sposo che vale poco, non essergli rivale. O amatissimo Ettore, per te se Cipride piegava il tuo volere, io ti ero compagna, e molte volte offrii il mio seno ai piccoli bastardi, perché di nulla avessi a soffrire. È questa la virtù che mi faceva conquistarlo sempre. Tu non lasci neppure che la rugiada tocchi il tuo sposo … Contro ogni bestia che striscia e che fa danno un dio ha dato un rimedio ai mortali: per la donna, che è peggio della vipera e del fuoco, se è cattiva, non fu trovato un farmaco. Siamo un male terribile, noi donne'. Il dramma non è privo di elementi di attualità. È violenta la polemica ateniese contro gli Spartani: 'Spartani, i più odiosi tra i mortali, maestri di falsità, macchinatori di delitti, banda di assassini ... '. Antonino Tobia
Inserito il 01 Giugno 2011 nella categoria Relazioni svolte
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