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Seconda guerra mondiale: la resa di Pantelleria

La piazzaforte di Pantelleria, nel giugno del 1943, si arrese ancor prima che un solo soldato nemico avesse messo piede sull'isola

Relatore: Ing. Francesco Greco Francesco - Ingiegniere aerospaziale

PANTELLERIA 1943

 

Immagine riferita a: Seconda guerra mondiale: la resa di PantelleriaLa conquista di Pantelleria da parte di Americani e Inglesi nel giugno del 1943 rappresenta un evento particolarmente significativo nella storia della Seconda Guerra Mondiale.
Significativa per due ordini di motivi: il primo, il più ovvio, è quello storico: si trattò della prima operazione aeronavale su vasta scala condotta dagli anglo-americani nel teatro occidentale. Fu un operazione imponente, e per la prima volta, dopo tre anni, gli Alleati (Americani e Inglesi, appunto) riuscirono a rimettere piede in Europa, a prendere possesso di un primo lembo di quella Festung Europe, di quella fortezza Europa che ormai da tre anni era in mano soltanto ai tedeschi, ai loro alleati e ai loro simpatizzanti.
L’effetto mediatico fu ovviamente fenomenale: la sofisticata macchina propagandistica americana fece rimbalzare la notizia in ogni angolo del globo. Titoli a otto colonne, notiziari radio, cinegiornali, documentari fecero rapidamente di Pantelleria il simbolo del riscatto, l’inizio della fine dei regimi nazifascisti. In Italia la caduta dell’isola rappresentò una sorta di campana a morto per il regime fascista, che infatti sarebbe caduto appena due mesi dopo.
Ma vi è un secondo aspetto che rende la conquista dell’isola particolarmente notevole, ed è quello legato alla strategia: Pantelleria è il primo esempio di obiettivo terrestre conquistato esclusivamente tramite l’impiego dell’arma aerea. La piazzaforte di Pantelleria si è arresa ancor prima che un solo soldato avesse messo piede sull’isola.
Oggi questo aspetto potrebbe apparire trascurabile, se non risibile, visto il tipo di conflitti asimmetrici a cui siamo abituati, ma nel 1943 si trattò del conferma sul campo di oltre vent’anni di teorie , dibattiti e discussioni sul ruolo risolutivo dell’aviazione nei conflitti a venire.
Fin dagli anni Venti infatti l’aviazione era stata considerata l’arma risolutiva, esattamente come la bomba atomica nel secondo dopoguerra e negli anni della guerra fredda.
Il grande profeta di questa dottrina era stato un italiano, il generale Giulio Dohuet, che nel 1921 aveva pubblicato un libro poi tradotto in tutto il mondo, 'Il Dominio dell’Aria'. L’idea di Dohuet, condivisa di fatto da un gran numero di strateghi, militari e politici, era che, con l’evolversi dei velivoli, il bombardamento aereo sarebbe stata l’arma in grado di risolvere qualunque conflitto nel giro di pochi giorni. 'I bombardieri passeranno sempre' era la parola d’ordine. Una volta disponibili degli aerei in grado di trasportare un adeguato carico bellico e di provvedere alla propria autodifesa, il bombardamento sarebbe divenuto il sistema definitivo per annientare le forze terrestri e navali, distruggere le città nemiche, demoralizzare le truppe avversarie, terrorizzare i civili, far esplodere le rivolte, far cadere i governi e far vincere le guerre praticamente senza colpo ferire. In  maniera pulita, rapida, asettica, riducendo al massimo il numero di caduti dalla propria parte ed infliggendo il massimo dei danni con il minimo dello sforzo.
C’era addirittura chi pensava che il bombardamento aereo, esattamente come in seguito le armi nucleari, avrebbe scongiurato tutte le guerre future con il suo semplice potere deterrente.
Il problema era che nel 1943, dopo tre anni e mezzo di guerra globale, queste teorie cominciavano seriamente a scricchiolare.
C’erano stati i bombardamenti terroristici (a cominciare da Varsavia e Rotterdam per arrivare a Londra e Amburgo), c’era stata la guerra lampo con l’apporto fondamentale dell’aviazione da attacco, c’erano state le grandi battaglie aeronavali del Pacifico con la dimostrazione dell’assoluta superiorità delle portaerei su qualunque altra unità, ma ciononostante questa tanto attesa rivelazione dell’aereo come arma definitiva ancora non si era vista. A vincere le battaglie e a conquistare il territorio erano sempre e solo gli eserciti di terra (o al limite le flotte navali) e la guerra, che nelle intenzioni di Hitler avrebbe dovuto protrarsi solo per qualche mese, sembrava ancora lontanissima dalla sua conclusione.
L’obiezione comune, peraltro fondata, era che in effetti nessuna delle forze in campo sino a quel momento aveva le risorse, tecniche o materiali, per mettere insieme quelle gigantesche flotte aeree di migliaia di bombardieri pesanti che, nella visione di Dohuet e dei suoi estimatori, avrebbero dovuto spazzare via ogni resistenza avversaria.
Pantelleria segna il punto di svolta. Con il coinvolgimento degli Stati Uniti nel teatro di guerra europeo queste risorse finalmente ci sono. Gli americani avevano sposato in pieno le teorie di Dohuet e avevano progettato e realizzato in numero enorme bombardieri che rispondevano in tutto e per tutto alle caratteristiche richieste (le cosiddette Fortezze Volanti). L’impegno bellico degli USA è poderoso. E Pantelleria diviene il laboratorio per verificare e mettere a punto mezzi, tattiche e strategie di impiego per questo nuovo tipo di guerra. Pantelleria è il luogo dove si sperimentano, in maniera assolutamente scientifica, le tattiche che consentiranno agli Americani di portare a termine tutti gli sbarchi successivi, dalla Normandia a Jwo Jima.
E l’esperimento riesce. gli alleati mettono in campo una macchina da guerra aerea formidabile e curata in ogni dettaglio, e una piazzaforte che era considerata imprendibile si arrende praticamente senza combattere, senza che la sua conquista comporti anche un solo caduto tra le truppe alleate e con un numero relativamente esiguo di vittime anche in campo avversario.
Da un punto di vista difensivo Pantelleria appariva davvero inespugnabile:
83 chilometri quadrati di roccia lavica trasformati in fortezza dal fascismo  per ragioni di prestigio e per costituire una perenne minaccia verso Malta e la base francese di Biserta, meno di 200 chilometri a nord-ovest. La propaganda del regime l’ha dichiarata «imprendibile» ed effettivamente le difese della «Gibilterra italiana», come la stampa ama definirla, sembrano molto munite. Nel 1943, accanto a una popolazione civile di circa 12.000 abitanti, vi è una guarnigione quasi altrettanto numerosa, alla quale sono affidate ventidue batterie antinave e quindici a doppio scopo, antinave e contraeree. La responsabilità della difesa delle isole è della Regia Marina, il comandante è l’ammiraglio Gino Pavesi. Tutte le infrastrutture militari e logistiche sono sotterranee o in caverna, compreso un enorme hangar in calcestruzzo di ben 300 metri di lunghezza per 26 di larghezza e 16 di altezza. Nato da uno stupendo progetto del celebre ingegnere e architetto Pier Luigi Nervi, specializzato nelle costruzioni di cemento armato (autore, fra l’altro, del progetto del Palazzo delle Esposizioni diTorino e del Palazzetto dello Sport di Roma), esso consente il parcheggio di sessanta caccia e sei aerosiluranti. Il principale punto debole di Pantelleria è la totale dipendenza, per i rifornimenti, dalla madrepatria: tutto deve esservi portato via mare o aerea, anche l’acqua, visto che i tre pozzi esistenti sono di modesta entità e le cisterne d’acqua piovana sono quasi vuote nella stagione estiva. Le riserve di viveri per la guarnigione e la popolazione bastano per soli trenta giorni.
In effetti, in vista dello sbarco in Sicilia, la conquista di Pantelleria non era assolutamente indispensabile: sarebbe bastato ridurre le sue difese al silenzio per impedirle di intralciare le operazioni in Sicilia.
Di contro però gli Alleati erano preoccupati dalla presenza su Pantelleria dei radar di avvistamento tedeschi e degli aerei da caccia italiani (circa ottanta secondo le stime, in realtà non più di sessanta all’inizio delle operazioni militari). Una volta conquistata l’isola, inoltre, il suo aeroporto sarebbe stato di grande utilità per appoggiare le operazioni di sbarco in Sicilia, garantendo ai caccia una base in prossimità dell’area dove si prevedeva di far prendere terra al contingente americano. Infine l’isola sarebbe stata perfetta per installare stazioni radio e meteorologiche, e basi di soccorso. A dispetto dei molti rischi dell’operazione, gli Alleati decisero che il gioco valesse la candela e che ben peggiori sarebbero le conseguenze se si fosse lasciata Pantelleria in mano al nemico.
Il 10 maggio i piani per la realizzazione dell’operazione Corkscrew (cavatappi) sono pronti: in primo luogo, si cercherà di fiaccare la resistenza della guarnigione e della popolazione con ripetuti e massicci bombardamenti aerei e navali; in caso di mancata capitolazione, si spera almeno che i danni saranno tali da evitare grosse perdite alle truppe da sbarco che dovranno spezzare definitivamente la difesa italiana. Il D Day, il giorno dello sbarco, è previsto per l’11 giugno, in modo da poter sfruttare al massimo le favorevoli condizioni d’illuminazione notturna.
Il compito di portare l’attacco a Pantelleria viene affidato alla 12a AF americana, alla quale si aggiungono una parte della 9a AF e unità aeree della Raf e della Saaf sudafricana per una forza stimata in poco più di mille aerei dalle basi del Nord Africa, oltre a diverse centinaia di caccia e cacciabombardieri con base a Malta. Al comando della forza di bombardamento strategica, la Nasaf (Northwest African Strategical Air Force), è stato posto il maggior generale James E. Doolittle, un americano famoso per aver condotto nel 1942 il primo raid contro Tokyo con bimotori B-25 decollati da una portaerei, impresa considerata impossibile. Le forze aeree tattiche (Nataf, Northwest African Tactical Air Force) sono affidate al vicemaresciallo dell’Aria inglese Arthur Coningham. Entrambi rispondono al tenente generale Carl Spaatz, comandante della Naaf (Northwest African Air Force), americano. Il non semplice coordinamento e la pianificazione delle operazioni di tutte le forze aeree alleate nel teatro mediterraneo, che comprendono anche la Raf di Malta e il Meac (Middle East Air Command), sempre della Raf, è assegnato alla responsabilità dell’inglese Arthur Tedder, maresciallo capo dell’Aria.
Alla possente armata aerea anglo-americana, la Luftwaffe il 20 maggio 1943 oppone nel Mediterraneo 989 aerei da combattimento, 38 di cui 541 sono caccia e cacciabombardieri, circa la metà dei quali in efficienza. A questi si aggiungono 1385 aerei italiani, che comprendono 901 caccia, 698 in condizione di prendere il volo. Si tratta di una forza considerevole, dispersa, però, su un territorio vastissimo: l’intera penisola italiana e le isole mediterranee fino alla Grecia.
Secondo i piani, l’attacco è suddiviso in due momenti: dalla fine di maggio al 6 giugno (D meno 5) Pantelleria sarà oggetto di pesanti bombardamenti, che a partire dal 7 fino all’alba dell’ 11 (D-day) saranno intensificati fino a coprire le intere ventiquattro ore con un crescendo che salirà dalle 200 sortite giornaliere fino alle 1500-2000 di D meno 1.
I primi bombardamenti avvengono l’8 e l’11 maggio, ma si tratta di poca cosa, poi cessano completamente fino al 18. Nel frattempo, a partire dalla notte del 10 maggio, la flotta inglese dispone una stretta sorveglianza intorno a Pantelleria, che non riesce peraltro a impedire del tutto l’arrivo di rifornimenti.
A partire dal 18 maggio, dopo questi primi sporadici assaggi, a Pantelleria le incursioni alleate sono in continuo aumento, mentre dal mare arrivano le bordate delle artiglierie navali. I giorni di giugno registrano una progressione inarrestabile: sull’isola si rovescia una quantità inimmaginabile di bombe per una superficie così piccola. Negli ultimi cinque giorni vengono scaricate 4705 tonnellate di esplosivo, il 78 per cento delle oltre 6000 sganciate dall’8 maggio. La sola giornata del 10 giugno vede cadere sull’isola 1571 tonnellate, un quarto del totale. Da parte americana, a lanciare sono i pesanti quadrimotori B-17 della Nasaf e i B-24 della 9a AF, i bimotori B-25 e B-26 di entrambe, i bombardieri leggeri A-20 e A-36 della Nataf, i caccia pesanti bimotori P-38 e i monomotori P-40. Ai raid partecipano anche gli inglesi, con i quadrimotori Halifax e i bimotori Wellington che operano di notte, e i Boston, i Baltimore, gli Hurricane, insomma tutto il parco di caccia e bombardieri leggeri, medi e pesanti disponibile. Su Pantelleria, dall’8 maggio all’11 giugno, vengono effettuate 5285 sortite.
In totale tra l’8 maggio e il 10 giugno 1943, per un periodo dunque di trentaquattro giorni, Pantelleria incassò invece una quantità di esplosivo terrificante: su un’area generale di ottantatré chilometri quadrati caddero oltre 24.000 bombe, in media 293 bombe per chilometro quadrato; cioè una bomba ogni 3413 metri quadrati (superficie pari a quella di un cerchio avente un diametro di sessantasei metri). In più, dal 13 maggio, Pantellería fu costantemente cannoneggiata dal mare.
L’11 giugno l’ammiraglio Pavesi si arrende, anticipando l’autorizzazione di Mussolini che, per un misterioso disguido, giunge a Pantelleria a cose fatte.
L’8 era stata intimata la resa con un lancio di volantini, ma non essendo giunta alcuna risposta il martellamento era proseguito con la collaborazione della Royal Navy. Nella mattina dell’11, quando già la flotta alleata è comparsa davanti all’isola, Pavesi, con l’autorizzazione di Mussolini (che in seguito lo bollerà come «il primo in ordine di tempo degli ammiragli traditori»), comunica a Malta che Pantelleria ne aveva abbastanza e alle 12.45 di rimbalzo vengono avvisate le unità aeree, navali e da sbarco. E’ la prima volta che l’arma aerea, per quanto in parziale cooperazione con la marina, vince una battaglia terrestre. L’ultimo atto è iniziato attorno alle 11.30, con una pioggia di proiettili, sparati dai cannoni di 13 o 14 navi da guerra, e di bombe scaricate dall’alto a ondate. Un diluvio di fuoco per favorire lo sbarco della 3` Brigata d’assalto della 1a Divisione di fanteria. L’isola è scossa dalle esplosioni e alla distanza risulta oppressa da una gigantesca nuvola di fumo. Alle 17.35, con la firma sull’atto ufficiale di resa da parte del contrammiraglio Pavesi, si chiude il capitolo dell’assedio di Pantelleria con molto sollievo degli Alleati che non hanno dovuto effettuare un sanguinoso sbarco, dagli esiti imprevedibili, a suggello dell’Operazione.
Le perdite alleate sono «trascurabili», come le definisce il generale Alexander: 4 aerei distrutti, 10 dispersi, 16 danneggiati. 42 La reazione dell’aviazione italiana è stata infatti scarsa, episodica e senza risultati di rilievo. All’inizio della campagna la difesa diretta dell’isola è affidata a una squadriglia di MC.202 e a una sparuta pattuglia di CR.42 adibiti alla caccia notturna, ma i1 21 maggio gli aerei vengono ritirati su basi siciliane per porli al riparo dell’offensiva aerea nemica, lasciando sull’isola solamente quattro Macchi, che saranno resi inservibili dalle bombe alleate. Più consistente l’attività aerea tedesca, anche in questo caso, però, con risultati modesti. Inoltre, nessuna nave è stata affondata nonostante le dichiarazioni del comando supremo italiano, secondo cui gli Alleati avrebbero perso una nave trasporto, 13 mezzi da sbarco e probabilmente un incrociatore.
Nell’euforia della vittoria, che nel pomeriggio dello stesso giorno rende incruento lo sbarco sull’isola della 1a divisione di fanteria britannica, i comandi alleati giudicano decisivo il ruolo dei bombardamenti aerei pesanti e concentrati: per la prima volta nella storia – come dicevamo - l’attacco dal cielo ha da solo determinato la caduta di una posizione militare fortemente protetta.
Eppure, a ben vedere, i danni provocati alle strutture difensive dell’isola, alle installazioni militari, alla guarnigione e alla popolazione sono stati minimi: secondo le fonti, meno di 40 morti e di 150 feriti fra i militari e 4-5 morti e 6 feriti fra la popolazione civile. Secondo la commissione d’inchiesta dell’ammiraglio Iachino, la sera del 9 giugno è ancora efficiente 1’80 per cento delle batterie antinave e il 48 per cento di quelle contraeree. Anche la presunta mancanza d’acqua lamentata dall’ammiraglio Pavesi viene dallo stesso successivamente smentita. È invece vero che, prima della resa, gli italiani non distruggono gli impianti e i sistemi d’arma dell’isola, compreso l’hangar corazzato, che non viene fatto saltare per esplicito ordine di Pavesi. Ingenti quantità di materiali sono così catturate dagli Alleati, insieme a un complesso di infrastrutture quasi del tutto intatto, che si rivelerà per loro molto utile fin dai giorni immediatamente seguenti la caduta dell’isola.
Sul piano militare, l’aspetto forse più interessante della breve campagna di Pantelleria è il metodo adottato per condurre le operazioni e monitorarne «in tempo reale» i risultati.
Gli Alleati ridefiniscono giorno dopo giorno gli obiettivi, grazie alle rilevazioni della ricognizione fotografica, che è in grado di documentare dopo ogni incursione i risultati ottenuti. Il constant check diventa quindi parte essenziale dell’intera operazione: da esso dipende l’indicazione di che cosa colpire in futuro e l’intensità degli attacchi. La valutazione dell’operazione Corkscrew è affidata a uno speciale gruppo di analisti diretto da Solly Zuckerman, già professore di antropologia sociale a Oxford. Vengono accuratamente studiati gli effetti delle bombe sulle postazioni in cemento armato e ci si rende conto che queste appaiono ben poco vulnerabili agli attacchi aerei: per avere una chance di successo si calcola che occorrano almeno quattrocento bombe da 1000 libbre, ciò che rende poco convenienti gli attacchi diretti. Sarebbe infatti necessario, per ogni postazione, l’impiego di sessantasei B-17, ma anche così non si potrebbe distruggere più del 30 per cento dei cannoni. Zuckerman e i suoi concludono che sono i danni indiretti a poter causare l’eliminazione delle batterie italiane: la distruzione delle comunicazioni, la demolizione di strumenti di tiro e di rilevamento, l’impossibilità di effettuare riparazioni e di procurare rimpiazzi per i continui bombardamenti, ai quali si affida anche un importante ruolo psicologico.
Per quanto breve e relativamente indolore, la campagna di Pantelleria si rivela per gli Alleati molto utile sul piano delle lessons learned, gli insegnamenti appresi, in vista delle successive operazioni: innanzitutto, conferma l’importanza della ricognizione fotografica, ma anche la necessità di un migliore coordinamento e di migliori sistemi di comunicazione, oltre a briefings meno approssimativi prima delle azioni d’attacco. L’analisi condotta sul terreno dopo la conquista dell’isola svela altri dati importanti. I cannoni distrutti sono solo quelli interessati da esplosioni avvenute entro un raggio di 5-10 metri; dei 112 siti esaminati solo 53 risultano distrutti da bombe d’aereo e, di questi, solo due da tiri diretti. D’altra parte, le pesanti bombe da 1000 libbre creano un raggio distruttivo di solo una volta e mezzo più ampio rispetto alle 500 libbre, mentre le piccole bombe a frammentazione da 20 libbre si sono rivelate efficaci solo contro chi si trovava all’aperto. Si valutano positivamente, infine, gli effetti delle bombe ritardate che, esplodendo poco dopo l’impatto, scavano buche e lanciano detriti e schegge in ogni direzione aumentando gli effetti distruttivi.  Nell’insieme, per la minuziosità dell’analisi matematico-statistica, il lavoro svolto da Zuckerman e colleghi è impressionante e probabilmente senza precedenti: un’altra prova di quanto conti per l’esito della guerra la superiorità in campo scientifico e tecnologico degli Alleati.
Dal punto di vista italiano, la caduta di Pantelleria è uno shock per la nazione e per il regime: si tratta del primo lembo di terra italiana conquistata dagli Alleati, che tra l’altro hanno fatto 11.000 prigionieri in un sol colpo. L’isola era considerata l’equivalente italiano di ciò che rappresentava Malta per gli inglesi, un bastione nel Mediterraneo. Solo che Malta non era stata né piegata dai violenti e reiterati bombardamenti dell’Asse né espugnata nel corso di due anni. Pantelleria aveva sventolato bandiera bianca dopo un mese. Una resa pasticciata, tant’è che mentre gli osservatori britannici segnalavano una grande croce bianca sull’aeroporto e inequivocabili segnali di deposizione delle armi, c’erano state batterie costiere che avevano continuato a sparare. Addirittura la delegazione alleata appositamente inviata dai comandi non aveva trovato nessuno, nella zona portuale di Pantelleria, con cui trattare i termini del cessate il fuoco. Secondo il rapporto ufficiale britannico c’era stata una postazione d’artiglieria capace di una cadenza di tiro di 1.500 colpi al giorno. Non era affatto vero che gli italiani non si erano battuti; era invece vero che si erano battuti in un modo che sfuggiva alla logica di una guerra moderna e di una strategia precisa. Gli Alleati, sulla flotta da sbarco, avevano stoccato anche razioni di viveri e acqua per oltre 20.000 persone. Naturalmente erano per i difensori e i civili di Pantelleria.
Per addolcire l’amara pillola agli italiani, veniva confezionata una versione di comodo su «Cronache della guerra». Un dettagliato articolo di Giuseppe Caputi dovrebbe spiegare come mai le cose sono andate così male e perché l’imprendibile fortezza ha capitolato. Per prima cosa si specifica un concetto ovvio, e cioè che Pantelleria è terra italiana ma è più vicina all’Africa, cosa che avrebbe facilitato «l’assedio anglosassone» e fiaccato «la resistenza ad oltranza opposta, in condizioni dapprima difficili, di poi addirittura tragiche e disperate del presidio e della stessa popolazione civile». Da tempo i rifornimenti per Pantelleria «si erano fatti progressivamente più difficili e più radi»; l’isola, per sua conformazione, «non era in grado neppure di sostentare la sua popolazione civile in terra di pace», scarseggiando «perfino l’acqua, tanto che è stato necessario rifornirla addirittura con cisterne, con aeroplani, con distillatori e con il relativo combustibile, con trivelle per pozzi». Caputi evidenzia che «è dunque meritevole di nota il fatto che gli anglosassoni, che pure in tante occasioni non hanno esitato a effettuare tentativi più o meno abili di sbarco, abbiano implicitamente ammesso di non poter prevalere sui difensori di Pantelleria fino a quando questi avessero avuto un’arma in pugno, una cartuccia da sparare, un boccone per sostenere il corpo stremato e un sorso d’acqua per placare l’arsura della sete». L’articolista tra tanta retorica si concede un vezzo di oggettività rilevando che l’impresa è stata condotta con un’azione di logoramento affidato «tanto ad azioni di bombardamento navali, quanto ad azioni di bombardamento aereo» ed esplicando le conseguenze delle «violentissime e continue azioni di bombardamento estese su tutta la superficie dell’isola, quali interruzioni delle comunicazioni stradali, telegrafiche e telefoniche, distruzione delle case, delle baracche e dei ricoveri, inutilizzazione dei pozzi, delle cisterne, dei magazzini, incendi dei combustibili, esplosioni dei depositi di munizioni, smantellamento delle centrali elettriche, delle, stazioni radiotelegrafiche, dei mulini, dei forni. La pioggia di ferro e di fuoco proveniente dal cielo e dal mare, trasformando l’isola in un vulcano, ha certo avuto complessi effetti di questo genere ed ha tolto il sonno per molti giorni e molte notti ai tenaci difensori. La resa alla quale essi hanno dovuto alla fine sottostare non è, è vero, la conseguenza di un attacco sferrato dal nemico sbarcando in forze nell’isola [...1; il nemico ha preferito bombardarli [i soldati] da lontano anziché scendere a contendere ad essi palmo a palmo un piccolo lembo del suolo della Patria».
Quel che al Minculpop sfugge, è che se anche la versione propinata agli italiani fosse perfettamente aderente alla realtà - e non lo è - sarebbe la riprova dello strapotere alleato, che può persino evitare di sbarcare fidando sull’inarrestabile forza aeronavale. La versione ‘pubblica’ è naturalmente assai diversa da quella ’privata’, cioè quella che circola negli ambienti del fascismo (e non solo), e forse neanch’essa è del tutto specchio dei fatti. Il Diario di Pietromarchi, alla data 22 giugno (quando cioè le notizie erano cominciate a filtrare in tutte le loro contraddittorietà), è molto duro: «Pantelleria è stato il più grave caso di vigliaccheria di questa guerra. L’isola era imprendibile. Le rocce scendono a picco e per darvi la scalata occorrono battaglioni di Alpini. I rifugi sono in caverna sotto decine di metri di roccia. Gli unici punti nei quali lo sbarco era tentabile sono due piccoli porti facilmente difendibili. Al momento della resa la guarnigione disponeva ancora di 9000 colpi di grandi obici; aveva viveri per sei mesi; le cisterne erano colme. Non è vero che mancava l’acqua. Il comandante di guarnigione telegrafò al Duce che i bombardamenti mietevano vittime tra la popolazione civile. Il Duce per evitare inutile spargimento di sangue ordinò la resa. Si è poi saputo che in un mese di bombardamento i morti sono stati 58! Mentre a Napoli, a Palermo, dovunque si contano a centinaia e a migliaia. L’ultimo giorno durante il quale il bombardamento fu ininterrotto si ebbe un solo, dico un solo morto. L’Ammiraglio Pavesi, eroico difensore di Pantelleria, dovrà chiamarsi ‘pavido’ non Pavesi».

Alla luce dei pochi danni arrecati alle installazioni militari e alla guarnigione, il dibattito sulle reali cause della resa dell’isola è proseguito per decenni. Se le decisioni dell’ammiraglio Pavesi appaiono per lo meno ambigue, certamente il morale dei difensori è molto provato, dopo un mese di continui bombardamenti. Dall’interrogatorio dei prigionieri risulta, peraltro, che le incursioni solamente a partire dal 6 giugno hanno prodotto danni veramente gravi alla guarnigione, causando con il loro estendersi sull’intero arco delle ventiquattro ore privazione di sonno e forzata immobilità, che ne hanno fiaccato la resistenza. Si tratta di un’informazione importante, che aumenta la fiducia alleata nell’efficacia dei bombardamenti aerei. Quest’ultima, unita al riconoscimento dell’utilità di una sistematica intelligence aerofotografica, costituisce l’insegnamento principale della campagna di Pantelleria.
Il successo di Corkscrew rinfranca e rassicura gli americani ben oltre il risultato realmente conseguito. Fra coloro che continuano a manifestare scetticismo per le future operazioni di terra e non tengono conto delle particolarissime condizioni dell’offensiva su Pantelleria, lo stesso generale  Spaatz, in uno slancio di ottimismo sull’onda dell’esito, commenta: «L’impiego delle forze aeree di cui disponiamo può indurre al punto di resa ogni nazione oggi esistente entro sei mesi dal momento in cui viene esercitata questa forma di pressione». Un’aspirazione velleitaria, come dimostrerà la stessa campagna di guerra in Italia che, condotta dagli Alleati con un’eccezionale copertura aerea e il dominio quasi incontrastato dei cieli, dovrà fare i conti con la tenacissima resistenza tedesca e finirà per durare ben più di quanto inizialmente previsto. Francesco Greco
 
 

Autore Prof-Greco

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Inserito il 23 Maggio 2008 nella categoria Relazioni svolte