Il dott. Giuseppe Abbita ha tenuto un'interessante e documentatissima conferenza sul panorama sociale ericino e sugli accadimenti locali del XIII secolo
Relatore: Dott. Giuseppe Abbita
Si riporta qui di seguito la relazione integrale del dott. Abbita
"Oggi vi parlerò di Erice, Erice nel medioevo.Vi parlerò di Erice, e vi parrà di assistere alla vita quotidiana di altri tempi. Vi parlerò di Erice, nelle cui viuzze il tempo sembra essersi fermato; di Erice, in cui ancora oggi, chiese, archi e botteghe duecentesche sembrano parlarci degli uomini che furono e delle loro attività quotidiane. Vi parlerò ancora dell’intensa vita civile, delle attività artigianali, dei testamenti, dei negozi che si svolgevano nella comunità ericina in tempo di pace. Ma vi parlerò anche di venti di guerra, dei preparativi della guerra del Vespro, che era iniziato il 30 marzo 1282, davanti la Chiesa di S. Spirito a Palermo, e che ebbe tra le principali protagoniste proprio Erice e Trapani. Vespro siciliano dicevo, evento di importanza fondamentale per la storia della Sicilia, e non solo, che vide contrapposti gli angioini e il potere temporale della chiesa contro gli aragonesi e i nobili siciliani, evento al quale non furono estranei l’intelligence e la diplomazia bizantina, come mirabilmente esposto in quest’aula dal prof. Filippo Burgarella, docente di storia e civiltà bizantina presso L’Università degli studi di Calabria, figlio e vanto della nostra città di Trapani, venuto a mancare nel Dicembre scorso.Ordunque, durante le scorribande estive della mia adolescenza nella biblioteca di Erice, ebbi la ventura di imbattermi, su consiglio di un illuminato bibliotecario, nella pubblicazione: 'Il registro notarile di Giovanni Maiorana a cura di Antonino De Stefano'.La pubblicazione, che riguarda il registro delle minute degli atti stipulati dal notaio ericino Giovanni Maiorana tra il 1297 e il 1300, è tuttora conservato presso l’Archivio Storico di Trapani ed è ritenuto il più antico registro notarile della Sicilia.Esso si presenta, sono parole dell’autore, come uno specchio fedele e ricco e significativo di quella vita che in essa si svolge, di quella vita che ancor oggi sembra racchiudersi entro la cerchia delle antiche mura, entro i patios fioriti, dietro le persiane chiuse, nelle strade solitarie. Il registro contiene 133 notule riguardanti atti di compravendita di beni mobili e immobili, di testamenti, di permute, di manomissione di schiavi.Ma anche di atti pubblici, sia della comunità cristiana, sia della comunità ebrea.Le minute sono scritte su carta bambagina, carta prodotta su larga scala ad Amalfi, ma di cui sappiamo che esistevano importanti botteghe anche a Palermo.L’uso della carta bambagina era limitato alle minute degli atti, dovendo gli originali essereobbligatoriamente trascritti su un materiale decisamente più prezioso quale la pergamena. Gli atti abbracciano l’ XI, la XII e la XIII indizione, vale a dire gli anni che vanno dal 1297 al 1300.Negli atti Erice porta il nome di Terra MontisSanctiIuliani.Un territorio vastissimo quello di Erice, se pensate che esso abbracciava il territorio dell’odierna Custonaci, di S. Vito, di Valderice e di Buseto Palizzolo, e si estendeva fino alla tonnara di Scopello. I cittadini di Erice costituivano l’Universitas terreMontisSanctiIuliani, una comunità formata dalla pars maior et sanior, cioè dalla maggior parte e più ragguardevole dei suoi abitanti: nobili, militi, artigiani, ma anche contadini.Luogo di riunione era lachiesa di San Giuliano, dove gli ericini si riunivano in assemblea per trattare di affari di interesse generale della comunità alla presenza di un notaio che dava veste legale alle deliberazioni prese dall’assemblea.Ma Erice non era abitata solamente dagli ericini.Ad Erice risiedevano anche numerosi stranieri: siciliani di altre città, ma non solo, lombardi, toscani, veneti, ma anche catalani e maiorchini, che erano approdati in Sicilia al seguito dei baroni spagnoli e che vedevano nell’isola una testa di ponte per i loro traffici commerciali nel Mediterraneo.E poi, ad Erice, era attiva una numerosa colonia ebraica.La popolazione ebraica di Erice, verso il 1300, si calcola che fosse di circa 400 abitanti.Ora, l’ebreo siciliano, a cavallo del 1300, possedeva case e terre come un qualunque cristiano siciliano e svolgeva normalmente la sua attività economico-produttiva esercitando il mestiere professionale nel quale si era specializzato’ebreo siciliano era bottegaio, commerciante, fabbro, falegname, orafo. In alcune professioni, tra le quali quella medica e quella veterinaria, era particolarmente apprezzato e ricercato.I siciliani-ebrei non erano sottoposti a particolari discriminazioni e vivevano ancora, gomito a gomito, con la maggioranza cristiana, in pacifica convivenza. Nella storia dell’isola, d’altra parte, almeno fino al XIV secolo, non si ha memoria di episodi eclatanti di antigiudaismo, e questo è un dato eccezionale, se lo raffrontiamo con altri luoghi dell’occidente cristiano.Verosimilmente gli ebrei godevano ancora, in questo scorcio di secolo, di una autonomia e di una libertà quasi completa. Libertà ed autonomia sanciti dal fatto chegli Ebrei, sotto Federico II, erano diventati servitori della Camera Regia, avevano cioè un interlocutore diretto in Federico II e solo il sovrano poteva emettere editti contro o in favore degli ebrei. Ciò procurava agli ebrei privilegi non tanto di ordine commerciale, ma soprattutto di ordine sociale. Gli ebrei, ad Erice, sul finire del XIII secolo, vivono quindi fianco a fianco dei cristiani, vivono mescolati ad essi, le loro case e le loro botteghe confinano con quelle dei cristiani. Gli ebrei non vivono ancora segregati in una zona ben delimitata della città, nel cosiddetto ghetto, che ad Erice era ubicato, per intenderci, nella zona attorno al Ciclope e nell’area situata tra il balio e il quartiere spagnolo. Non c’è ancora quel clima di diffidenza, per non dire di aperta avversione, che porterà, durante il secolo successivo, ad episodi di intolleranza, talora cruenti, nei riguardi degli ebrei. Gli ericini, per esempio, li costringeranno a scopare le strade in occasione della ricorrenza del Corpus Domini e nel 1393 li costringeranno con le armi a ricevere il battesimo. Ma ritorniamo al registro del nostro notaio Giovanni Maiorana e ad Erice negli ultimi anni del XIII secolo. Scorrendo gli atti del notaio ci rendiamo conto che gli ebrei di Erice comprano, vendono, permutano, contrattano liberamente tra di loro e con i cristiani. Scopriamo che hanno libertà di culto, posseggono una sinagoga, sono proprietari di case, di terreni, vigneti, e anche di schiavi. Certo la loro libertà aveva alcune limitazioni: non potevano acquisire titoli nobiliari, non potevano avere incarichi nella pubblica amministrazione, erano esclusi dall’elenco dei testimoni nei contratti con i cristiani, non potevano avere cristiani al loro servizio, i loro medici non potevano curare i cristiani. Se un cristiano osava farsi curare da un medico ebreo, il primo veniva condannato a tre mesi di carcere a pane e acqua, il secondo a dodici mesi. Inoltre il medico perdeva il suo onorario, che andava a vantaggio dei poveri. Ma questa norma non sembra che venisse applicata e spesso i cristiani si affidavano alle cure di medici ebrei’altra parte, alla corte stessa del re, non mancavano medici ebrei. In altre parole, per principio, l’ebreo non poteva esercitare funzioni di comando, avere i qualche modo la supremazia sui cristiani’altra parte, era vietato, ai cristiani, familiarizzare con gli ebrei, sedere a tavola con essi, entrare a loro servizio. Nella vita economica della città di Erice la classe artigiana ebrea sembra occupare un posto preminente. Sono gli ebrei ad avere il monopolio delle attività artigianali più importanti e lucrose. Sono tutti ebrei, almeno sulla scorta degli atti del notaio ericino, i medici, i fabbri, gli orefici, i carpentieri, i sellai. Numerosi sono pertanto gli atti del registro che riguardano gli ebrei, a testimonianza di una condizione economica se non agiata, di sicuro superiore alla media. I più attivi negli affari appaiono i fabbri e il medico Giacobbe de Ruben, i quali fanno affari sia con gli ebrei, sia con i cristiani. Il medico Giacobbe de Ruben, in un atto, cede ad un lavoratore cristiano un suo vigneto con l’obbligo di bonificarlo e di restituirgliene la metà dopo quattro anni. Sempre con lo stesso atto presta , in due rate, trenta tarì d’oro al contadino, da restituire trascorsi i quattro anni, graziosamente e senza ombra di speculazione: gratis grafia ET amore sino ali quo lucro velusuris.Dobbiamo qui aggiungere che l’attività di prestito era lecita, non era invece lecita la pratica dell’usura. Federico II aveva promulgato nelle Costituzioni di Melfi del 1231, una legge,sotto il titolo De usurariispuniendis, indirizzata agli Ebrei, che li legittimava nella pratica del prestito ad interesse, a condizione che il tasso di interesse non superasse il 10% annuo. Ora, tra gli atti del notaio Maiorana ne troviamo due molto sospetti, due attistipulati nella stessa data , con i medesimi attori e con i medesimi testimoni. Con il primo atto, il 12 settembre 1298, Giovanni di Ruggero di Chinchilla vende a Giuda, giudeo, fabbro, una vigna per il prezzo di 22 tarì e mezzo d’oro.Sempre nella stessa data Giuda, giudeo, fabbro, promette di restituire, allo scadere dell’anno, la vigna, qualora il venditore gli avesse restituito la stessa somma. A prima vista sembrerebbe un banale contratto di vendita con patto di riscatto.Ma, a ben vedere, non è così. Dei ventidue tarì e mezzo, il venditore, davanti al notaio, ne riceve solamente dieci.Dichiara infatti di avere già ricevuto dal fabbro Giuda dodici tarì e mezzo.Ci troviamo, in effetti, di fronte ad un contratto simulato per un prestito oneroso, di un contratto usuraio, in cui il prestito, non potendo essere garantito in altra forma, si nasconde sotto una vendita simulata.Non potendo ufficializzare davanti al notaio un prestito con un tasso superiore al 10 per cento annuo, Giuda il fabbro ricorre pertanto all’espediente giuridico della vendita simulata con pegno.Si configura, in altre parole, un prestito di dieci tarì d’oro, la somma corrisposta davanti al notaio, un pegno costituito dalla vigna ed un interesse di dodici tarì e mezzo da restituire dopo un anno: un prestito con interesse usuraio a tutti gli effetti.Abbiamo detto che un ebreo non poteva avere al proprio servizio un cristiano, ma poteva benissimo avere uno schiavo.Nobili, borghesi, artigiani, ecclesiastici, cristiani ed ebrei, possedevano schiavi.Dagli atti del notaio Maiorana si rileva la presenza in Erice di numerosi schiavi: negri, bianchi, olivastri.Il Mediterraneo, grazie alla sua 'privilegiata' posizione geografica, oltre ad essere stato da sempre centro di attività marinaresche, di commerci e di migrazioni tra le popolazioni che vi si affacciano, fu anche luogo di un intenso traffico piratesco.Nel Mediterraneo la pirateria fu norma generale, ed era praticata da Algeri e da Tunisi, dai siciliani, dai genovesi, dai livornesi, dai pisani.Nel Mediterraneo la pirateria può considerarsi un’industria vecchia quanto la storia, un’industria che in questo mare fu più naturale che altrove e fu praticata in modo aperto da tutte le popolazioni rivierasche.Una vera e propria industria quindi, di cui si poteva essere, di volta in volta, protagonisti attivi o passivi; in cui il predatore di oggi diventava, il giorno dopo, la preda; e viceversa. Trapani era considerato il porto corsaro per eccellenza. Nel Novellino, Masuccio Salernitano, scrive: ' …i trapanisi multo spesso con loro ligni armati corsiggiandodiscorreno le spiagge e rivere de’ mori, fandove de continuo grandissime prede, e anco loro sono a le volte da’ mori depredati' Il Pugnatore, nella Historia di Trapani, racconta la ‘mprisa dei marinai trapanesi che ebbero la sfrontatezza di spingersi fino a Monastir, saccheggiando e mettendo a ferro e fuoco la città.'…….i marinari di Trapani ...avendo armato insino a tredici tra bergantini et altricotal legni somiglianti, ebbero l’ardire di assaltar in Africa la terra di Monastero e di prenderla appresso e saccheggiarla.'E se ciò non bastasse, Miguel de Cervantes, che si era fermato a Trapani per alcuni mesi nel 1574, al seguito del Duca Giovanni d’Austria, e che era stato successivamente catturato dai pirati barbareschi, nella novella L’amante liberale,narra le avventure di due giovani trapanesi, Riccardo e Leonisa, fatti prigionieri dai turchi.Alla fine del ‘400 la flotta trapanese,su un totale di un centinaio di caravelle, brigantini, galeotte e tartane, era costituita da almeno un terzo di navi adibite alla guerra di corsa.Gli impresari si riunivano in società per intraprendere le scorrerie sul mare, ed avevano formato un’agguerrita classe di mercanti-corsari con la partecipazione finanziaria di Ebrei e di potenti cittadini trapanesi.La classe mercantile, in altri termini, aveva cominciato a intravedere nella pirateria e nel mercato degli schiavi una buona fonte di guadagno.I nobili trapanesi non disdegnavano così di investire i loro capitali armando navi corsare, poichè tali investimenti procuravano loro guadagni elevatissimi.Il mercato della schiavitù risultò così essere 'un non disdicevole investimento' mediante il quale « alcune tra le più nobili famiglie si fecero una fortuna »Possiamo affermare che molti patrimoni delle famiglie nobili trapanesi si costituirono grazie soprattutto alla pirateria, formalmente autorizzata e incoraggiata.Ai mercati di schiavi di Algeri e di Tunisi corrispondevano quelli cristiani di Livorno e di Genova, di Trapani e di Palermo.Ora, se per i pirati barbareschi il prigioniero rappresentava un valore essenzialmente per il riscatto, per cui prede particolarmente ambite erano gli appartenenti a famiglie d’alto rango, per i cristiani, invece, i prigionieri diventavano quasi sempre degli schiavi.Infatti raramente venivano richiesti indietro, diventavano così oggetto di commercio interno e venivano impegnati come rematori sulle galere o come servi in ambito domestico.In terra cristiana poi si organizzavano cospicui affari non solo con la vendita degli schiavi, ma anche col riscatto dei cristiani fatti prigionieri dai barbareschi. Almeno fino al ‘400, prima della cacciata degli ebrei dalla Sicilia, un ruolo importante nelle trattative per il riscatto degli schiavi, era rivestito dagli ebrei.La comunità ebraica trapanese, infatti,rispetto ad altre comunità siciliane, nutriva un intenso scambio con il regno tunisino.La giudecca di Trapani, tra le più popolose e più dinamiche della Sicilia, teneva contatti costanti con il mondo berbero a causa della conoscenza della lingua araba, che consentiva ai giudei di dialogare agevolmente con gli abitanti di quelle regioni.È del 1403 la missione del giudeo trapanese Samuele Sala presso il sovrano di Tunisi. Data la sua familiarità con il contesto nord-africano, il Sala era stato incaricato della liberazione di alcuni siciliani prigionieri nel regno tunisino, tra i quali un prigioniero eccellente: il vescovo di Siracusa.La missione andò a buon fine, ma non per le tasche dell’ebreo Sala. Sembra infatti che quella volta il riscatto del vescovo l’ebreo Sala lo abbia dovuto pagare di tasca propria. Nei secoli successivisorsero diverse Compagnie specializzate nel riscatto dei cristiani, compagnie che erano foraggiate da donazioni dei fedeli e da lasciti testamentari.A Trapani, per esempio,era stata fondata una Confraternita per la redenzione dei captivi con sede nella Chiesa di S. Giovanni.Ma anche questa attività si rivelò ben presto occasione di lucro: sappiamo infatti che in materia di 'riscatti' degli schiavi esistevano dei 'cartelli' affaristico-malavitosi, quasi proto-mafiosi, che ne gestivano il controllo.In Tunisia il riscatto degli schiavi era in mano a potenti personaggi di Trapani che erano in affari con altrettanti personaggi di Tunisi. I riscattatori che operavano a Tunisi erano, in altre parole, 'consultori et amici' dei trapanesi, ed eseguivano gli ordini imposti da Trapani, favorendo, dietro compenso, la liberazione di coloro che venivano loro raccomandati, magari prigionieri dell’ultima ora, a scapito di coloro che languivano da anni nelle prigioni barbaresche.Abbiamo visto che numerose famiglie ericine possedevano schiavi.Ma da dove provenivano questi schiavi?Nel 1284 Ruggero di Lauria aveva riconquistato l’isola di Gerba, isola situata nel golfo di Gabes, di fronte alle coste tunisine.Secondo lo storico tunisino IbnKhaldoun, a Gerba ci fu un vero massacro, con grande strage di abitanti e uno spietato saccheggio, e più di ottomila schiavi furono venduti nelle piazze di Trapani e Palermo. E’ molto probabile, quindi, che gli schiavi ericini provenissero da questa isola. Gli atti del notaio Maiorana che riguardano gli schiavi, sono relativi a compravendita, permuta, dote nuziale, manomissione. Lo schiavo veniva cioè venduto , permutato con una casa o con un animale, o assegnato in dote. La vendita di uno schiavo, in Sicilia, poteva avvenire o ad usumferae o ad usummachazenorum. Nel primo caso lo schiavo veniva venduto come in un pubblico mercato, pro sacco ossibuspleno, come in una fiera, in cui il venditore si invola il giorno dopo per altri lidi e non risponde quindi dei difetti e vizi, occulti o palesi, della merce venduta, compresi gli schiavi.Nel secondo caso invece veniva venduto come in un magazzino, dove il venditore è sempre reperibile e risponde dell’integrità della merce venduta. Il compratore, in questo caso, si riservava un certo numero di difetti e di vizi, al manifestarsi dei quali poteva intentare, nei termini della legge, un’azione redibitoria o quella quanti minoris, poteva cioè richiedere indietro, in tutto o in parte, la somma versata per l’acquisto dello schiavo.C’era quindi la tendenza, da parte del venditore, ad enumerare quanti più difetti possibili dello schiavo, allo scopo di prevenire ogni contestazione futura. Così, in un atto di vendita di un notaio palermitano del 1344, un nobile vende ad un milite una schiava olivastra, ma si premura di fare aggiungere che essa è ebriam, ubriacona,fugitivam, cerca di scappare, sarreram, sciarrera ,lingutam, linguacciuta ecc. come per dire: io ti avevo avvisato!La vendita dello schiavo avveniva nelle stesse condizioni degli animali: le formule che venivano impiegate erano le stesse e simili erano i gesti simbolici.Nella vendita di un animale il venditore afferrava l’animale per l’orecchio destro e lo consegnava al compratore: manualiterassignavit per auremdexteram.Il passaggio di proprietà di uno schiavo avveniva invece attraverso la presa della mano destra dello schiavo: et manualiterassignavit per manumdexteram.Lo schiavo poteva anche essere manomesso, poteva cioè diventare un cittadino libero, e fare qualunque cosa può fare un cittadino romano: quequilibetingenuusRomanuscivis et quilibet homo sui iurisfacerepotest.Generalmente le manomissioni erano testamentarie. Con la previsione di una morte imminente infatti, l’ammalato provvedeva, pro rimedio animae, per salvare la sua anima, alla emancipazione, alla liberazione dello schiavo.Ma spesso la rinuncia ai servizi resi da uno schiavo era fatta a malincuore. Così la testatrice Margherita Coppola impone queste condizioni: se essa guarirà dalle sue malattie, lo schiavo Nicolò è tenuto a servirla fino a quando sarà in vita, dopo di che sarà del tutto libero.Altre sono, nel registro, le occasioni per fare testamento, per esempio in prossimità di un pericolo imminente.Così un’altra donna ericina, sicuramente benestante, prima di intraprendere un pellegrinaggio a Roma e a San Giacomo di Compostela, consapevole delle insidie di un così lungo viaggio, ritiene opportuno di fare testamento di tutti i suoi beni mobili ed immobili.E così pure due cittadini ericini, prima di arruolarsi nel regio esercito, e consapevoli dei pericoli cui si va incontro andando sotto le armi : actenteconsiderans…quantissit vita hominispericulis irretita, et maximeprofiscientis ad locumubi bella consurgunt et hominesmoriuntur…., decidono di fare testamento.Siamo infatti in piena guerra del Vespro ed Erice continua a dare il suo contributo alla lotta antiangioina.La città di Erice fornisce uomini, cavalieri, balestrieri, orzo, frumento, animali.Il 26 ottobre 1298, mentre Federico III sta riorganizzando e raccogliendo le sue forze per cacciare gli angioini che erano sbarcati nell’isola, Palmerio Abbate, uno dei primi e principali animatori della resistenza antiangioina, si presenta ad Erice chiedendo, in nome del Re, 100 uomini a piedi e 10 a cavallo e 87 once d’oro per i loro stipendi.Il notaio Maiorana annota che l’università di Erice, riunita nella chiesa di San Giuliano, affida a tre prudentesviros l’incarico di raccogliere la somma voluta, distribuendone equamente l’onere secondo le possibilità finanziarie di ciascuno.Anche ebrei contribuiscono alla guerra del Vespro, e così il 7 novembre 1298 si riuniscono non nella sinagoga, ma eccezionalmente nella chiesa di San Giuliano, per deliberare la raccolta di 4 once d’oro, bastevoli per assoldare 6 uomini per il regio esercito.Un altro atto ancora ci fa sapere che gli uomini erano incaricati della difesa dei passi strategici, e che quelle famiglie che avevano uomini atti alla custodia dei passi, ma che non prestavano tale servizio, dovevano pagare un tarì d’oro.Alla stessa maniera era consuetudine farsi sostituire nel servizio militare, dietro un compenso in denaro. Così un calzolaio e un altro artigiano ericini, non volendo tralasciare la loro attività, si fanno sostituire da altri due cittadini ericini, fornendo loro, oltre allo stipendio, la balestra con la faretra e le quadrelle.Il marinaio Guglielmo Rugnetta evidentemente non aveva designato e non aveva pagato un sostituto, e non essendosi presentato alle armi, era stato segnalato come disertore, condizione questa che comportava gravi conseguenze penali. A trarlo d’ impaccio ci pensò il nobile Palmerio Abbate, il quale dichiarò che il Rugnetta prestava servizio in una galea alle sue dipendenze e il notaio Maiorana fu incaricato di registrare la lettera ufficiale che lo assolveva dall’infamia. Era questa la verità? I fatti si erano svolti realmente così?Il mio sospetto è che il Rugnetta fosse realmente un renitente alla leva e che la dichiarazione del nobile Palmiero Abbate sia stata fatta al solo scopo di evitargli una dura condanna.D’altra parte la parola di Palmerio Abbate non poteva essere messa minimamente in discussione: notevoli erano i suo i meriti ed era uno dei più fidati alleati della corona.La famiglia Abbate era una delle più importanti famiglie trapanesi. Ad essa appartenevano ambasciatori, uomini d’arme , e santi; e alla zia di Alberto, Perna, si debbono le donazioni che permisero la costruzione della Chiesa dell’Annunziata di Trapani.Palmerio Abate era stato uno dei maggiori fomentatori della rivolta del Vespro siciliano del 1282 contro gli Angioini ela leggenda vuole che si sia incontrato, alla vigilia del Vespro, sullo scoglio del Malconsiglio, antistante la torre di Ligny, con Giovanni da Procida e altri nobili siciliani.Inoltre il 30 agosto 1282 lo stesso Palmerio Abbate si occupò di accogliere la flotta di Pietro III d’Aragona sbarcata a Trapani e alle truppe fornì rifornimenti e denari per proseguire la guerra.Nel 1296 partecipò poi alla battaglia navale di Ponza dove sostenne con cinque galee l’ammiraglio del regno, Ruggero di Lauria.Chi poteva quindi permettersi di mettere in dubbio la sua parola? Abbiamo detto che re Pietro III d’Aragona giunse a Trapani alla fine dell’agosto 1282 e diede inizio alla conquista dell’isola, che si rivelò essere un’operazione alquanto lunga e costosa.E abbiamo visto che numerosi atti del registro sono collegati a questo evento bellico.D’altra parte, dovete sapere, che il 1° Dicembre 1299, e quindi nel periodo di tempo cui si riferiscono gli atti del registro, nelle campagne di Trapani fu combattuta una battaglia destinata a condizionare in maniera determinante la guerra del Vespro: la battaglia della Falconaria.Prima di descrivervela, forse è bene che vi riepiloghi sommariamente i fatti che la precedettero.Alla morte di Federico II di Svevia l’impero è debole e diviso.Gli succede al trono Corrado IV, suo figlio legittimo. Nell’attesa del suo arrivo, la reggenza viene assunta da Manfredi, figlio illegittimo di Federico II.Corrado muore e il trono di Sicilia viene pertanto affidato a Manfredi.Ma la Chiesa rivendica la corona di Sicilia.Nel 1266, nella battaglia di Benevento, muore Manfredi, sconfitto da Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia e alleato del papa.Carlo d’Angiò viene incoronato dal papa re di Napoli e della Sicilia.Due anni dopo, Corradino di Svevia, figlio di Corrado, viene sconfitto e decapitato a Tagliacozzo.Carlo d’Angiò sposta la capitale da Palermo a Napoli e opprime il popolo siciliano con una forte pressione fiscale e con le violenze del suo esercito.Nel 1282, con il noto episodio avvenuto davanti alla chiesa di S. Spirito, ha inizio la guerra del Vespro, che si concluderà con la pace di Caltabellotta nel 1302.Guerra del Vespro che vede contrapposti gli angioini al popolo siciliano e a Pietro III d’Aragona che, come abbiamo visto, era sbarcato a Trapani nell’Agosto 1282, per riconquistare l’isola.Pietro III era genero di Federico II, avendone sposato la figlia Costanza, e si considerava il successore, per così dire, naturale, al trono di Sicilia.A Pietro d’Aragona succede il figlio Giacomo II, il quale preferisce tornare in Spagna dove succede sul trono di Spagna e lascia la Sicilia al fratello Federico III.L’11 Dicembre 1295 il parlamento siciliano riconosce Federico III re di Sicilia.Intanto col trattato di Anagni, firmato da Giacomo, dal papa e da Carlo II d’Angiò, Giacomo aveva rinunciato alla Sicilia, gli era stata tolta la scomunica e gli era stato concesso di conquistare la Sardegna e la Corsica.Federico rimane invece in Sicilia, a difendere il suo trono.I due fratelli vengono così a trovarsi in due campi contrapposti.Intanto Roberto d’Angiò, figlio di Carlo II, e Ruggero di Lauria, che nel frattempo aveva abbandonato gli aragonesi per schierarsi con gli angioini,iniziano, su sollecitazione di papa Bonifacio VIII, una campagna militare nella Sicilia orientale.Catania viene conquistata e diventa una delle roccaforti angioine sul versante orientale dell’isola.Per consolidare il successo Carlo II pensa di inviare l’altro suo figlio, Filippo, principe di Taranto, in Sicilia, per creare una testa di ponte nel versante occidentale dell’isola.Il principe Filippo sbarca a Lilibeo con 40 galee e altre navi da carico, con seicento cavalieri e circa mille fanti, e si dirige verso Trapani, la quale viene 'obsessam per mare et per terram, assediata per mare e per terra.'Federico intanto, che si trovava asserragliato nella rocca di Castrogiovanni, l’odierna Enna, per non rimanere preso nella morsa dei due fratelli Roberto e Filippo, e approfittando del fattocheancora gli eserciti angioini non si erano riuniti, sceglie di andare incontro a Filippo.Lascia un congruo numero di uomini a difendere la rocca di Castrogiovanni per coprirsi le spallenel caso in cui Roberto avesse cercato di inseguirlo, e parte alla volta della Val di Mazara.Molti nobili si uniscono a lui al suo passaggio. Federico III poteva quindi contare sulla presenza di Blasco Alagona e dinumerosi altri nobili e su un manipolo di cavalieri della Repubblica ghibellina di Siena.Dapprima Roberto pensa di approfittare del fatto che il re si era allontanato dalla sua roccaforte per sottrargli quei castelli e quelle terre che erano rimasti quasi indifesi a causa della sua assenza; poi opta per il ricongiungimento delle loro forze, tenuto conto anche dell’inesperienza militare e della totale ignoranza dei luoghi da parte di suo fratello Filippo.L’esercito angioino sceglie quindi di procedere a marcia forzata per evitaredi arrivare a Trapani troppo tardi.Intanto Filippo, non essendo riuscito a conquistare Trapani, che contrariamente alle aspettative si era difesa abilmente,arrecando notevoli danni alle truppe assedianti, si dirige verso Marsala.L’esercito di Filippo percorreva la strada che congiunge le città di Trapani e di Marsala, mentre la sua flotta a causa del mare in tempesta e dell’assenza di porti lungo la costa, era costretta a rimanere al largo: non poteva fornirgli un valido aiuto, né poteva assicurargli una via di fuga.Federico, intanto, aveva rapidamente raggiunto la Val di Mazara, e muoveva contro il suo avversario.Arriviamo così allo scontro, alla battaglia della Falconaria, la più grande battagliacombattuta in campo aperto durante la guerra del Vespro, e annoverata tra le grandi battaglie che cambiarono il volto e la storia della Sicilia. Lo scontro fu inevitabile: a Filippo non erano rimaste vie di fuga e non aveva modo di guadagnare tempo in attesa dell’arrivo del fratello Roberto. Lo scontro avvenne 'in campis infra terras Trapani, et Marsaliae' 'in patentibuscampis, quosFalconariamvocant' ,'inter Drepanum et Lilyboeum ad milia passum duo a litorale', nella campagna fra Trapani e Marsala, nella zona della Falconaria, in campo aperto, a due miglia dalla costa.Il piano della Falconaria doveva così necessariamente trovarsi su una strada che congiunge le due città, non lontano dalla costa.Il vallone della Falconaria confina da un lato col casale Ballotta, e dall’altro col casale Misiliscemi e con la via pubblica per la quale si va da Trapani a Marsala: la zona, per intenderci, compresa tra Fontanasalsa, Marausa e Pietretagliate.Un nome da tempo dimenticato,ma che ritorna oggi a vivere nel territoriodi Fontanasalsa e Marausa. Le due frazioni sono infatti congiunte da una Strada Falconara, evidente eredità del nome medievale.La battaglia avvenne con 'magna strages de gente regisKaruli in provincia Scicilie', come riportato nelle cronache del tempo.Cercherò ora di ricostruire le fasi salienti del combattimento.Da una parte erano schierati gli angioini: Filippo d’Angiò, Brolio dei Bonzi e il conte San Severino, dall’altra gli aragonesi: Federico III con la cavalleria senese, Blasco di Alagona, Ramon de Moncada, Giovanni Chiaramonte e altri nobili.Il principe Filippo, spiegate le insegne, divide l’esercito in tre schiere e si prepara allo scontro.La prima schiera, quella centrale, fu assegnata al comando di Brolio de Bonzi, con il compito di affrontare la fanteria nemica. La seconda a sinistra, la tenne per sé Filippo. La schiera sulla destra fu affidata al conte San Severino col compito di affrontare le truppe poste sotto gli stemmi dei nobili fedeli a Federico.Su suggerimento di Blasco d’Alagona anche l’esercito del re viene disposto su tre schiere.Quella di sinistra, che comprendeva i temuti almogaveri, è comandatadallo stesso Blasco. Quella centrale è guidata dal re in persona. L’ultima, composta dai nobili, alleati del re, e posta a destra, viene contrapposta al conte San Severino.Il numero di cavalieri schierati dai napoletaniammontava a seicento. Il numero dei fanti non è specificato, ma le parole 'grantcompaignie depetons' fanno supporre che fosse consistente.Le truppe di Federico erano per lo più composte da fanti, animosi, ma senza disciplina. Ad ogni modo, il loro numero non è esattamente quantificabile.Intanto il re di Sicilia Federico era rimasto indietro rispetto alle altre due schiere, per insignire nuovi cavalieri: le sue insegne pertanto non erano state ancora spiegate.Filippo, credendo di avere la vittoria in pugno, non aspetta altro tempo e da il via alla battaglia dirigendosi contro gli almogaveri. I suoi balestrieri provenzali a cavallo, cominciano a creare dei vuoti nella schiera avversariae Blasco d’Alagona si vede costretto a sollecitare l’intervento del re e dei nuovi cavalieri da lui insigniti, avvisandoli che lo scontro è già iniziato.Nel frattempo i fanti guidati dai nobili siciliani avanzano contro l’ala destra del nemico guidata da Ruggero Sanseverino.Il principe Filippo, reso sicuro da questo momentaneo successo, assicuratogli dai suoi balestrieri, si dirige quindi violentemente verso lo schieramento comandato da Blasco di Alagona, con l’intenzione di annientarlo.Gli almogaveri, nel frattempo, avevano ricomposto le linee e si erano schierati a cuneo, rendendo vani i tentativi di attacco del principe.Filippo pensa quindi di dare manforte al Sanseverino concentrando le sue forze contro i nobili aragonesi,nel varco che il conte di San Severino era riuscito ad aprire. La fortuna sembra arridere a Filippo e agli angioini! Il re Federico intanto, nonostante qualcuno gli avesse suggerito di allontanarsi per sfuggire al pericolo, fa spiegare il suo vessillo, e seguito dagli altri cavalieri, 'quamvis esigui numero', si getta nella mischia.Gli almogaveri nel frattempo si erano ricompattati ed erano pronti a dare nuovamente battaglia.Blasco di Alagonaordina loro di avanzare a piedi.Gli almogaveri erano soldati scelti e abilissimi.Questi soldati, provenientidalle montagne d’Aragona e di Catalogna, avevano un equipaggiamento sommario, molto leggero, in prevalenza di cuoio, un berretto dello stesso materiale, talvolta rafforzato da una retina d’acciaio, e sulle spalle portavano una bisaccia di pelle che conteneva i viveri.Una caratteristica del loro combattimento era quella di atterrare dapprima il cavallo nemico e quindi di combattere corpo a corpo con il cavaliere, tecnica in cui erano abilissimi.Anche gli almogaveri si lanciano quindi nella mischia.Filippo e i provenzali si trovano così ad essere accerchiati.Il sovrano, viene lievemente ferito al volto ed alla mano destra.Il principe Filippo viene catturato e rinchiuso nel castello di Cefalù. San Severino si offre prigioniero e rinchiuso nel castello si Monte San Giuliano. Brolio de Bonzi tenta la fuga, ma viene raggiunto e ucciso con i suoi soldati.Pesanti sono le perdite degli angioini, tanto pesanti da costringere Carlo II d’Angiò a scrivere una lettera al cugino Filippo IV di Francia il Bello, per chiedergli di rimpiazzare l’ ingente perdita di uomini subita nella battaglia della Falconaria.Con la descrizione della battaglia della Falconeria, che mi è sembrato doveroso offrirvi a conclusione di questa mia chiacchierata, avrei esaurito il mio compito di questa serata.Senonchè non posso lasciarvi senza accennare ad un altro personaggio ericino, omonimo del notaio, e vissuto qualche decennio dopo di lui: il milite Giovanni Maiorana. Giovanni Maiorana, miles, non doveva passarsela male economicamente e doveva possedere anche una buona istruzione giuridica.Il 2 Agosto 1339 scrisse manu mea propria, di suo pugno, il suo testamento, una copia del quale è conservata oggi nell’Archivio Pepoli.Egli lasciò legati a tutte le chiese ericine e alla chiesa dell’Annunziata di Trapani, lasciò legati per l’opera di redenzione degli schiavi cristiani caduti nelle mani dei saraceni, per la riparazione delle vie e delle fortificazioni cittadine, per i poveri della città, e non si dimenticò delle fanciulle povere alle quali lasciò cinque doti matrimoniali.Infine emancipò due schiavi e lasciò i suoi libri alla Chiesa di S. Caterina.E non mancano, nel testamento, le indicazioni per il lutto che dovranno portare i familiari.Ma èall’ edificanda chiesa di S. Caterina che lascia la maggior parte dei suoi beni. La chiesa di S. Caterina, da lui iniziata mentre era ancora in vita, dovrà essere completata in tre anni e ad essa dovrà essere annesso un ospedale.Quando sarà completata il suo corpo dovrà essere traslato e sepolto in detta chiesa con una solenne cerimonia: con messe cantate e con ceri in abbondanza.E infine lega alla chiesa di S. Caterina anche quattro tazze d’argento, e la sua spada , anch’ essa guarnita di argento, per farne un calice e una patena.La chiesa di S. Caterina esiste ancora.Indescrivibile è l’emozione che provai entrando per la prima volta in quella chiesa!Mi sembrò di venire catapultato indietro nel tempo, sette secoli prima.La chiesa era intatta: aveva subito pochissimemodifiche nel corso dei secoli e, nonostante l’incuria degli uomini, si era conservata, tutto sommato , in buone condizioni: maestosa nella sua semplicità. Alle pareti delle piccole navate erano ancora presenti degli affreschi,e sembrava quasi che aleggiasse intorno lo spirito del milite Giovanni Maiorana. La storia non è fatta solo di fatti e di personaggi importanti, ma anche, e soprattutto, di persone semplici.Nei prossimi anni, e forse nei prossimi secoli, qualcuno ricorderà ancora il registro del notaio Giovanni Maiorana o il testamento del milite Giovanni Maiorana.Nessuno, credo, ricorderà un altro Giovanni Maiorana, anch’esso ericino, barbiere e attore, indimenticabile interprete del servitore di Rancugghia, nell’omonima commedia ambientata in una Erice medioevale. Egli non rimarrà famoso per averci lasciato un registro di atti notarili o un testamento olografo giuridicamente perfetto, ma non per questo mi sarà meno caro degli altri due.Rimarrà in me indelebile il suo ricordo, il ricordo di una persona d’altri tempi, che catturava per la sua semplicità, la sua simpatia, la sua bonomia, i suoi modi educati e gentili.Ed è con il suo e il mio ringraziamento che concludo questa serata per me piacevolissima e, lo spero, altrettanto per voi."
Inserito il 16 Marzo 2018 nella categoria Relazioni svolte
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