Ha relazionato il dott. Marco Scalabrino - Canti a cura del dott. Alberto Noto. Al pianoforte la prof.ssa Liviana Latino
Relatore: Dott. Marco Scalabrino
Si riporta, qui di seguito, la relazione del dott. Marco Scalabrino
1. Non c’è arte senza vita.
'Dall’età di sedici anni vivo da sola. Ho fatto molti mestieri; ho imparato a leggere a trentadue anni; conosco il mondo e le sue ingiustizie'.
'Non c’è arte senza vita', statuiscono gli studiosi e in Rosa Balistreri questa massima è quanto mai veritiera. Come per linee essenziali vedremo, la sua vicenda umana e la sua parabola artistica sono intimamente connesse.
Per comprendere appieno questa artista è pertanto propedeutico prendere le mosse dalla sua vita, ripercorrere la sua storia familiare, le sue traversie personali. E dunque, al fine di pervenire alle circostanze che ne determinarono gli esordi, ne favorirono l’ascesa, ne consacrarono la fama e il successo, fino a farla divenire 'la voce più struggente e autentica di una Sicilia dolorante e umiliata, ma viva nella fierezza e nella dignità', saggeremo l’'universo' Rosa Balistreri: a Licata prima, a Palermo poi, a Firenze infine e ritorno.
Di Rosa Balistreri, fra gli altri, hanno scritto: Giuseppe Cantavenere, in una biografia titolata Rosa Balistreri: una grande cantante folk racconta la sua vita del 1992; Calogero Carità, nel volume Rosa Balistreri del 1996; Camillo Vecchio, nel saggio U cuntu ca cuntu. La vita di Rosa Balistreri del 2002; Raffaello Piraino, in un racconto incluso ne L’airone bianco e altri racconti del 2009; Nicolò La Perna, nel saggio Rusidda … a licatisa edito nel 2010.
Nacque a Licata (AG) il 21 marzo 1927 Rosa Balistreri e nella città che le diede i natali, con la sua numerosa famiglia, senza acqua corrente e in condizioni economiche e igieniche a dir poco precarie, visse fino ai vent’anni in un unico locale, un umido basso in fondo alla via Marianello (afferma Calogero Carità), parte di un fatiscente fabbricato edificato nella prima metà dell’Ottocento per ospitarvi il lazzaretto dei colerici.
Il padre si chiamava Emanuele e la madre Vincenza Gibaldi. Primogenita, Rosa ebbe tre sorelle: Maria, Mariannina, Angela, e un fratello, Vincenzo, paraplegico dalla nascita.
Il padre fu falegname. Sosteneva la famiglia con i proventi di piccoli lavori e Rosa lo aiutava percorrendo il paese a piedi nudi, carica delle sedie aggiustate da consegnare ai clienti. Sin da bambina si dedicò alle più umili attività: servì nelle case delle famiglie benestanti, lavorò in una fabbrica per la conservazione del pesce e nei periodi estivi accompagnava il genitore a spigolare. In quelle difficili condizioni Rosa scaricava il disagio e la rabbia cantando, con la sua voce roca e profonda. Cantava a bassa voce nei campi, cantava quando nessuno la poteva sentire perché, altrimenti, il padre l’avrebbe picchiata: 'Le donne non cantano! – soleva ribadire l’uomo –. Lo fanno solo le puttane!'
'Una volta – riporta Marilena Monti, in una sua testimonianza pubblicata su Siciliane, Emanuele Romeo editore, Siracusa 2006, a cura di Marinella Fiume – mi raccontò che lei, da bambina, aveva anche lavorato nelle miniere di salgemma. Specificò che il suo lavoro consisteva nello scendere a portare cibo ai minatori. Doveva farne tanti di viaggi e forse questo entrare e uscire dal ventre della terra – ho sempre [suggestivamente] pensato, prosegue Marilena Monti – ha dato origine a quella sua voce graffiante, scarna, cattiva e dolce, tagliente e lacerata così come dovevano essere quei suoi percorsi da bambina scalza e affamata all’interno della miniera'.
'Rosa Balistreri – ricorda Vincenzo Marrali, suo quasi coetaneo – per la vivacità del suo carattere … non accettava né imposizioni né soprusi. Anche da bambina cantava, cantava con quella sua voce roca, gutturale, ma vibrante di gioia e di spensieratezza. Se qualcuno le chiedeva perché cantasse sempre Rosa rispondeva che lei viveva di fame, di botte e di canzoni'.
Non frequentò le scuole da bambina, non poté sposare il cugino Angelino (figlio della zia Mariannina, sorella della madre) che lei amava, perché colei che non sarebbe mai diventata sua suocera pretendeva la dote, indossò le scarpe per la prima volta a quindici anni quando si recò in chiesa a cantare per i battesimi e i matrimoni e, appena diciassettenne, sposò, il 28 ottobre 1944, Gioacchino Torregrossa. Il matrimonio combinato, celebrato al Comune, venne poi officiato con rito religioso il 17 luglio 1948, presso la Chiesa Madre di Licata.
Rimase incinta e il marito-padrone, oltre a farle perdere (per le percosse che le infliggeva) il figlio che aspettava, la obbligò subito a una nuova gravidanza. Nacque una femmina, Angela.
Segnata dalla miseria, la tragica vita di Rosa Balistreri nella Licata dell’epoca si concluse con la prima esperienza del carcere a seguito del tentato omicidio del marito. Allorché infatti lei venne a conoscenza che il marito aveva perso al gioco il corredo della figlia (tale accusa nondimeno fu da altri ritenuta infondata), pensò di porre fine al loro tormentato rapporto e assestò al consorte un colpo di lima al collo sicché, credutolo morto (ma fu solo ferito gravemente), andò a costituirsi. Condannata a sei mesi ne scontò tuttavia solamente ventuno giorni. Quanto al marito, Gioacchino Torregrossa detto forse non a caso Iachinazzu, sebbene questi altrove venga persino descritto: bravu cristianu, travagliaturi, figlio del suo tempo, lei, che verosimilmente lo conobbe meglio di altri, in una sua canzone lo definì lagnusu, latru, jucaturi e ‘mbriacuni.
Troncata la relazione col coniuge, per sfamare sé e la famiglia, Rosa Balistreri lavorò in una vetreria, fece la domestica, si occupò come operaia in un magazzino e alfine si risolse a lasciare Licata e a trasferirsi a Palermo. Nel corso della sua permanenza a Palermo ebbe a patire la sua seconda esperienza del carcere. Messasi a lavorare come cameriera presso una famiglia benestante, non le fossero bastate le vicissitudini precedenti, allora una procace ragazza di vent’anni, Rosa intrecciò una relazione col figlio di questa famiglia, uno studente di medicina, e rimase incinta. Convinta dal giovane a rubare dei soldi dal comodino della padrona di casa, una volta scoperto e denunciato il furto, dovette precipitosamente abbandonare Palermo.
Svolte le indagini, i Carabinieri riuscirono a rintracciarla a Sondrio, dove presso il locale sanatorio era nel frattempo ricoverata la madre e lei si era rifugiata; i militari dell’Arma la tradussero all’Ucciardone e lì rimase reclusa per sette mesi. Nel turbinio di tali peripezie, partorì un bambino che nacque morto. Dopo questi eventi, sistemata la figlia in collegio a Palermo, Rosa trovò impiego come domestica presso i conti Testa e, nel periodo del suo servizio, sotto la guida della contessa ebbe l’opportunità di imparare a leggere e a scrivere.
'I grandi autori siciliani sono l’oggetto dei miei spazi liberi: il Meli, il Vigo, il Veneziano, il Pitrè, il Salomone Marino sono i miei preferiti', dichiarerà poi in una intervista rilasciata al TRAPANI NUOVA nel 1984. Più tardi lavorò come sagrestana nella chiesa Maria SS.ma degli Agonizzanti. Qui viveva in un sottoscala insieme al fratello e, quando la chiesa venne affidata un nuovo sacerdote, costui mostrò un interesse particolare nei suoi confronti. Rosa non cedette e fu mandata via, ma prima svuotò le cassette dell’elemosina per comprare dei biglietti ferroviari. Lasciò perciò Palermo per concludere il suo viaggio in treno a Firenze.
Malgrado quelle disavventure, il periodo trascorso nel capoluogo siciliano fu per lei comunque proficuo; segnò difatti, con l’avere imparato a leggere e a scrivere, l’inizio del suo lento ma progressivo riscatto.
La parentesi fiorentina che seguirà subito appresso, con le ulteriori tragiche vicende familiari ma altresì col raggiungimento di un certo benessere economico, con una nuova storia d’amore e con le influenti amicizie, imprimerà una svolta alla sua esistenza.
A Firenze dal 1957, dove aprì una bottega di calzolaio al fratello Vincenzo, Rosa Balistreri trovò dapprima lavoro come cameriera; successivamente avviò un’attività autonoma con l’apertura di una bottega di vendita di frutta e verdura, che si rivelò fortunata. Quando tutto sembrava andare per il meglio, ecco abbattersi su lei e sulla sua famiglia una anzi due tegole terrificanti. La sorella Maria, al culmine di una lite col marito, venne da costui uccisa il 13 maggio 1957 (il marito finirà poi in un manicomio criminale); per il dolore e la depressione che ne discesero, il padre Emanuele si tolse la vita, impiccandosi a un albero sul Lungarno, il 7 luglio 1958.
Nella città medìcea e a Bologna, Rosa Balistreri incontrò, fra gli altri, Ciccio Busacca, rinomato cantastorie siciliano, e Ignazio Buttitta, che la introdussero nel mondo della canzone siciliana. Buttitta, per di più, la convinse a cantare in pubblico e a imparare a suonare la chitarra. L’incontro con Ignazio Buttitta (che risale circa al 1962 e i rinsaldati rapporti poi a Palermo e ad Aspra di Bagheria negli anni Settanta che sfociarono in una collaborazione artistica felicissima), con Ciccio Busacca, col futuro Premio Nobel Dario Fo e, non ultimi, i primi concerti e la registrazione dei primi dischi sopraggiunsero a mitigare tanta pena.
Nel capoluogo toscano, inoltre, Rosa Balistreri conobbe il pittore Manfredi Lombardo, suo coetaneo: lei lo definì 'un bell’uomo, molto elegante e istruito' e lui la scelse come modella. I due, neanche a dirlo, si innamorarono e decisero di vivere assieme. Con lui Rosa trascorrerà cinque splendidi anni.
E seppure dovette ella affrontare un’altra dura prova (la figlia Angela, infatti, fuggita dal collegio le si presentò in stato di gravidanza) la vita comunque cominciava a sorriderle: adesso lei aveva una casa e il 23 gennaio 1966, a Piombino, debuttò dal vivo.
È opinione corrente che Rosa Balistreri sia stata indottrinata politicamente dai suoi amici della sinistra storica dell’epoca: Ciccio Busacca, Ignazio Buttitta, Dario Fo, Leonardo Sciascia e Renato Guttuso (il quale, per inciso, realizzò un dipinto che fu riprodotto sulla copertina del primo LP che lei pubblicò nel 1972). L’ideologia comunista, d’altronde, le calzava a pennello e comunista lei rimarrà anche allorché diverrà famosa e lo sarà fino alla morte.
Il debutto di Rosa Balistreri nel mondo della canzone professionistica, che coincise con la prima sua apparizione teatrale, fu con Dario Fo nello spettacolo 'Ci ragiono e canto' del 1966.
Dario Fo cercava cantautori per questo suo spettacolo, un remake di canti popolari provenienti da tutte le ragioni italiane, e, apprezzatone il talento, la avviò al teatro. Spiccato il volo, a quella apparizione d’esordio, parecchie altre ne faranno seguito. Nel 1968 recitò nello spettacolo La rosa di zolfo con il Teatro Stabile di Catania; nel 1978 partecipò allo spettacolo La ballata del sale per il Teatro Biondo di Palermo; nel 1979 allo spettacolo La lupa di Giovanni Verga (con Anna Proclemer) e a La lunga notte di Medea; nel 1981 partecipò allo spettacolo La fame e la peste e nel 1982 allo spettacolo Buela, entrambe per la Fondazione Biondo di Palermo; nel 1985 per il Teatro Biondo di Palermo partecipò allo spettacolo Oh bambulè.
Meritano, inoltre, menzione le sue partecipazioni alle Orestiadi di Gibellina (TP): nel 1984 con Agamennone; nel 1985 con Le Coefore; nel 1986 con Le Eumenidi, e va ricordata la sua esibizione, unitamente all’ANTIGRUPPO di Nat Scammacca, del 13 Novembre 1971 a Paceco (TP), con un programma di canzoni e poesie incentrate tutte sulla contestazione della realtà siciliana.
Tante date siciliane perché nel 1970, da cantante ormai di successo, Rosa Balistreri aveva frattanto fatto ritorno a Palermo con il nipote Luca (figlio di Angela) e con la madre. A Palermo rinverdì il proficuo rapporto e la collaborazione con Ignazio Buttitta e conobbe, fra gli altri, l’avvocato Cacopardo. Questi le darà in affitto e poi le regalerà un appartamento popolare, nei pressi del polo universitario, in via Maria SS. Mediatrice al piano terra. Rosa poi, negli ultimi anni della sua vita, abitò per un paio di anni a Partinico.
'Rosa Balistreri – ci informa Raffaello Piraino – arrivava a casa di Buttitta per chiedere nuovi testi da musicare e da cantare. Il poeta l’aveva conosciuta a Firenze e così ricordava quell’incontro: 'Quella sera Rosa cantò il Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali da me scritto. La sua voce pareva venisse dalla terra arsa della Sicilia. Ho avuto l’impressione di averla conosciuta da sempre, di averla vista nascere. Rosa è più che un personaggio: è un romanzo, un dramma!'
Malgrado il successo Rosa Balistreri rimase sempre una donna del popolo e condusse una vita semplice. Il 1987 fu per lei l’ultima stagione artistica come attrice teatrale, mentre come cantautrice continuò a girare per il mondo: Svezia, Germania, America, raccogliendo applausi e apprezzamenti.
Il 20 settembre 1990, a Palermo, a soli 63 anni, Rosa Balistreri (un’artista – scriverà Amedeo Pepe – da considerare un simbolo della nostra Sicilia) morì per le conseguenze di un ictus che l’aveva colpita durante un concerto in Calabria. Per sua volontà le sue spoglie sono sepolte nel cimitero di Trespiano (FI). A Rosa ca cadìu nterra e nuddu a vitti cadiri; si nn’acchianò ncelu e tutti a vittiru, aveva scritto profeticamente Ignazio Buttitta.
Angela, che Rosa Balistreri ebbe dal suo matrimonio con Gioacchino Torregrossa, fu la sua unica figlia. Dopo la separazione dal marito, la figlia le fu affidata dal Tribunale. Allorquando però Rosa iniziò a fare concerti e serate, la piccola (come sopra riferito) fu messa in collegio. I rapporti fra le due donne, anche per problemi di incompatibilità caratteriali, furono perennemente tesi, al limite della rottura.
A sua volta, Angela ebbe un figlio, Luca, che porta il suo stesso cognome. Nato nel 1967, Luca Torregrossa fu perciò nipote di Rosa Balistreri, ma da sempre egli si è professato 'figlio' di Rosa, adducendo a giustificazione le circostanze che il Tribunale di Firenze lo affidò a Rosa sin da quando era in fasce, che egli visse sempre con lei e che lui la chiamava madre, che i loro rapporti furono ognora ottimi, improntati a vero amore filiale.
Burrascoso viceversa, improntato all’amore-odio, il rapporto fra Rosa Balistreri e la sua città natale. Licata ignorerà Rosa Balistreri finanche quando lei era ormai artista affermata, osannata dai giornali e dalle televisioni. Nel corso della sua ultraventennale carriera lei fu a Licata pochissime volte: per ricevere un premio, per una festa dell’Unità nel settembre 1973 e per un concerto. La città di Licata le ha intitolato alla memoria una strada, un centro culturale e ha murato in via Martinez un’epigrafe in quella che fu la sua dimora dopo avere sposato Gioacchino Torregrossa. Solo dal 1999, ovvero nove anni dopo la sua scomparsa, il Lions Club di Licata organizza e promuove il 'Memorial Rosa Balistreri', un concorso di poesia e di musica siciliana inedita.
3. Le canzoni e cenni di peculiarità linguistiche.
Scontato che aspetto saliente dell’esistenza di Rosa Balistreri è stato (sottolinea Francesco Giunta) l’insegnamento che ci ha lasciato, 'il [suo] non piegarsi all’ignoranza, alla prepotenza, all’omertà', attendiamo adesso alla sua musica e ai suoi testi; musica e testi (con le debite eccezioni) tradizionali e da lei rielaborati.
Interprete di grande passionalità, dal 'canto strozzato, drammatico, angosciato', dotata di una voce dal timbro forte e scuro che si imponeva – dichiarò Buttitta – 'per la ferma disperazione e per la tragica dolcezza', Rosa Balistreri 'l’indomabile' venne appellata la 'regina della musica popolare'.
'I testi da lei interpretati – asserisce Melo Freni – provengono in parte dalle raccolte del Favara, in parte li ha direttamente ripescati nell’entroterra siciliano dove le vecchie canzuni riescono ancora a ravvivare la fantasia di un popolo che vive attanagliato nelle antiche paure e sollecitato dall’antica rabbia. La sua matrice è quella dell’impegno sociale, dell’amore che consuma, del dolore'.
Rosa Balistreri (puntualizza Orazio Barrese), che pure ha avuto come riferimento principale le raccolte della tradizione, nella scelta dei testi è incappata in non poche difficoltà. 'Difficoltà perché di ogni canto vi sono innumerevoli variazioni sicché un verso, una strofa, un’ottava possono far parte di canzoni diverse sia per il tema che per il motivo musicale.
Nel testo di Amici amici chi ‘n Palermu jiti [ad esempio] quattro versi fanno parte dell’opera teatrale I mafiusi di la Vicaria [di Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca], rappresentata per la prima volta nel 1863, e due versi sono nel canto La me liti. Testi 'corrotti', dunque, e tuttavia dotati di enormi cariche emotive, espressioni di sentimenti drammaticamente autentici'; canzoni popolari nelle quali non solo la miseria si racconta ma anche l’orgoglio e lo sdegno del popolo siciliano.
Fra le canzoni cantate da Rosa Balistreri parecchie, difatti, sono tratte dalla Raccolta amplissima di canti popolari siciliani di Lionardo Vigo, del 1857; dalla raccolta di Canti popolari siciliani di Giuseppe Pitrè, del 1870; dai libri di Salvatore Salomone Marino, del 1867, e dal Corpus di musiche popolari siciliane di Alberto Favara, del 1957. La scoperta di quei testi rappresentò un momento di fondamentale importanza per la sua crescita. Ne elenchiamo, solo a mo’ di esempio, qualche titolo: Amici amici chi ‘n Palermu jiti, Matri ch’aviti figghi a la Batia, Morsi cu morsi, Tra viddi e vaddi, Chiovi, Mi votu e mi rivotu, Vinni a cantari all’ariu scuvertu.
L’endecasillabo di conseguenza, che della tradizione popolare siciliana è il verso principe e secondo Ungaretti è 'la combinazione elegante delle nostre parole', la fa da padrone. Endecasillabi talune volte a rima baciata, più spesso a rima alternata; distici in Vinni a cantari all’ariu scuvertu; quartine in Mirrina; ottave di endecasillabi in Vurria fari un palazzu. Ecco, ci imbattiamo nella gloriosa ottava siciliana: otto endecasillabi a rima alternata con schema strofico ABABABAB, apparsa in Sicilia nella seconda metà del Quattrocento, il cui antico nome era canzuna, giusto perché era essa accompagnata dal canto che ne permise la straordinaria diffusione in tutta l’Europa (diversa, ricordiamo, è l’ottava toscana: otto endecasillabi i primi sei a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata con schema strofico ABABABCC).
Vi è, in generale, un buon registro ortografico. Si appezzano la trascrizione per esteso degli articoli determinativi: li biddizzi, la liggi, lu nfernu, nonché quella della preposizione più articolo: di la scola, pi lu patruni, nta li manu, a lu focu, cu li facci; accurata, altresì, l’enunciazione degli aggettivi possessivi e dimostrativi: la to casa, sta funtana, st’occhi, benché per meri motivi di ritmo si ricorra talora impropriamente, in luogo dell’aggettivo, al pronome: chistu duluri, chist’annu.
Fra le rare eccezioni annotiamo il raddoppio della consonante iniziale dell’avverbio cchiù, più.
'Si potrà notare – assevera Orazio Barrese – che nei testi dialettali dei vari canti vi sono per uno stesso termine trascrizioni difformi. Ciò in quanto Rosa Balistreri canta i testi delle zone dove li ha appresi e si sa che notevoli sono talora le differenze tra zona e zona'. Taglia, pìgliati, vogliu, figli, megliu, muglieri, la forma prevalente in questi termini è, ad esempio, quella in 'gl', quella ovvero in uso nell’agrigentino da cui Rosa proviene; ma anche la forma in 'ggh' vi compare. Spigoliamo qua e là: la megghiu giuvintù; lu so travagghiu; li campagni spugghiati; figghiu; pigghi; sbagghiu.
Atteso che il siciliano è notoriamente un dialetto il cui lessico è antico di centinaia di anni quando addirittura non di millenni e che pertanto esso è sorretto da lemmi di origine greca, latina, araba eccetera, che ne comprovano la dovizia, la versatilità, la bellezza (a mo’ di esempio: criata, serva; muccaturi, fazzoletto; scursuni, serpe; asciari, trovare; crozzi, teschi; cutuliari, scuotere), approssimandoci alla chiusura portiamo alla vostra attenzione una intrigante notazione.
Guarda chi vita fa lu zappaturi / parti di notti e torna a vint’uri, canta Rosa in Guarda chi vita fa lu zappaturi. Che ore sono – ci chiediamo – le venti ore? Prima dell’avvento delle moderne convenzioni internazionali, che ne hanno stabilito metodi comuni di misurazione, era principalmente il sole a scandire il passare delle ore, oltre che dei giorni; l’alba, il mezzogiorno e il tramonto erano eventi di facile osservazione e su essi si basava la giornata lavorativa, principalmente nei campi. Nel 1800, in Sicilia e nel resto del territorio italiano, erano in uso due differenti sistemi di misurazione del tempo: il primo era il sistema delle 'ore d’Italia', radicato soprattutto nei contadini e in tutti quei lavoratori che basavano le proprie attività sulle ore di luce solare; il secondo era denominato delle 'ore di Francia' o 'ore di Spagna' o 'ore moderne', metodo consolidato nel continente europeo. Con il computo all’italiana le ore venivano conteggiate da 1 a 24 e il passaggio da un giorno a un altro era posto al tramonto del sole o meglio al Vespro, mezz’ora dopo il tramonto. Le 'ventitré' di un certo giorno erano quindi un’ora prima del Vespro e 'l’una di notte' un’ora dopo il Vespro; la notte pertanto apparteneva tutta al giorno successivo. Per valutare correttamente la corrispondenza delle ore indicate con il metodo all’italiana con l’orario attuale, è fondamentale tenere presente la dipendenza dell’ora del tramonto dalla stagione e dal luogo. In Sicilia, ad esempio, l’ora del tramonto variava dalle ore 17.00 attuali nel periodo invernale (da ottobre a marzo) alle ore 20.00 attuali nel periodo estivo (da aprile a settembre). Per operare, allora, una rapida e ragionevolmente esatta conversione tra l’antica ora d’Italia e la moderna ora convenzionale, posto, nel nostro caso, il tramonto alle ore 20.00 attuali del periodo estivo, le venti ore corrispondono alle attuali ore 16.00; le ventuno ore alle attuali ore 17.00; le ventidue ore alle attuali ore 18.00; e così via.
Rosa Balistreri [che fu soprattutto se stessa, selvaggia e autentica] ha inciso ben 120 canzoni.
Prima di darvene succintamente conto, anticipiamo la storia di una di esse: Terra ca nun senti.
Di evidente taglio autobiografico e sociale: 'vint’anni di turmentu / cu lu cori sempri ‘n guerra'; 'malidittu ddu mumentu / ca grapivi l’occhi ‘n terra'; 'terra ca nun teni / cu’ voli partiri, / e nenti ci duni / pi falli turnari', Terra ca nun senti, brano con il quale Rosa Balistreri stava partecipando al Festival di Sanremo del 1973, venne esclusa dalla gara. 'Il brano non era inedito', questa la motivazione ufficiale che ne comportò l’esclusione. Rosa Balistreri, tuttavia, soppesò che i motivi fossero ben altri, fossero politici, legati all’'impegno' della sua proposta. Alberto Piazza l’autore, incisa nel 1973 per la Cetra Folk, Terra ca nun senti può vantare di recente l’interpretazione, nel corso del suo concerto tenuto al Teatro Massimo Bellini di Catania ad aprile 2016, della celeberrima cantante israeliana Noa.
Ecco cosa Rosa Balistreri dichiarò nel corso di una intervista (pubblicata sul periodico 'Qui Giovani' del 22 marzo 1973) rilasciata in seguito all’esclusione dell’ultimo minuto dal festival di Sanremo della sua canzone Terra che non senti; episodio che suscitò molto fragore, al punto che Rosa venne considerata da molti la vera vincitrice del festival di quell’anno: 'Li ho messi tutti nel sacco. Le mie storie di miseria provocheranno guai a molti pezzi grossi il giorno in cui l’opinione pubblica sarà più sensibile ad argomenti come la fame, la disoccupazione, le donne madri, l’emigrazione, il razzismo … Finora ho cantato nelle piazze, nei teatri, nelle università, ma ... adesso ho deciso di gridare le mie proteste, le mie accuse, il dolore della mia terra, dei poveri che la abitano, di quelli che l’abbandonano, degli operai, dei braccianti, dei disoccupati, delle donne siciliane che vivono come bestie. Era questo il mio scopo quando ho accettato di cantare a Sanremo. Anche se nessuno mi ha visto in televisione, tutti gli italiani che leggono i giornali sanno chi sono, cosa sono stata, tutti conoscono le mie idee, alcuni compreranno i miei dischi, altri verranno ai miei concerti e sono sicura che rifletteranno su ciò che canto'.
Tante, nel suo repertorio, le canzoni con tema squisitamente politico e di antitesi e di netto rifiuto della mafia: La Sicilia avi un patruni, Storia per la morte di Lorenzo Panepinto, La ballata del prefetto Mori, Lamentu pi la morti di Turiddu Carvevali ed altre; tante altresì quelle con richiami al mondo del lavoro e fra esse: Guarda chi vita fa lu zappaturi, Cantu di pesca, E lu suli ntnini ntinni. Numerose pure quelle con tema attinente alle carceri: Nta la Vicaria, Amici chi n Palermu jiti, Iudici ca liggi studiati e altre che i suoi periodi di reclusione potrebbero avere favorito. E non vi difettano le canzoni con contenuto religioso e fra esse: La notti di Natali, Vennari santu, Filastrocca a lu bamminu.
Non trascurata una curiosità che attiene al testo Ntra viddi e vaddi, il quale con minime variazioni che non ne stravolgono il senso viene riproposto, col titolo Storia da figghiuledda rubbata di pirati, dal gruppo milazzese Taberna Mylaensis nell’album Fammi ristari ‘nto menzu di to brazza del 1976;
riportato per stralci il testo di Iudici ca liggi studiati: nun sapiti lu ‘nfernu unni si trova, / va jiti nni li vecchi carzarati / ca iddi vi nni ponnu dari nova … lu ‘nfernu nta li carzari si trova, e per intero uno fra i più conosciuti ma anche belli e suggestivi, quello di Amici amici chi n Palermu jiti: Amici amici chi n Palermu jiti / mi salutati dda bedda citati / mi salutati li frati e l’amici / puru dda vicchiaredda di me matri. / Spiatini di mia chi si ni dici / si li me cosi sunnu cuitati / ca siddu voli Diu comu si dici / pur’iu cci haju a jiri a libirtati;
premesso che la successiva riedizione dei dischi di Rosa Balistreri su CD, fra il 1996 e il 2000, si deve alle edizioni Il Teatro del Sole, Francesco Giunta direttore in Palermo, concludiamo con una carrellata sulla sua essenziale discografia:
La voce della Sicilia, LP a 33 giri del 1967 e CD del 1996, che contiene fra gli altri: La siminzina, Guarda chi vita fa lu zappaturi, Matri chi aviti figghi a la Badia, Cummari Nina cummari Vicenza, Caltanissetta fa quattru quarteri, I pirati a Palermu (testo di Ignazio Buttitta); Un matrimonio infelice, del 1967, che racconta la tragica storia della sorella Maria; Amore tu lo sai la vita è amara, del 1971 e ristampato in CD nel 2000, che contiene fra gli altri: Mi votu e mi rivotu, Ntra viddi e vaddi, Signuruzzu chiuviti chiuviti; Terra che non senti, del 1973 e CD del 2000, che contiene fra gli altri: Cantu di pesca, A virrinedda, E la pampina di l’aliva; Noi siamo all’inferno carcerati, del 1974 e CD del 2000, che contiene fra gli altri: Iudici ca liggi studiati, Morsi cu morsi, Vicaria, Amici amici chi n Palermu jiti; Vinni a cantari all’ariu scuvertu, del 1978 e CD del 2000, che contiene fra gli altri: E lu suli ntnini ntinni, La Sicilia havi un patruni, Storia pi la morti di Lorenzu Panepintu, Vinni a cantari all’ariu scuvertu; Rari e inediti, CD del 1997, che contiene fra gli altri Mafia e parrini, con testo di Ignazio Buttitta e musica di Otello Profazio, le tradizionali Vitti na crozza e La barunissa di Carini nonché Quannu moru, canzone che è intesa quale il testamento spirituale di Rosa Balistreri.- Marco Scalabrino
Inserito il 17 Maggio 2019 nella categoria Relazioni svolte
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