Leonardo Salvaggio ha illustrato con dovizia di particolari tutte le operazioni di sbarco degli Alleati e la conquista della Sicilia
Relatore: Dott. Leonardo Selvaggio
QUELL’ESTATE DEL ‘43 - PRESENTAZIONE DEL 26/4/2012 AD AUGUSTA
E’ assai probabile che la potente Piazzaforte Militare Marittima Augusta - Siracusa abbia condizionato la pianificazione dell’invasione della Sicilia, cioè il Piano Husky, che i programmatori anglo-americani elaborarono ad Algeri tra il febbraio ed il maggio del 1943.
La Piazzaforte si stendeva da Punta Milocca, verso Capo Ognina a sud di Siracusa, fino a Campalato, a nord di Augusta e sulla estremità settentrionale del Monte Tauro. ( immagine P.P.) C’era un fiorire di potenti batterie costiere antinave e antiaeree che gli Stati Maggiore italiani definivano di potenza micidiale.
Punto d’eccellenza era la cosiddetta Opera A, una batteria di 2 ex pezzi navali da 381/40 sistemata in caverna in corrispondenza del Capo Santa Panagia di Siracusa, che avevano una gittata oltre 30 km., oltre ad un treno armato con 6 pezzi da 102/35 e mitragliatrici antiaeree, parcheggiato nella sottostante stazione di Targia che, scorrendo sui binari lungo la costa, poteva intervenire su tutto il litorale fino a Messina, e a 2 pontoni armati, uno con due pezzi da 190/45 mm e uno con due da 149/47 mm più uno da 76/40, ormeggiati nella rada di Augusta, ma rimorchiabili in difesa dello specchio di mare dove fosse richiesto il loro intervento.
( immagine P.P. delle zone di sbarco).
E’ comunque ormai certo che, che gli inglesi decisero di sbarcare a cavallo di Capo Passero tra Punta Castellazzo, alla estremità occidentale della cosiddetta Costa dell’Ambra, e la zona di Fontane Bianche, attraverso Porto Palo, Marzamemi, Avola, poiché ne conoscevano la debolezza difensiva. Le informazioni raccolte li rassicuravano che era la peggio difesa di tutta l’isola. C’era schierata la 206° divisione costiera del generale d’Havet, con circa 36 uomini per chilometro con 2 fucili mitragliatori e 3,6 mitragliatrici; disponevano in tutto di 56 pezzi leggeri di artiglieria, cioè uno ogni 2,4 km, quasi sempre ippotrainati,di cui 8 del 1891, un pezzo anticarro ogni sei chilometri, un mortaio ogni quattro chilometri; li collegava un fatiscente sistema di comunicazioni che impediva ogni azione di coordinamento tra gli uomini e i comandi. Le opere di difesa erano costituite da occasionali reticolati di filo spinato, pochi campi di mine segnalati con il cartello, pericolo mine, molti bunker spesso vuoti.
All’alba del 10 Luglio, vi si rovesciarono 4 divisioni inglesi più una brigata, per un totale di quasi 30.000 uomini, che in pochi giorni sarebbero diventati circa 60.000, con 288 pezzi di artiglieria campale, oltre a quelli potentissimi delle navi e diecine e diecine carri armati Sherman. A loro supporto avevano 818 navi da guerra e circa 700 mezzi da sbarco che se ne rimasero alla fonda indisturbate se non da deboli attacchi di coraggiosi aviatori. A contrastarli poche migliaia di uomini demoralizzati e male armati, protetti da pochissime batterie, che l’inefficienza dei sistemi di collegamento e la scarsa capacità di coordinamento dei comandi, abbandonò al proprio destino … e molti sacrificarono la loro vita nella difesa di una Patria che diventava evanescente.
Gli inglesi sapevano bene che la Piazzaforte era progettata contro un attacco dal mare e non era strutturata per difendersi da truppe di invasione provenienti via terra da occidente, cioè dal resto dell’Isola, o di quelle che, sbarcate a Sud, l’avessero aggirata muovendosi attraverso i Monti Climiti per circondarla e coglierla alle spalle, … e così fecero. ( pp pianta Sicilia a colori). Lo scoprì, a fatti avvenuti, anche l’ammiraglio Bernotti, storico della marina, che con un innegabile senno del poi scrisse: La Piazza poteva sostenere un attacco frontale dal mare, ma non era preparata contro uno sbarco dall’aria o contro un attacco avvolgente. Chissà perché i grandi strateghi del Comando Supremo italiano non avessero fatto una visita alle grandi fortificazioni della Siracusa Greca, costruite nel 409 a.c dal tiranno Dionisio con il magnifico Castello Eurialo e le grandi mura che la circondavano, per rendersi conto che la sua preoccupazione era soprattutto quella di difendersi dagli invasori provenienti via terra da ovest, come i gelesi o i cartaginesi che arrivavano proprio dalla Tunisia.
Entro la serata del 10 luglio gli inglesi erano già riusciti a impadronirsi di Siracusa e del suo grande porto naturale, mentre la zona di Augusta continuava ad essere preda del più totale disordine. La confusione era iniziata alle 22,30 del giorno prima, quando ad Augusta gli inglesi non si erano visti e, al più, filtrava la notizia che nella Penisola della Maddalena gli aerei nemici venivano giù come passeri, senza che a nessuno venisse in mente che potevano essere degli alianti che venivano a terra: era, in quel momento, in corso l’ operazione Ladbroke, che aveva l’obiettivo di prendere il Ponte Grande di Siracusa prima che i difensori lo facessero saltare. A quell’ora il maggiore Sapio ricevette l’ordine del comandante della Piazzaforte, il tanto discusso ammiraglio Leonardi, di attivare i piani di distruzione delle batterie. A partire dall’alba, in un clima di si salvi chi può e nella più totale confusione, militari di ogni ordine e grado, in divisa o indossando goffi abiti civili recuperati alla bell’e meglio, abbandonò caserme, postazioni, batterie, depositi, mescolandosi alla moltitudine dei civili in fuga. L’avvio l’aveva dato, il presidio tedesco e i marinai tedeschi delle motosiluranti, che, alle 4 del mattino, avevano abbandonato la base dopo aver dato fuoco allo stabilimento Nafta, illuminando cupamente la scura superficie del mare. Poi, verso le 17, erano saltate le batterie di Capo Santa Panagia e il treno blindato parcheggiato nel sottostante binario, seguite dall’incendio del grande deposito carburanti di Punta Cugno e dallo affondamento dei due pontoni armati ormeggiati nella rada di Augusta. Il sabotaggio delle potenti batterie sarebbe proseguito senza sosta fino alle 13.30 del giorno successivo, quando la potente Piazzaforte avrà completo il suo karakiri con l’autosabotaggio delle ultime batterie sistemate a Punta Izzo, senza che avessero sparato un colpo, se non qualcuno in aria. Uno storico inglese scriverà, con perfido humour anglosassone, che l’unica reazione dei pezzi costieri italiani si dovette all’Ammiraglio Leonardi, che nel suo confuso peregrinare, avendo visto due navi nemiche entrare nel porto di Augusta sparò due cannonate all’indirizzo dei natanti: unico e fulgido esempio di un ammiraglio che sparava direttamente con un cannone d’artiglieria contro il nemico.
A Montgomery che, proprio quella mattina era sbarcato su una spiaggia a sud di Pachino, tutto sembrava facile e pensava di poter raggiungere Messina al massimo entro un settimana, arrivandovi prima del suo rivale: l’americano Patton. Catania era per lui a portata di mano e pensava di esserci per il 13; la resistenza italiana era stata debolissima e l’unico nemico gli sembravano essere le abbondanti libagioni di vino di Pachino cui i suoi uomini si abbandonavano generosamente: fece girare una circolare che lo definiva roba letale che poteva far diventare ciechi.
Sapeva che dalla sera precedente le avanguardie della sua 5° divisione erano state bloccate tra Floridia e Solarino da una colonna del 75° della Divisione Napoli, la Ronco; ma di quella non si preoccupava: l’avrebbe aggirata alle spalle passando in alto sulle montagne dirigendosi su Palazzolo. Stava trovando a Priolo la resistenza di un gruppo motocorazzato tedesco Schmalz rinforzato da un reggimento di testardi fanti del 76° divisione Napoli e di un paio di battaglioni costieri fascia costiera, ma nemmeno di loro si preoccupava: aveva in mente, per la notte del 13, lo sbarco ad Agnone, alle loro spalle, di 400 commandos che dovevano prendere il Ponte dei Malati, presso Lentini, e il lancio sulla piana del Simeto di 1856 paracadutisti e 19 alianti per la conquista del Ponte Primosole, a qualche diecina di chilometri da Catania. Per quello che gli risultava, la zona era difesa soltanto da alcune compagnie di italiani con pochissime batterie.
Purtroppo per lui, nella notte del 12, i tedeschi avevano lanciato in quella zona 1400 paracadutisti di lunga esperienza. Ne derivò un’epica battaglia che irrorò di sangue il fiume e la pianura, ritardando l’avanzata inglese fino a quando tutte le divisioni tedesche esistenti in Sicilia, rinforzate da altre in arrivo, non erano riuscite a schierarsi lungo la cosiddetta Linea Hube, che gli avrebbe impedito di raggiungere Catania prima del 5 agosto.
Sulla battaglia che si svolse al Ponte di Primosole vorrei leggervi un brano del libro: '. In mezzo alle file degli eucalipti, tra i tralci contorti dei vigneti e sotto l’ombra dei frondosi aranceti, si combatté corpo a corpo con le baionette tra le compagnie inglesi che avevano attraversato il fiume ed i paracadutisti tedeschi. Nell’ombra, nessuno riusciva a distinguere gli amici dai nemici; ognuno combatteva per se stesso senza cercare l’aiuto dei compagni; ognuno sparava contro chi gli sparava da dietro l’albero, senza chiedersi se fosse un amico o un nemico. Gli uomini cadevano l’uno accanto agli altri; un inglese cadde spruzzando attorno il sangue che gli zampillava dal collo squarciato, ma un attimo prima di cadere aveva cacciato nello stomaco di chi l’aveva colpito la punta della sua baionetta. I tedeschi, se ne stavano bocconi per terra come fossero morti, poi quando venivano superati, saltavano alle loro spalle pugnalandoli. Aggrappati ai tralci dei vigneti, feriti sanguinanti cercavano di sollevarsi in un ultimo disperato anelito di vita. Per tutta l’area fino a 2/300 metri a nord del Simeto, il lugubre lenzuolo della morte copriva uomini e cose. Nei combattimenti, la compagnia B fu quasi totalmente annientata, ma le perdite del reparto tedesco che l’aveva contrastata non furono da meno. Al mattino le urla di dolore dei feriti, che chiedevano aiuto e si contorcevano tra le diecine di morti, ammorbavano l’aria confondendosi al fumoso schioppettare delle stoppie che bruciavano ed al il crepitare delle armi. Nell’area c’erano soltanto morti e feriti. I comandanti concordarono una tregua e, mentre le armi tacevano dando la precedenza alla pietà, ognuno soccorse i suoi feriti, portandoli lontani dal campo di battaglia e contando i propri morti. Presto la carneficina sarebbe ripresa, ma tutti in quel momento guardavano con sgomento quei compagni che lasciavano il campo di battaglia, bendati e distesi su barelle d’emergenza. Nel pomeriggio la violenza tornò a trionfare e la lotta riprese cruenta intorno alla masseria Di Stefano, completamente circondata dai paracadutisti tedeschi.
L’arrivo, alle 6,30, del battaglione tedesco del capitano Adolff riaccese la lotta che divenne selvaggia e cruenta come quella che si era già svolta in precedenza. Una granata di mortaio esplose tra alcuni corpi martoriati, aprendo una grande buca e spargendo ovunque le membra di tanti che, ora, pendevano assieme a tante altre fra i tralci delle viti e i rami degli eucalipti della riva. Tra il frastuono degli spari, le urla di dolore, il lampeggiare delle esplosioni, il fumo e la polvere che avvolgevano ogni cosa, la scena sembrava quella dell’inferno. Nell’aria stagnante della fiumara, gli uomini continuavano a brindare alla morte alzando in alto i calici colmi del loro sangue. In uno scenario d’apocalisse, i combattenti drogati dall’odore acre della polvere da sparo si muovevano come se stessero continuando un gioco. La morte in agguato non faceva paura a nessuno; chi veniva colpito urlava a se stesso soltanto mi hanno preso, come se così avesse acquisito il diritto di continuare a partecipare a quella rappresentazione. Per tutti continuava a restare una sola scelta: uccidere o essere ucciso.
La mattina del 17 Luglio l’area intorno al ponte appariva come il quadro della desolazione. Gli inglesi vi avevano lasciato 600 uomini tra morti, feriti e dispersi e i tedeschi 360 morti oltre a un centinaio di feriti e 160 prigionieri. Christopher Buckley, giornalista al seguito degli inglesi, scrisse tinteggiando un quadro di quel campo in cui era appena finita battaglia: 'La fanteria esausta si riposava tra macerie delle fortificazioni nemiche. Il grado della sua stanchezza era tale che nessuno si sentì di seppellire i numerosi cadaveri tedeschi ancora giacenti qua e là. Qualcuno però coprì i loro volti e non dimenticherò mai il viso di un tedesco nascosto da una pagina del Picture Post illustrata con una danza di fanciulle in costume del romantico ottocento. Il piccolo soldato inglese che si era messo a riposare accanto a quel cadavere non vi trovava nulla di stonato: egli era stato assieme alla morte per due giorni e due notti e non poteva più possedere il senso del macabro.'
Mentre nella fascia orientale avvenivano questi avvenimenti, gli americani che erano sbarcati attorno a Gela, nella zona che va da Torre di Gaffe, ad ovest di Licata, fino a Punta Braccetto ad est di Scoglitti si muovevano tra impreviste difficoltà. (pp zone di sbarco) Avevano iniziato nella notte del 9 lanciando, sull’area. 3405 paracadutisti con l’obiettivo della conquista dell’aeroporto di Ponte Olivo. Dei 226 Dakota, che li trasportavano, soltanto 26 erano riusciti a lanciare 200 paracadutisti sull’obiettivo di Piano Lupo e soltanto 425 uomini riuscirono a prendere terra nell’entroterra del Golfo di Gela. C’era stato che molte delle navi Alleate non erano a conoscenza del fatto che, nella notte, sarebbero state sorvolate da loro aerei che trasportavano dei paracadutisti. Così essi furono oggetto di un intenso fuoco d’artiglieria navale e, per non essere individuati, gli aerei guida spensero le luci, mentre gli altri, perduto il riferimento con il capo gruppo che li guidava abbandonarono la rotta orientandosi a caso e disperdendosi per ogni dove. Il cielo si riempì di aerei che vagavano alla cieca cercando di ritrovare la rotta verso la zona di lancio assegnata, mentre, sotto un vento furioso, continuavano ad andare avanti confusamente in tutte le direzioni senza riuscire più a mantenersi in formazione. La reazione della contraerea italiana e tedesca aveva fatto il resto costringendo i piloti degli aerei americani a mollare il loro carico anche spingendo a spintoni i parà fuori dalla carlinga, pur di potersi allontanare, sottraendosi a quel fuoco, e tornare indietro. I loro paracadutisti precipitarono in ordine sparso riempiendo ogni zona della Sicilia Sud Orientale da Licata fino a capo Passero, da Avola a Catania e perfino sull’Etna. Ma non era tutto, all’alba dell’indomani, quando i mezzi da sbarco rovesciarono sulle spiagge i loro uomini, si trovarono di fronte ad una resistenza che li costrinse a combattere per altri due giorni prima di poter stabilire una stabile testa di ponte. Al mattino del 10, a cercare di resistere ai Rangers americani che sembravano arrivare da dovunque, erano in molti per le strade, nelle piazze e ai giardini pubblici dove si era combattuto perfino alla arma bianca: tra di loro i carabinieri e i finanzieri, che si associavano ai soldati, aiutati anche da alcuni civili. L’ultima resistenza, mentre albeggiava, era stata davanti al Duomo, dal cui campanile e dai finestroni un nucleo di cecchini italiani assieme ad un gruppo di giovani gelesi continuava a sparare e lanciare bombe a mano. Hugh Pond, nel suo Sicilia, descrive quella scena: Un ranger si gettò contro il grande portone, lo spalancò di colpo e scagliò nella chiesa numerose bombe a mano. I suoi compagni furono accolti da numerose raffiche provenienti dall’altare maggiore e dalle navate laterali; nel volgere di pochi minuti si scatenò un’accanita battaglia. Ma non era finita! L’indomani mattina un contrattacco coordinato dei fanti della Livorno e dei carri della Goering rischiò di ricacciarli in mare. Furono soprattutto i potenti cannoni della loro flotta quietamente ormeggiata al largo, in assenza di qualunque contrasto da parte di navi italiane, a bloccare gli attaccanti; così i fanti della Livorno che dal Monte Castelluccio avevano raggiunto il passaggio a livello alle prime case di Gela versarono il loro contributo di sangue irrorandone la pianura e i Panzer tedeschi, che erano arrivati a pochi chilometri dalla costa e ai comandi americani, saltarono in aria centrati dai potenti cannoni navali da 152 mm. Gli americani riuscirono a conquistare l’aeroporto di Ponte Olivo soltanto alla sera del 12, dopo avere strenuamente combattuto.
A me ragazzo, che avevo conosciuto l’invasione da un piccolo paese della valle del Belice, sembrava che in Sicilia avessero combattuto soltanto gli americani e che, a Gela, in quella notte dello sbarco, ci fossero diecine di omini ‘ntisi con fiaccole e fanali luminosi per indicare le zone più adatte allo sbarco e quelle dove avrebbero incontrato una minore resistenza. Non era così: Gela non era stata la porta spalancata che la mafia aveva aperto ai novelli liberatori.
Il mio paese era su una strada che porta a Palermo, ad un tiro di schioppo da quel San Giuseppe Jato, su cui Jack Belden, corrispondente di guerra al seguito delle truppe di Patton, scrisse: Giungemmo nel paese di San Giuseppe Jato …; dai balconi con balaustre di ferro, ragazzi e vecchi gesticolavano sventolando drappi bianchi e fazzoletti, come bandiere che garrivano. Tra le grida spesso si udivano le parole ' bravo ‘mericano.' Fiori erano gettati, quasi scagliati, da giovani donne che apparivano al di sotto della cima verde degli elmetti. Le capigliature delle ragazze volavano qua e là, le mani lanciavano baci e sembrava che tutta la strada fosse in movimento. Nella folla, un uomo andava su e giù per tutti i veicoli fermi, porgendo recipienti pieni di vino, invitando i soldati americani a bere. C’è poi Leonardo Sciascia, con Gli zii di Sicilia, a raccontare, da par suo, l’involuzione dell’ambiente e quella dei suoi notabili all’arrivo degli americani: 'In piazza c’era una gran folla, urlava ed applaudiva, ma su tutte le voci si levava quella dell’avvocato Dagnino, un uomo alto e robusto che io ammiravo per il modo come lanciava gli 'ejia', che ora gridava 'viva la repubblica stellata' e batteva le mani… A me pareva fosse bello che anche l’avvocato Dagnino stesse a gridare contento, che urlasse ' viva la repubblica stellata' come un’altra volta, dal terrazzo della stazione, aveva gridato ' Duce, per te la vita'.… Poi spuntò il brigadiere con quattro carabinieri, i fucili dei soldati si alzarono verso di loro; quando furono vicini un americano girò alle spalle dei carabinieri, sganciò con destrezza le loro pistole. Ancora un applauso scoppiò. ' Viva la libertà' gridò l’avvocato Dagnino. D’improvviso una bandiera americana fiorì sulla folla, saldamente la teneva il bidello delle scuole elementari, un uomo che ogni sabato pomeriggio passeggiava in divisa per il paese, e aveva la lasagna rossa di squadrista;….Ora teneva la bandiera americana e gridava ' viva l’America.'
Assieme agli americani che distribuivano cioccolata, biscotti, C, chiunga, Cesterfield, biscotti, caramelle a righe bianche e rosse, scatolette di Corned Beef e vettovaglie d’ogni genere, circolò la notizia di un fazzoletto di seta dorata con una grande L nera, lasciato cadere da un aereo sulla casa di un mafioso di Villalba, che sanciva un patto tra la malavita italo-americana e la mafia siciliana. Qualcuno raccontava persino che Lucky Luciano era arrivato alcuni mesi prima per predisporre ed organizzare lo sbarco degli americani.
La leggenda venne confermata da Michele Pantaleone, che mafioso certamente non era e in Mafia e Politica scrisse: 'E’ storicamente provato che prima e durante le operazioni militari relative allo sbarco degli Alleati in Sicilia, la Mafia, d’accordo con il gangsterismo americano, s’adoperò per tenere sgombra la via da un mare all’altro, tanto che le truppe d’occupazione avanzarono nel centro dell’Isola con un notevole margine di sicurezza.' Raccontava anche di un caccia americano che il 14 Luglio era apparso su Villalba con uno strano stendardo che svolazzava ai lati della carlinga, un drappo color giallo oro con al centro, ben disegnata, una grande L nera, e aveva gettato una busta di nylon dentro cui c’era un fazzoletto di seta, che 'pariva d’oro', con al centro una grande L nera.' E poi di tre grossi carri armati americani che il 20 luglio giunsero sferragliando fino alle porte del paese. Da uno di essi, che aveva issato sulla torretta un grande vessillo giallo oro con la L nera, si affacciò un ufficiale che, con l’accento siculo-americano, chiese alla gente di chiamargli don Calogero Vizzini.
Era tutto chiaro: gli americani, con l’aiuto della mafia, dopo Gela erano avanzati verso Palermo, attraverso le contrade della Sicilia occidentale lasciate indifese dai gruppi tedeschi che si spostavano di gran fretta verso l’Etna e dalle divisioni italiane che se ne andavano abbandonando armi, munizioni, cannoni mezzi e depositi, mentre la maggior parte degli uomini si imboscavano o si offrivano come prigionieri con lo sguardo sorridente di chi aveva risolto i propri problemi. Un mio ricordo personale: i soldati della Divisione Aosta che sparivano dalla zona del mio paese, abbandonando presso il cimitero un cannone con le cassette piene di proiettili dove noi ragazzi, subito dopo la guerra, andavamo a giocare, e un magazzino pieno di ogni ben di Dio che era stato saccheggiato e sventrato dai contadini. Nei paesi era un fiorire di lenzuoli bianchi appesi ai balconi, dietro la regia di abili personaggi che cercavano la loro rivincita: arrivavano i Liberatori che i siciliani aspettavano da tempo per risolvere i loro problemi economici. Qualche uomo di rispetto riuscì a minacciare o perfino imprigionare nelle stanze di un circolo quegli ufficiali italiani che avevano intenzione di contrastarne l’avanzata. Bocche cucite su quello che era successo, fino al 16, quando tra Licata ed Agrigento alcuni battaglioni di testardi bersaglieri avevano bloccato, per quasi 5 giorni, gli Sherman americani contrastandoli quasi a mani nude a Palma Montechiaro, a Castrofilippo e alla foce del fiume Naro.
Il 16 la situazione tra i due generali che si contendevano la conquista della Sicilia si aprivano a scenari diversi: Montgomery era bloccato nella Piana di Catania e ci sarebbe rimasto per 20 giorni, mentre per Patton, che ora riceveva l’aiuto di una mafia che riemergeva dal sonno, stava iniziando una trionfale e incontrastata passeggiata verso Palermo.
La scelta di avviare l’attacco alla Fortezza Europa mediante uno sbarco in Sicilia era stata fatta alla Conferenza di Casablanca, tra il 13 ed il 23 Gennaio di quell’anno. La delegazione americana, guidata da generale Marshall, vi era arrivata con una precisa strategia: se si fosse deciso di fare uno sbarco in Europa esso non poteva che avvenire attraverso La Manica, mentre consideravano uno spreco di risorse e di energie l’impegnarsi nell’invasione militare della Sicilia o in operazioni nel Mediterraneo. Gli americani non avevano nessuna voglia di impegnarsi nel Mediterraneo che consideravano una oscura caverna in cui si entrava a proprio rischio. Per contro la Sicilia era un vecchio sogno di Churchill che pensava, assieme a Malta, Gibilterra e qualche grossa isola dell’Egeo, di realizzare un grande Commonwealth del Mediterraneo. Alla sua invasione ci lavorava dal 1940 attraverso il Piano Influx, seguito da Wiphcord nel 1941 e da Husky redatto dal suo Joint Planning Staff prima della fine del 1942.
Alla fine l’aveva spuntata la straordinaria abilità di Churchill che era riuscito a convincere il presidente americano Roosevelt ad accettare la strategia inglese. Il 23 Gennaio la Conferenza si era chiusa con vaghe ed indefinite promesse per tutti e una sola decisione concreta: effettuare uno Sbarco in Sicilia in un periodo di luna favorevole durante il prossimo mese di Luglio. Lord Brooke, che era a capo della delegazione inglese scrisse: 'Praticamente abbiamo ottenuto tutto quello che speravamo quando siamo venuti a Casablanca', mentre il generale Wedemeyer, dello Stato Maggiore di Marshall, scrisse: 'Siamo venuti, abbiamo ascoltato e siamo stati sconfitti.'
Alla faccia di tutti coloro che, ancor oggi, sostengono che gli americani avevano deciso di sbarcare in Sicilia, poiché la mafia aveva promesso il suo aiuto!
La bozza di Husky, uscita da Casablanca prevedeva sbarchi isolati degli americani nella cuspide occidentale tra Sciacca e Palermo e sbarchi inglesi tra Gela a Catania. Dopo mesi di ingiurie reciproche, anche al livello personale, e accuse di incapacità ed incompetenza, non soltanto tra i generali inglesi ed americani, ma perfino tra gli stessi generali inglesi, solo il 4 maggio, passò il Piano imposto da Montgomery ed accettato da Eisenhower, che prevedeva che ( pp zone di sbarco) l’VII Armata americana, con tre divisioni e 1 divisione paracadutisti al comando di Patton, spostasse la sua zona di sbarco dall’area occidentale alla zona di Gela, da Licata a Scoglitti, e poi procedesse verso nord appoggiando il fianco sinistro della VIII Armata britannica che, sbarcata con quattro divisioni e una brigata più 1 divisione aviotrasportata al comando di Montgomery nella cuspide sud orientale, da Punta Castellazzo, a Capo Passero, Avola e Fontane Bianche, doveva procedere verso Messina. Veniva così scelto vincitore predeterminato, mentre all’impetuoso Patton veniva affidato il compito di fargli da umile gregario. Durante la campagna, il generale sangue e budella avrebbe fatto di testa sua cambiando il gioco ed andandosene a spasso per le contrade di Sicilia verso la conquista di Palermo dove si sarebbe insediato nella storica Reggia dei Normanni, come l’ultimo re di Sicilia
Mentre si svolgeva quella Conferenza la rivista inglese ' Sphere' scriveva: 'La Sicilia è stata a tal punto trascurata dal governo fascista che i siciliani sarebbero ben lieti di aprire le braccia agli anglo-americani e fare entrare in casa loro le truppe Alleate come i francesi hanno fatto nell’Africa Settentrionale. I siciliani sono un frutto maturo e la loro collaborazione, sopratutto con gli americani, può dirsi sicura, giacché non vi è quasi famiglia dell’Isola che non abbia un qualche parente emigrato in America.' C’era bisogno di ogni genere di prodotti, manufatti e medicinali, che provenivano dal Nord passando soprattutto attraverso lo Stretto di Messina. Le esigenze della popolazione richiedevano di ricevere almeno 5000 T/g. di derrate, oltre alle 2000 t/g. richieste dalle esigenze militari. Purtroppo l’intensificarsi dei bombardamenti americani sulle strutture portuali, sul naviglio e sui i traghetti dello Stretto, non consentiva di traghettare più delle 2.000 t/g necessarie ai militari, e in Giugno la situazione sarebbe ancora peggiorata. I carri ferroviari pieni di derrate di ogni genere, inclusi i medicinali, si ammassavano alla stazione di Villa S. Giovanni e vi restavano per giorni finché l’aviazione nemica non li distruggeva o abili borsaneristi non se ne impossessavano trasferendoli di notte al di là dello Stretto per rivenderli ai loro prezzi d’intrallazzo.
Nel solo 1943, il continuo incremento di incursioni aveva fatto più di 2000 vittime tra morti e feriti. La subdola propaganda della cosiddetta guerra psicologica continuava a diffondere la convinzione che era inutile combattere contro gli anglo-americani, che tra di loro combattevano migliaia di siciliani, parenti ed amici, che presto sarebbero arrivati facendo un boccone delle misere difese dell’esercito italiano e portando libertà e condizioni di vita soddisfacenti per tutti. Tutti coloro che avevano figli o parenti tra i soldati che combattevano in Sicilia, ed erano tanti, li consigliavano di squagliarsela alla prima occasione. C’erano in giro molti che erano stati in America e che erano rientrati prima della guerra, che ora se ne andavano in giro orgogliosi del soprannome affibiatogli: L’americano. Una speranza cominciava a riempire il cuore di tutti: Alzare le braccia arrendendosi alla prima pattuglia americana che comparisse all’ingesso del paese; magari fra di loro ci poteva essere un cugino o un parente! Nei paesi del latifondo, i cosiddetti omini ‘ntisi ed i loro amici, aspettavano la fatidica data dello sbarco anglo-americano, perché ripartisse nell’Isola quella che lo storico Renda chiama la folgorante ripresa della mafia, fino ad allora ancora viva ma costretta ad operare in clandestinità, che avrebbe recuperato il suo vecchio potere alla luce del sole.
' Come finisce, finisce, basta che finisce', pensavano quasi tutti i siciliani.
Al livello militare la situazione era drammatica anche se la retorica fascista e la faciloneria di Mussolini avevano definito l’Isola come imprendibile. A difendere i 1.115 chilometri di costa della Sicilia c’erano 5 divisioni italiane, più 2 brigate ed un reggimento autonomo, denominate costiere, le Difese Porti di Palermo e di Catania, e le 2 Piazzeforti marittime di Messina e Augusta/Siracusa che dipendevano dalla Marina. Si aggiungevano 4 divisioni dai fanteria, definite mobili, che di mobile avevano poco, poiché sostanzialmente si muovevano a piedi ed avevano i cannoni ippotrainati, e dei gruppi mobili che disponevano di un centinaio di carri leggeri R35, preda bellica del recente armistizio con i francesi. In tutto 170.000 soldati combattenti, appoggiati da 368 antiquati pezzi di artiglieria di medio calibro che si aggiungevano alle installazioni fisse di difesa costiera ed antiaerea. C’erano anche 30.000 tedeschi delle divisioni ex Sizilien e Goering, che sarebbero poi stati incrementati di altri 30.000, tra la 1° divisione paracadutisti e la 29° divisione corazzata, sopraggiunti nel corso dei combattimenti intorno a Catania. Disponevano di 130 pezzi d’artiglieria tra cui i temutissimi cannoni da 88 e meno di 200 carri Panzer, tra cui 17 Tigre.
Il 14 giugno Guzzoni, che aveva sostituito Roatta come comandante dell’Armata che doveva difendere la Sicilia, scriveva al Comando Supremo: ' I battaglioni costieri sono formati da soldati di classi anziane e spesso mal comandati, taluni dei quali devono vigilare e difendere tratti costieri persino di 45 chilometri. Nel caso migliore l’estensione della zona da vigilare e difendere è di 10 km. Molti di essi sono costituiti da elementi dell’Isola che risentono molto dello stato morale della popolazione locale… Circa le armi a difesa della costa prevalgono i fucili mitragliatori e le mitragliatrici. Mancano del tutto le artiglierie contronave e difettano le altre artiglierie, particolarmente quelle controcarro. Di queste ultime si ha un pezzo, dico un pezzo, per ogni 8 chilometri, ed uno sbarco verrebbe prevalentemente tentato con prevalenza di carri armati. … Queste forze, impegnandosi risolutamente, riusciranno certamente a contenere ed a ributtare le prime unità nemiche che potessero sbarcare, ma con tutta probabilità mancheranno altre truppe mobili per rimpiazzare le prime e per contenere e respingere i rimanenti attacchi, dai quali il nemico non desisterà facilmente, accompagnandoli con forti azioni aeree.
In realtà nessuna forza avrebbe mai potuto impedire lo sbarco Alleato in Sicilia … gli uomini che si trovavano sulla spiaggia si trovarono di fronte a qualcosa che superava ogni loro immaginazione. Lo storico Liddle Hart scrisse: 'Vale la pena notare che l’attacco anfibio, condotto simultaneamente da 8 divisioni, fu ancora più massiccio di quello che undici mesi dopo sarebbe stato messo in atto in Normandia.' Mentre Sciascia, con il suo acume beffardo, scrisse: 'Il 10 Luglio del 1943, verso sera tornò da Licata un venditore ambulante. Era scappato da quel paese all’alba, abbandonando la sua povera mercanzia: un po’ a piedi, un po’ su autocarri militari, era finalmente arrivato al paese; e se ne stava in piazza a raccontare quello che aveva visto, la sua avventura. Sembrava sotto choc: e soprattutto per quel mare 'che non si vedeva più', fitto com’era di navi. Tante navi, mai viste tante navi. Ad ognuno che arrivava, tornava a parlare delle navi, tante , mai viste tante, non potete immaginare,non potete credere; e come in trance ripeteva:' Cornuto, e come voleva vincere?'Si avvicinò anche il segretario del fascio e lui raccontava delle navi e diceva:' Cornuto e come voleva vincere?' Gli fecero segno di tacere : ma lui non si accorse, non badò. E poi ormai aveva visto. Sapeva con certezza che quel cornuto non poteva vincere.'
Sui 210 chilometri di costa tra Licata e Siracusa sbarcarono, secondo Gaia, 181.000 uomini con 1800 cannoni, contro 368 cannoni italiani, di cui molti preda bellica della guerra 15/18, e 130 tedeschi; sbarcarono anche 600 carri armati contro meno di 200 tedeschi e 100 italiani di tipo leggero. Prima della fine della campagna sarebbero sbarcati 478.000 uomini.
Ma c’è qualcos’altro che vorrei cercare di fare capire un po’ meglio: la fulmineità d’intervento delle nostre divisioni mobili era assolutamente nulla. Mi consentirete di leggervi un brano del Diario di un Battaglione del tenente colonnello Dante Ugo Leonardi, comandante del III battaglione del 34° reggimento della divisione di fanteria Livorno, che era, tra tutte, quella di più rapido intervento. Il battaglione, che il 9 Luglio era accampato tra Caltanissetta e San Cataldo ad una ottantina di chilometri dall’area dove sbarcarono gli americani, dall’alba del giorno 11 avrebbe irrorato di sangue la pianura attorno a Gela.
'Notte del 10 Luglio, ore 0,30- L’accampamento è immerso nel sonno … Poco dopo il silenzio della notte viene interrotto dal trombettiere di servizio con il segnale d’allarme… I reparti si approntano rapidamente raggiungono le località prestabilite per l’adunata con tutto il carico di combattimento. Gli autocarri affluiscono ai vari posti di caricamento… Alcuni fanti, ancora assonanti, barcollano…urtano… inciampano…brontolano sotto il peso delle armi e delle munizioni!.... Rimaniamo in attesa… L’alba ci trova sotto gli ulivi, i carrubi ed i mandorli… Canti di guerra cominciano a levarsi qua e là fra i vari gruppi… Sono già le otto, ma l’ordine tarda ancora. Cessano i canti e cominciano i giuochi e i racconti. Poi qualcuno s’addormenta… Alle ore 10, quasi tutto il battaglione dorme per terra…, vestito armato. L’ordine di movimento giunse alle ore 17 dello stesso 10 Luglio: '..Codesto Battaglione, ore 19 di oggi, inizi movimento su automezzi per Ponte Olivo. Giuntovi rimarrà attesa ulteriori ordini per l’impiego'… L’autocolonna filava verso il Ponte, era lunga e riconoscibile ….. Il nemico prese di mira il centro della colonna e gli aerei si abbatterono sugli autocarri come falchi sulla preda … Sopravvenuta l’oscurità, la strada fu percorsa senza incidenti. A Mazzarino ci fermammo per farci indicare dai carabinieri la strada per Gela.
Al bivio Butera-Gela la colonna fu fermata dal personale di guardia che ci consegnò una comunicazione lasciata dal comandante del reggimento che diceva: Orientarsi ad attaccare gli Americani alle prime ore di domani 11 Luglio in direzione di Gela. Schierare il battaglione fra Ponte Olivo e Monte Castelluccio… Alle 23 l’autocolonna a Ponte Olivo…. Non trovammo alcuno che potesse orientarci sulla situazione; gli stessi militari di guardia al Ponte non seppero indicarci neppure il reparto italiano più vicino… Cominciammo così a vagare nel buio, sperando di raccogliere da qualcuno le informazioni che ci necessitavano per essere in grado di scegliere una base di partenza favorevole per l’attacco del mattino… Finalmente fummo fermati da una sentinella di un reparto controcarro appostato in prossimità della rotabile. Facemmo chiamare l’ufficiale, ma anch’egli era giunto da alcune ore e ne sapeva quanto noi. Tuttavia ci indicò la posizione di una vicina batteria verso la quale ci avviammo….. Nell’oscurità andammo ad urtare contro il reticolato che la circondava e la proteggeva facendo un chiasso indiavolato… La sentinella, scambiandoci per nemici tirò un colpo di fucile che per fortuna andò a vuoto. Dal tenente d’artiglieria subito sopraggiunto avemmo le prime notizie che ci interessavano. Anzi accompagnati dallo stesso ufficiale, arrivammo al Monte Castelluccio …' A quel punto gli ufficiali, i sottufficiali ed i soldati poterono riposare per qualche ora: Erano in piedi da ben 24 ore e poche ore dopo dovevano essere pronti per l’attacco!
Ma a questo punto ritorniamo a Patton e Montgomery, che avevamo lasciato, il primo mentre s’avviava da trionfatore verso la prestigiosa Reggia di Palazzo dei Normanni a Palermo, il secondo a tormentarsi nei suoi vani attacchi contro la Linea Hube lungo la Piana del Simeto.
Il 16 Luglio, mentre i canadesi stavano occupando Piazza Armerina, Montgomery mandò al generale Oliver Leese il messaggio:'Sulla destra, le operazioni si svolgono con una certa lentezza e tutti i rapporti indicano che il nemico si sta spostando verso est, dal settore Caltagirone-Enna e attraverso la piana di Catania, nel disperato tentativo di precluderci la strada verso gli aeroporti intorno a quest’ultima città. Poiché sulla destra siamo temporaneamente bloccati, è più che mai necessario avanzare sulla sinistra; procedete quindi il più rapidamente possibile verso Caltagirone, per puntare successivamente su Valguarnera-Enna-Leonforte. Porta avanti i canadesi a tutta forza!' Non sapeva che i tedeschi della 15° Divisione Granatieri e della 29° Divisione, assieme ai resti della Livorno e della Aosta ed a parte della Goering, stavano organizzando una serie di ben organizzati blocchi stradali con piccoli ma determinati nuclei di resistenza nelle zone comprese tra Ganci, Mistretta, Leonforte ed Agira, né si rendeva conto che stava allargando il fronte d’attacco della sua Armata con le ovvie conseguenze, ma soprattutto rinunciava al vantaggio ottenibile dallo appoggio dell’artiglieria navale e da quello che derivava dall’impiego dei carri su un terreno pianeggiante, invece che per le anguste e tortuose strade di una zona montagnosa perfettamente adeguata alle azioni di contrasto da parte di difensori. Muovendosi, a partire dal 22 luglio, da Leonforte verso Agira e poi Regalbuto e Centuripe lungo la stretta e tortuosa strada che si muoveva sul crinale dei monti che chiudevano a nord la Pianura di Catania, i canadesi avrebbero la proseguito la loro faticosa avanzata lasciandovi una spessa via di sangue, riuscendo a vincere la resistenza tedesca soltanto il 3 agosto, e impadronendosi, soltanto il 5 agosto, di una Catania che era stata sgomberata dai tedeschi.
Dall’altra parte della Sicilia, il 22 luglio, Palermo si era arresa al Corpo d’Armata Provvisorio americano consentendo a Patton di insediarsi a Palazzo dei Normanni come l’ultimo re di Sicilia. A quel punto, Montgomery che era ancora impantanato nell’attacco dei canadesi contro Agira, propose a Patton di lasciare Palermo avanzando verso Messina lungo due direttrici: una, lungo la costa settentrionale, l’altra più all’interno sull’asse Petralia-Nicosia-Troina-Randazzo, autorizzandolo a superare la linea di pertinenza inglese. Non appena il maresciallo inglese l’aveva lasciato, George inviò un messaggio ai comandanti delle sue divisioni: Questa è una corsa ippica ed è in ballo il prestigio dello esercito americano. La prego di fare quanto le è consentito per agevolare il successo.
Ora i due generali che avevano ritrovato un nuovo accordo si trovavano a sbattere contro la serie di linee di resistenza organizzate dai tedeschi nella cuspide nord orientale, che aveva il vertice in Messina. Era scoppiato il 25 luglio, i tedeschi avevano deciso di portare avanti una organizzata e metodica ritirata per trasportare al di là dello Stretto tutti gli uomini e gli armamenti, inclusi carri, cannoni e mezzi, e il loro generale Hube aveva assunto il comando di tutte le truppe che combattevano in Sicilia.
La Prima era la già citata Linea Hube, altrimenti chiamata la Santo Stefano Line che andava dal Fosso Buttaceto a sud di Catania a Santo Stefano, sulla costa tirrenica, passando per Leonforte e Nicosia. Contro questa linea Montgomery ci stava già sbattendo il naso, fin dal 17, con la 50° al Fosso Buttaceto, la 5° verso Misterbianco, la 51° a Gerbini. Quando dal 22 luglio vi aveva lanciata la 1° canadese tra Leonforte, Assoro e successivamente Agira, scoprì che era un osso assai duro e i suoi canadesi riuscirono a passare soltanto il 28 dopo che i tedeschi avevano deciso di arretrare verso Regalbuto e Centuripe sulla San Fratello Line, che andava da Santo Stefano sulla costa tirrenica a Catania passando per la roccaforte di Troina
Lungo la costa tirrenica, la 45° divisione americana continuava a sbattere contro Linea Santo Stefano e il crinale di Tusa, che passò alla storia come il crinale insanguinato, restandovi bloccata fino al 29, quando i tedeschi avevano deciso di arretrare sulla San Fratello Line,. Nello stesso giorno, passando per la montagne, la 1° divisione americana aveva occupato Nicosia senza trovarvi alcuna resistenza poiché i tedeschi avevano costituito il loro caposaldo proprio su Troina.
Troina fu un ostacolo quasi insormontabile per gli americani e la battaglia per la sua conquista che durò dal 31 luglio al 6 agosto, fu l’equivalente di quella sanguinosissima che gli inglesi avevano sostenuto al Ponte di Primosole. Bradley, comandante del II Corpo d’Armata americano e vice di Patton, scrisse:
Per tre giorni gli attacchi su Troina di Allen, con la sua 1° Divisione, furono respinti da una resistenza accanita. Da una montagna boscosa a nord est della città, il nemico inchiodava i nostri assalti con un preciso fuoco di artiglieria. Ogni nostra avanzata cozzava contro un violento contrattacco, finché Allen non ne contò 24 in sei giorni. Per rafforzare la sua pressione, aggiungemmo alle sue truppe un secondo reggimento della 9° divisione di fanteria, portando così a cinque il numero totale dei reggimenti statunitensi su quel fronte. A questo ultimo reggimento era stato impartito l’ordine di stanare il nemico da quella posizione dominante, da dove la sua artiglieria poteva seguire tutte le nostre mosse. La stessa Troina doveva essere bombardata finché non si fosse arresa o fosse ridotta in polvere… Trentasei caccia bombardieri volteggiavano alti su Troina, ognuno con bombe da 250 kg.. L’artiglieria diminuì i suoi tiri e i bombardieri si lanciarono in una picchiata quasi verticale. In breve la sommità di Troina fu avvolta da una grande corona di fumo. Quando una seconda ondata di 36 apparecchi ebbe bombardato l’infelice paese, Troina era quasi scomparsa sotto una colonna di polvere grigia, che nascondeva in parte il cono dell’Etna. Ancora una volta la fanteria balzò all’attacco, ma ancora una volta il nemico resistette e balzò al contrattacco. Ma ormai era stato martellato abbastanza; si ritirò e i nostri carri armati avanzarono.'
Superata Troina, più per il fatto che i tedeschi si erano ritirati sulla Tortorici Line, che per avere piegato la resistenza dei tedeschi e di un gruppo di valorosi italiani, gli americani ebbero libera la via verso Randazzo. Lungo la costa tirrenica la loro 3° divisione aveva combattuto fino all’8 a San Fratello, passando solo quando i tedeschi si erano ritirati sulla Tortorici Line, che da Capo d’Orlando e San Fratello scendeva attraverso Cesarò verso Randazzo e il versante nord dell’Etna.
Intanto più a sud, gli inglesi che avevano superato Agira, entro il 3 agosto occupavano Regalbuto a Centuripe. A quel punto, mentre avevano libera la via di Catania, s’avviavano anche loro verso Randazzo lungo il versante orientale dell’Etna. Spingendo i tedeschi che si ritiravano, avevano preso il 7 Adrano e l’8 Bronte dove erano stati accolti al grido di Lord Nelson, Lord Nelson, ma erano stati bloccati fino al 12 a Maletto lungo una strada che veniva chiamata la via della morte.
In quel momento i tedeschi si stavano spostando dall’ultima linea di resistenza alla prima delle tre linee di evacuazione che andava da Fiumefreddo a Furnari, con l’ordine di sostarvi fino al 13, iniziando l’ultima fase dello sgombero dall’Isola. Resterà incomprensibile come mai gli anglo americani abbiano permesso che essi portassero a termine un ordinatissimo sgombero delle loro divisioni che alla fine si realizzò in un grande successo. Eppure stavano concentrando verso il vertice sempre più stretto di un triangolo diecine di migliaia di uomini e mezzi. Fatto sta che portarono ai punti di imbarco di Messina quasi tutti gli uomini e quasi tutti i mezzi traghettandoli entro l’alba del 17 agosto, proprio mentre le truppe Alleate stavano impadronendosi della città.
Leggendaria fu poi l’operazione con cui i tedeschi portarono al di al dello Stretto le loro divisioni, mediante la cosiddetta Flotta di Von Liebenstein, dal nome dell’ufficiale superiore tedesco, responsabile dei trasporti via mare dello Stretto di Messina, che venne descritta dagli storici militari come una varietà di navi specializzate, di cui le più importanti e versatili erano i traghetti Siebel, una rozza ma efficace combinazione provvisoria di due chiatte a motore tenute insieme da una intelaiatura d’acciaio sulla quale era posata una piattaforma che accoglieva i veicoli e le truppe… Questa imbarcazione era di solito munita da potenti motori d’aereo e manovrata da una piccola cabina che ospitava l’equipaggio. Di esse non ne perdettero nemmeno una, anzi alla fine le trasportarono altrove per riutilizzarle. Il generale Von Sieger, esaltando il risultato di non avere avuto il minimo disturbo, l’avrebbe definita: 'Una gloriosa ritirata' e il barone Von Liebenstein avrebbe scritto: 'E’ stupefacente che il nemico non abbia attaccato con più vigore in questi ultimi giorni….Non abbiamo consegnato in mano al nemico un solo soldato, una sola arma o mezzo tedesco.' L’aviazione anglo-americana aveva avuto paura della cosiddetta Campana d’allarme costituita dal potentissimo schieramento di batterie antinave ed antiaeree sistemate su entrambe le sponde e capaci di colpire fino ad 8000 metri, mentre le loro navi evitarono di infilarsi nella stretta manica di mare esponendosi al loro fuoco. E’ incredibile che le batterie di entrambe le sponde siano poi state sgomberate senza alcun danno. Con un discreto senso dell’humour, i tedeschi dissero che il grande regolatore del sistema su cui avevano organizzato i tempi e i modi degli attraversamenti era stata la condotta metodica degli alleati e i 30 minuti necessari per il traghettamento venivano impegnati al mattino presto, nell’ora breakfast, o nell’ora del pranzo, o verso le cinque del pomeriggio quando scattava l’inderogabile Tea Break. Ma forse la verità era diversa: ancora il 10 Agosto i Servizi Segreti presso il Quartier Generale di Algeri affermavano: 'Non esistono indicazioni adeguate a far ritenere che il nemico pensi ad una immediata evacuazione' e solo alle 22,00 del 14 comunicarono al Comando Aviazione: 'Risulta che l’evacuazione tedesca è effettivamente cominciata'.
Credo che dalla lettura del libro risulterà evidente l’inutilità militare dei 38 giorni della cosiddetta Battaglia di Sicilia e l’assurdità dei 14.864 morti, di cui: 4.875 italiani, 4.369 tedeschi, 2.899 americani e 2.721 inglesi. Churchill, scrisse: Il 10 Luglio, i primi contingenti anglo-americani sbarcarono in Sicilia e in poche settimane si impadronirono dell’isola, mal difesa da truppe in larga parte convinte dell’inevitabilità della sconfitta. Anche la popolazione locale non oppose alcuna resistenza e spesso accolse gli Alleati come liberatori. A Casablanca aveva detto: 'Le forze politiche hanno la loro parte e la conquista della Sicilia e l’invasione subito dopo dell’Italia, dovevano avere conseguenze di ben più rapida e vasta natura.' Forse l’invasione della terra di Sicilia era stata la premessa perché in Italia si potesse realizzare il colpo di Stato del 25 Luglio del ’43.
La Sicilia registrò anche una vittima eccellente: il mitico generale George Patton, colui che la leggenda tramandò ai posteri come il Conquistatore della Sicilia. Quando si aspettava trionfi ed onori venne messo da parte; cosicché mentre Montgomery con la sua VIII armata si apprestava a traghettare in Calabria per inseguire verso nord i tedeschi e la 5° armata americana al comando del generale Clark preparava lo sbarco su Salerno, venne messo da parte e rispedito a Palermo in attesa di nuovi incarichi. Pagava le intemperanze del suo carattere, l’insofferenza verso i capi, il disprezzo verso i colleghi, l’avere trasgredito al compito affidatogli per Husky divagando verso Palermo e lasciando Montgomery a cavarsela da solo, le stragi compiute dai suoi che, nella zona di Acate, avevano trucidato 12 inermi civili e almeno 73 prigionieri dopo che si erano arresi, l’avere insultato e schiaffeggiato in due ospedali da campo vicino Troina due soldati ricoverati in crisi di nervi perché avevano puara di combattere. Richiamato in Normandia nel 1944, per togliere alcune castagne dal fuoco a Bradley, nel frattempo diventato suo capo, avrebbe guidato ancora in prima linea i suoi uomini verso folgoranti vittorie, ma il suo stile non era cambiato e, alla fine, venne messo ancora da parte. Nominato, a fine guerra, governatore della Baviera sarebbe morto per un banale incidente automobilistico nei pressi di Heidelberg, in una mattinata di neve. Un orribile modo di morire per uno che dichiarava non esservi morte più bella di cadere in battaglia per una causa nobile e gloriosa.
Inserito il 06 Novembre 2013 nella categoria Relazioni svolte
social bookmarking