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Pirandello : “la bancarotta del Risorgimento” nel centenario della morte di Sebastiano Bonfiglio

La relazione del nostro Presidente A. Tobia è qui di seguito riportata integralmente (Cliccare...)

Relatore: Prof. Antonino Tobia

Luigi Pirandello : 'la bancarotta del Risorgimento' nel centenario della morte di Sebastiano Bonfiglio

Il 10 giugno 1922, cento anni fa, moriva Sebastiano Bonfiglio, sindaco di Erice, ucciso da mano mafiosa.

 

Immagine riferita a: Pirandello : “la bancarotta del Risorgimento” nel centenario della morte di Sebastiano BonfiglioSebastiano, figlio di questa terra, ancora oggi fanalino di coda delle classifiche dell’istituto di Bruxelles per occupazione giovanile, nascite, livello di povertà, fu un convinto assertore che il Risorgimento non si era concluso con l’unità d’Italia, ma che occorreva realizzarlo nella vita di tutti i giorni dei suoi figli, che avevano creduto negli ideali dei padri dell’unità. Lui, figlio di analfabeti, come il 90 per cento delle plebi siciliane, credeva nell’impegno politico e nella forza della parola, convinto che essa desse dignità a chi la sapesse usare. Questa convinzione lo indusse ad aprirsi al mondo della cultura e a conseguire il diploma di maestro e di agrimensore, conoscenze che pose alla base della  sua etica politica. La sua vocazione alla lotta contro i privilegi e le prepotenze mafiose lo consacrarono martire, testimone della sua sete di giustizia. Mancavano pochi mesi alla manifestazione armata eversiva del Partito nazionale fascista del 26 ottobre, la famigerata marcia su Roma di Benito Mussolini, che azzerava le istituzioni liberali del fragile stato monarchico, figlio del Risorgimento, dei cui meriti e demeriti ancora oggi si discute.

 

Il Risorgimento  ha segnato il processo storico-politico,  da cui nacque nel corso del XIX secolo lo stato liberale, nazionale e  unitario italiano.

 

Determinante fu l’opera di Cavour. Lo statista piemontese convinse, infatti, le diplomazie estere che la monarchia sabauda rappresentava una soluzione moderata del problema italiano e, come annotò Lord John Russell, nonno del famoso filosofo e logico-matematico Bertrand: 'Le opinioni estremiste dei democratici non hanno prevalso in alcun luogo. L’opinione pubblica ha tenuto sotto controllo gli eccessi dell’esultanza popolare. Le forme venerate della monarchia costituzionale sono state associate al nome di un Principe che rappresenta un’antica e gloriosa dinastia'. La Seconda guerra d’Indipendenza e la spedizione dei Mille di Garibaldi trovarono la loro giustificazione e il loro sostegno nell’ottica della politica delle grandi potenze europee, la Francia, l’Inghilterra, la Russia, che Cavour mise dinanzi al fatto compiuto dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia e il rovinoso crollo del regno borbonico. Cavour era riuscito a convincere le potenze europee con il suo concreto pragmatismo e con la linea liberale e moderata delle sue scelte politiche. Aveva posto la questione italiana al centro dell’equilibrio europeo e della pacifica convivenza nel Mediterraneo, dove sia l’Inghilterra che la Francia avevano importanti interessi strategici e commerciali da difendere. In particolare, il Regno Unito gestiva il commercio dello zolfo in Sicilia, che produceva l’80% della produzione mondiale. L’Italia, liberata dall’asservimento all’Austria, avrebbe potuto svolgere un ruolo di stabilità tra gli stati europei e nel bacino del Mediterraneo, inoltre, avrebbe rafforzato il ruolo politico della Francia nel continente.

 

Il liberalismo di Cavour nel giro di qualche decennio trionfava sul democraticismo ideologico del Mazzini, che non solo  non era riuscito a coinvolgere le masse rurali della penisola, ma era guardato con sospetto dalla borghesia e dalla classe aristocratica per le sue posizioni repubblicane e per il fallimento dei suoi tentativi insurrezionali, che avevano conosciuto sempre un tragico fallimento.

 

Alcuni storici hanno cercato di rimuovere l’alone risorgimentale, mantenuto alto soprattutto durante il fascismo, ridimensionando la partecipazione patriottica delle popolazioni della penisola al processo di unificazione. Per di più, c’è chi sostiene che il motore che ha mosso l’unità d’Italia, senza dimenticare il patriottismo di alcuni borghesi liberali e di una parte del ceto dgli intellettuali, sia stato l’interesse che aveva il regno di Sardegna ad espandere i suoi confini e a migliorare le sue condizioni economico-finanziarie. Nel 1849, infatti, il Piemonte si era indebitato  di oltre 75 milioni col governo austriaco, a seguito della grave sconfitta di Novara, durante la Prima guerra d’indipendenza. I banchieri della famiglia Rothschild avevano concesso al Piemonte un prestito considerevole, di circa un quarto della somma dovuta all’Austria. In questo modo, il regno di Sardegna aveva stabilito un rapporto di dipendenza con la famiglia ebraica di origine austriaca. Alla scadenza del termine per ripagare il debito nel 1851, Camillo Benso non ritenne vantaggioso per il Piemonte rinnovare e accrescere il debito con i Rothschild, ma di avviare una politica di rilancio economico del Regno, creando infrastrutture e aprendo cantieri per numerose opere pubbliche, per dare al Piemonte il volto di uno stato moderno, tale da attrarre investimenti stranieri. Tuttavia, il debito pubblico continuava ad essere il più alto tra tutti i regni italici. Il regno del Piemonte rischiava la bancarotta, per cui occorreva giocare d’azzardo.  Per uscire dal suo isolamento, il piccolo regno di Sardegna, guidato da Cavour, decise di partecipare nel 1855 alla guerra di Crimea, alleato con la Francia contro la Russia, interessata ad estendere i suoi domini sulle regioni dell’impero ottomano in disfacimento. Dopo la vittoria, Cavour poté sedere al tavolo dei vincitori  e nel 1858 riuscì a firmare segretamente a Plombiers un trattato di alleanza militare antiaustriaco con Napoleone III. A questo punto, l’abile politico piemontese pensò di poter cavalcare il progetto unitario dell’indipendenza dell’Italia, annettendosi la Lombardia a seguito della Seconda guerra d’indipendenza (1859). I due anni successivi vedranno il Piemonte espandersi fino alla conquista del Regno delle Due Sicilie, che si frantumava per implosione, tradito dai suoi stessi apparati militari. La strategia politica di Cavour, il denaro dei Rothschild, servito a corrompere buona parte del comando superiore borbonico e, infine, l’impresa dei Mille riuscirono a realizzare un progetto politico inimmaginabile in quel contesto storico europeo. Con un atto normativo del Regno di Sardegna, il 17 marzo 1861 avveniva la proclamazione del Regno d’Italia, con Vittorio Emanuele II re di Savoia, che assunse per sé e per i suoi successori il titolo di Re d’ Italia.  

 

Il Risorgimento italiano si può ritenere concluso con la proclamazione del Regno d’Italia? Mario Albertini, in Il Risorgimento e l’unità europea (Napoli, Guida Editori, 1979), poneva una distinzione tra quanti, come Pirandello nel suo romanzo I vecchi e i giovani del 1913, denunciavano 'la bancarotta del Risorgimento', per le miserrime condizioni socio-economiche, in cui erano state abbandonate le regioni del vecchio Stato borbonico dopo l’unità, e il Risorgimento incompiuto. Il Risorgimento non è fallito, bensì incompiuto, secondo Albertini, perché non è ancora acquisita l’unità nazionale e non è saldo il legame del popolo con lo Stato. Per giungere ad una salda unità, l’Italia deve colmare due lacune storiche: una di natura politica e una di ordine economico. Sul piano politico occorre saldare definitivamente la vita dell’Italia con la vita dell’Europa e che i partiti di governo e di opposizione non manifestino divisioni importanti nella politica estera, per garantire la sicurezza di tutti. Sul piano economico, l’Italia deve risolvere il grave e atavico problema del Mezzogiorno, che divide il Paese in due categorie di diversa economia e qualità della vita. Questa valutazione è  il risultato di una visione storica, successiva alla Seconda guerra mondiale. Ma come interpretarono e vissero i nostri padri il grande evento storico, che restituiva alla penisola italiana la dignità di Stato e di nazione indipendente da ogni potenza straniera?

 

Scrittori e poeti, dal Foscolo al Leopardi, da Manzoni al giovane Verga, da Silvio Pellico a Giosué Carducci, come pure grandissimi musicista da Giuseppe Verdi a Vincenzo Bellini con i Puritani, melodramma di intenso sentimento patriottico, da Gioacchino Rossini, figlio di padre Carbonaro a Gaetano Donizetti, che prestava a Mazzini il proprio indirizzo per la sua corrispondenza clandestina, con linguaggi ed empiti lirici diversi, testimoniavano il loro ideale di vivere in una nazione libera dalla dominazione straniera. L’Italia politicamente divisa era, quindi, unita sul piano letterario e artistico da un medesimo spirito risorgimentale e patriottico. Solo dopo l’unificazione e la conquista di Roma capitale 1870, iniziava una sorta di secessione tra gli intellettuali, dettata dall’analisi dei differenti risvolti socio-politici, derivanti dall’aver cucito allo Stivale un vestito tutto d’un pezzo e tutto d’un colore, per dirla col Giusti. Già il giovane Carducci, che aveva ereditato dal padre il sogno risorgimentale, da anticlericale e repubblicano, denunciava la debolezza e la corruzione dell’Italietta umbertina, lontana dalle aspirazioni che avevano alimentato gli anni eroici del Risorgimento. Con i suoi Giambi ed Epodi sferzava la classe politica inetta e condannava il costume ipocrita e immorale della borghesia e l’oscurantismo imposto dalla Chiesa. Lo stesso spirito di rivolta animava i poeti della Scapigliatura, che rifiutavano l’immiserimento dei valori risorgimentali e tentavano di sprovincializzare la cultura italiana, avvicinandola ai modelli europei. Eppure, c’era chi intravvedeva un inizio di miglioramento sociale nell’impegno che la Sinistra, andata al potere nel 1874, aveva posto sulla obbligatorietà dell’istruzione elementare con la legge Coppino 1877. Così va letto il libro Cuore di De Amicis (1886), che guardava all’edificazione sociale delle classi più diseredate attraverso l’istituzione della scuola laica, aperta ai figli delle classi più umili. Qualche anno prima, nel 1883,  Collodi aveva sottolineato l’importanza dell’istruzione come necessaria forma di iniziazione al processo di trasformazione del suo burattino Pinocchio in individuo pensante in carne ed ossa. Ma, a partire dagli ultimi decenni del secolo, la grave situazione socio-economica della Sicilia, che si era aggravata dopo l’unificazione, insieme  a quella delle altre regioni del Sud, trovava voci di forte e aperta denuncia sociale da Verga a Pirandello, da Luigi Capuana a Tomasi di Lampedusa, da De Roberto a Leonardo Sciascia, e si potrebbe continuare con Vincenzo Consolo, Elio Vittorini, Andrea Camilleri ed altri ancora, a dimostrazione che la questione meridionale è ben lungi dall’essere risolta.

 

 Da questi autori siciliani bisogna partire per definire il rapporto tra letteratura e questione meridionale.

 

Dopo gli ardori patriottici giovanili, che avevano spinto il Verga ad arruolarsi volontario nella Guardia nazionale e a pubblicare a proprie spese nel 1861 il romanzo storico-patriottico I carbonari della montagna, segue, nell’analisi che lo scrittore fa del Risorgimento, la delusione di come si era fatta l’unità nazionale. Questo nuovo stato d’animo emerge dalla sua vasta produzione verista , a cominciare dal bozzetto naturalistico Nedda del 1874 e successivamente con la descrizione degli umili siciliani nelle due raccolte di novelle Vita dei campi e Novelle rusticane, accompagnate dai due capolavori, I Malavoglia e Mastro don Gesualdo. L’aristocratico catanese esaminava il progresso, cavalcato dalla nuova borghesia, sotto la spinta del pensiero positivista. Il Verga non credeva nelle magnifiche sorti e progressive, anzi era convinto che tale corsa al progresso avrebbe portato a risultati disastrosi. La stessa spinta all’ascesa sociale, notava, coinvolgeva anche le classi più umili, quando pescatori come i Malavoglia si davano al commercio, per essere immediatamente travolti dai loro stessi tentativi di sopravvivenza, o un umile mastro tentava la scalata sociale per diventare un don nel suo paese. Il progresso è visto dallo scrittore come una violenta 'fiumana' che tutto travolge e tutti riduce a 'vinti'. Il destino condanna gli umili a rimanere attaccati al loro scoglio, come l’ostrica, per non essere travolti dalle leggi vessatorie imposte dal nuovo Stato, un’entità che gli umili sentono lontana e ostile. I personaggi verghiani non sanno di cambiamenti politici e non colgono il senso del passaggio dal regime borbonico a quello sabaudo. Notano le differenze solo quando i nuovi padroni ordinano la leva obbligatoria, impongono nuove tasse, come quella sul sale, mandano a morire in guerra tanti giovani, come il nipote di padron ‘Toni, Alessi, che perde la vita nella battaglia navale di Lissa del 1866, condannano a morte o al carcere duro quanti protestano, delusi nelle loro speranze di libertà e giustizia, promesse dall’eroe Garibaldi e svanite come nebbia al sole. Verga è un disilluso degli esiti del Risorgimento, non assume una chiara posizione politica, è piuttosto ma conservatore, che non crede neppure nell’impegno  del nascente partito dei Lavoratori e nei sindacati del Nord  che hanno difficoltà a comprendere i problemi del Sud. Per di più, considera l’immobilismo dei Siciliani una componente del loro DNA. Tuttavia il criterio dell’impersonalità della sua narrazione è di per sé una denuncia oggettiva, L‘estraneità apparente dello scrittore non toglie l’afflato umano che crea immagini indimenticabili, ispirate alle misere condizioni sociali, ambientali ed economiche dei 'vinti'. La narrazione della vita degli umili vibra di emozione e di partecipazione umana.

 

Nel 1894 lo scrittore siciliano Federico De Roberto pubblicava il primo romanzo politico dell’Italia unita, I Viceré. È la storia della nobile famiglia Uzeda, che riesce con abile metamorfosi, quella che accomuna la maggior parte del baronato siciliano, a gestire il suo potere e a mantenere i suoi privilegi, prima sotto la corona borbonica e successivamente sotto quella del regno d’Italia. Nessun cambiamento, nessun miglioramento, ma una sostanziale continuità di sopraffazione e di sfruttamento è quanto debbono registrare le plebi, costrette ad un immobilismo che fa comodo a chi gestisce il potere. 'La storia è una monotona ripetizione', secondo il principe di Francalanza, Consalvo Uzeda. I nobili, che ossequiavano la corona borbonica, ora siedono negli scagni del parlamento italiano. Cosicché, il parlamentare don Gaspare Uzeda, duca d’Oragua, diventato senatore a dispetto della sua solida ignoranza, privo di qualsiasi ideale liberale, pensa solo alla sua carriera politica, concludendo sarcasticamente ' Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare i fatti nostri'. In questa frase, annota con amarezza, Alfio Caruso 'si coglie l’anticipo di tutte le corruzioni e di tutte le tangentopoli" (   I Siciliani,  Vicenza, 2012).

 

Nel 1913, l’anno in cui Bonfiglio rientrava in Sicilia dagli USA, dove era emigrato anni prima, Luigi Pirandello pubblicava il suo romanzo I vecchi e i giovani.  L’autore ambienta la vicenda storica negli anni dei sanguinosi Fasci siciliani del 1893. In questo romanzo sociale, l’unico della sua vasta produzione, il Nobel siciliano denunciava la 'bancarotta del Risorgimento' ed analizzava la triste eredità morale e civile che i figli avevano ricevuto dai padri.  Quella Sicilia, 'quella terra sola, senza patti, con impeto generoso s’era data all’Italia e in premio non ne aveva avuto altro che la miseria e l’abbandono'.  E con palese indignazione aggiungeva : 'La nativa fierezza, comune a tutti gli isolani, si ribellava a questa nuova onta che il governo infliggeva alla Sicilia, invece di un tardivo riparo ai vecchi mali'. Due personaggi, in particolare, esprimono l’amarezza di chi ha creduto nella rinascita politica e civile dell’Italia: Caterina Lauretano e Mauro Mortara. Caterina ha sofferto la morte del marito, caduto durante l’impresa garibaldina. Ora è profondamente delusa degli scandali che sommergono di fango la classe politica del nuovo Stato. Per tale motivo consiglia al figlio di non candidarsi alle elezioni politiche, per non diventare corresponsabile delle ruberie e delle ingiustizie 'che si perpetrano protette dai prefetti e dai deputati', e con tono indignato conclude:'  Tu non hai favorito la prepotenza delle consorterie locali, che appestano l’aria delle nostre città come la malaria le nostre campagne'.  L’Italia, in nemmeno cinquant’anni dalla sua nascita, aveva distrutto i sogni di chi aveva creduto nella nuova patria. L’eredità del Risorgimento è perduta, e i figli della nuova generazione si sono abituati a vivere tra gli intrallazzi della classe politica in combutta col potere economico. I maggiori rappresentanti del governo italiano erano travolti dallo scandalo della Banca Romana, i tentativi di corruzione e di concussione la facevano da padroni, mentre sulle piazze scorreva il sangue di chi protestava contro l’aumento del prezzo del pane e del sale o per aver diritto ad un pezzo di terra. L’amor patrio dei giovani del Risorgimento era un lontano ricordo, anche perché i vecchi non avevano saputo tradurre in realtà gli ideali di libertà e di giustizia sociale, per cui avevano combattuto. Fuori dal coro è la voce di Mauro Mortara, che da giovane aveva indossato la camicia rossa contro il regime borbonico, e continuava a credere nella possibilità di vedere realizzati gli ideali risorgimentali. Era stato un fedele garibaldino e ora lasciava la vita nel tentativo di opporsi alla violenza dell’esercito italiano, che sparava contro le organizzazioni dei lavoratori e dei braccianti, trattati alla stregua di volgari briganti da estirpare dal tessuto sociale.

 

Anche Sebastiano Bonfiglio con il carcere aveva personalmente conosciuto l’oppressione dei 'vinti' decretata per legge. Il potere assicurava l’impunità ai prepotenti, cui spettava il diritto di parola di contro all’afasia e all’ignoranza in cui erano costretti a vivere braccianti e contadini.

 

Nel Meridione l’analfabetismo all’indomani dell’unificazione contava il 90% circa della popolazione, di contro al 78% degli analfabeti dell’intera Nazione. Agli inizi del Novecento la situazione non era molto migliorata: su 33 milioni di abitanti, 23 milioni di italiani erano analfabeti.  Ma nel Sud la percentuale era sempre molto più alta che nel resto d’Italia, perché la maggior parte dei sindaci incontrava enormi difficoltà finanziarie nell’organizzare e istituire almeno il primo ciclo di scuola elementare. Inoltre, era più facile governare su gente che non sapeva leggere e scrivere e perciò incapace di farsi sentire.

 

La crisi sociale alla fine del secolo aveva raggiunto nell’Isola livelli insostenibili, appena mascherati dalla Esposizione nazionale di Palermo, inaugurata dai sovrani d’Italia il 15 novembre 1891 e durata circa sette mesi. La debolezza economica della Sicilia, il drenaggio fiscale dello Stato, l’aumento del costo della vita denunciavano l’esistenza di una questione sociale, che riguardava operai e contadini, plebe e piccoli artigiani, fino a toccare le condizioni economiche del ceto impiegatizio, dei maestri e dei medici generici.

 

Sebastiano Bonfiglio aveva dieci anni quando nel marzo del 1889 si costituiva a Messina il primo Fascio dei lavoratori, cui seguirono decine di Fasci in tutta l’Isola. Il 1° maggio1891 fu fondato ufficialmente il Fascio di Catania da Giuseppe de Felice Giuffrida. A questo fece seguito il Fascio di Palermo (29 giugno 1892) guidato da Rosario Garibaldi Bosco e la costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani ( Genova agosto 1892). Il 4 settembre 1892, fu costituito il Fascio dei lavoratori trapanesi, di cui fu eletto presidente Giacomo Montalto. La reazione del Governo, guidato da Giolitti, non tardò a farsi sentire. Il 20 gennaio del 1893 un grave crimine di Stato insanguinò le campagne di Caltavuturo, in provincia di Palermo. Una rivolta di contadini, che avevano occupato delle terre incolte, cedute dal duca di Ferrandina al Comune, fu sedata col sacrificio di 13 vittime e di numerosi feriti. Gli amministratori del Comune si erano ingiustamente accaparrati i terreni demaniali che dovevano essere assegnati ai lavoratori della terra.

 

Il 21 maggio 1893 si celebrò a Palermo il primo congresso, cui parteciparono rappresentanti di quasi 90 Fasci e di numerosi circoli socialisti. Il Congresso elesse un comitato centrale, di cui fece parte per la provincia di Trapani Giacomo Montalto. Tra l’ottobre del 1893 e il gennaio del 1894 il movimento organizzò scioperi in tutta l’Isola. Oltre 70 tumulti esplosero nelle campagne di tutte le province, con un tributo impressionante di sangue. La situazione era molto grave e Francesco Crispi, tornato al potere il 15 dicembre 1893, decise di reprimere duramente le agitazioni. Così il 3 gennaio dichiarò lo stato d’assedio e lo scioglimento dei Fasci. Furono istituiti i tribunali militari e i capi del movimento furono arrestati e condannati a decine di anni di carcere. Seguirono  arresti in massa per futili motivi e migliaia furono costretti al domicilio coatto per motivi politici. Il Crispi, che si era formato sul pensiero mazziniano e sulla liberalità garibaldina, si rivelava un sanguinario repressore delle idee di giustizia e libertà, insensibile al significato politico dei Fasci, che tentava di far passare dinanzi all’opinione pubblica come una sommossa a carattere delinquenziale.  Il 30 maggio il tribunale di Palermo condannava a pesanti anni di carcere i capi responsabili dei Fasci e infliggeva 18 anni di detenzione a Giuseppe de Felice Giuffrida.

 

Altri autori siciliani, più vicini a noi,  sono ritornati ad interessarsi del tema relativo alla 'bancarotta del Risorgimento'. Nel 1957 Leonardo Sciascia dà alle stampe il racconto Il Quarantotto e l’anno successivo per i tipi della casa editrice Feltrinelli Tomasi di Lampedusa pubblicava Il Gattopardo.

 

Nel suo racconto, pubblicato nella raccolta Gli zii di Sicilia, Sciascia ambienta la vicenda negli anni che anticipano lo sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il protagonista, il barone Graziano, come la stragrande maggioranza dell’aristocrazia siciliana, riesce a barcamenarsi bene tra reazione e rivoluzione. È reazionario fino a quando il regime borbonico gli consente di fare i suoi interessi, diventa rivoluzionario, quando l Mille sbarcano a Marsala e anzi ritiene conveniente invitare a casa sua Garibaldi accompagnato dal giovane Ippolito Nievo. Nulla cambierà per il barone con l’avvento dei Savoia, nessun cambiamento registreranno i diseredati, i braccianti e i contadini, che avevano sperato nella libertà e nella giustizia promesse dall’Eroe dei due Mondi.  La Sicilia continuerà ad essere la terra dei latifondi e a vivere nell’antico sistema feudale sotto l’egida del nuovo governo. È la conclusione che si legge nel Gattopardo. 'Se vogliamo che tutto rimanga come è, occorre che tutto cambi'; frase pronunciata da Tancredi, il nipote del principe di Salina, che bene definisce quello che ancora oggi indichiamo con gattopardismo. Tancredi ha lottato con le truppe di Garibaldi per la liberazione della Sicilia dalla dominazione borbonica, ha contribuito all’unità d’Italia, ma i vecchi gattopardi continueranno ad indossare abiti curiali con le insegne del nuovo Regno, dopo aver dismesso i panni del precedente regime. Simulazione e dissimulazione sono le armi del gattopardismo, che garantiscono la conservazione dei privilegi in ogni situazione politica.

 

Dopo 161 anni dalla conquistata unità territoriale e politica è possibile fare un bilancio onesto e severo della questione meridionale postunitaria, e analizzare le cause che hanno determinato la persistenza di un grave stato di arretratezza nello sviluppo socio-economico delle regioni dell’Italia Meridionale rispetto alle regioni del centro-nord?

 

 Nel suo testo Il Mezzogiorno e lo stato italiano, pubblicato per i tipi di Laterza nel 1911, Giustino Fortunato, uno dei più autorevoli rappresentanti del Meridionalismo  scriveva: ' C’è fra il nord e il sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione e, quindi, per gl’intimi legami che corrono tra il benessere e l’anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale'. Si legge in queste parole lo scoramento del politico e l’atteggiamento critico e pessimistico verso le istituzioni.

 

 È interessante l’analisi condotta da un altro meridionalista, Francesco Saverio Nitti, anch’egli uomo politico lucano come Giustino Fortunato ed entrambi antifascisti. L’insigne economista sottolineava che l’Italia preunitaria, dal Piemonte al Regno delle due Sicilie, mostrava le medesime difficoltà di crescita e di sviluppo rispetto agli altri stati europei che, a partire dalla Gran Bretagna, da decenni procedevano sul piano dello sviluppo industriale. 'Prima del 1860 non era quasi traccia di grande industria in tutta la penisola. La Lombardia, ora così fiera delle sue industrie, non aveva quasi che l’agricoltura; il Piemonte era un paese agricolo e parsimonioso, almeno nelle abitudini dei suoi cittadini. L’Italia centrale, l’Italia meridionale e la Sicilia erano in condizione di sviluppo assai modesto. Intere province, intere regioni erano quasi chiuse ad ogni civiltà' (da Nord e Sud, 1900).

 

Di diverso avviso,, invece, Antonio Gramsci nel suo scritto su La questione meridionale, annotava: ' La nuova Italia aveva trovato in condizioni assolutamente antitetiche i due tronconi della penisola, meridionale e settentrionale, che si riunivano dopo più di mille anni…. Da una parte la tradizione di una certa autonomia aveva creato una borghesia audace e piena di iniziative, ed esisteva un’organizzazione economica simile a quella degli altri Stati d’Europa, propizia allo svolgersi ulteriore del capitalismo e dell’industria. Nell’altra, le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borboni nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l’agricoltura era primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale; non strade, non porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione per la sua speciale conformazione possedeva. L’unificazione pose in intimo contatto le due parti della penisola'. In altri termini, tra le regioni del Nord e il regno dei Borboni esistevano marcate differenze che consentirono alle regioni settentrionali di intraprendere la via dell’industrializzazione. Per altro, il Sud mancava di strade e delle infrastrutture necessarie ad attrarre investimenti stranieri, concentratisi principalmente nelle regioni settentrionali, meglio collegate con gli altri stati europei. I governi postunitari, gravati da un enorme debito pubblico, attivarono una politica fiscale esosa, che drenava denaro dal Sud per potenziare il triangolo industriale tra Torino, Milano e Genova.

 

Ancora oggi le regioni dell’Italia meridionale  non hanno risolto il problema del divario economico e sociale con il centro e il Nord della penisola. Se l’emigrazione postunitaria  raggiunse cifre record di contadini e di operai che cercavano oltreoceano  un posto al sole in cui vivere senza morire di stenti, oggi si assiste ad un’emigrazione costante di giovani diplomati e laureati, che abbandonano la loro terra per trovare lavoro a Nord o in altri paesi stranieri. La Sicilia non si è giovata del suo statuto autonomo, se non per mungere le poche risorse dell’Isola in maniera clientelare, al limite della cooperazione della classe politica con l’organizzazione mafiosa. La corruzione e la violenza hanno insanguinato le nostre strade e soppresso illustri e onesti servitori dello Stato, nel tentativo di scardinare l’ordine costituito e imporre la legge della sopraffazione e della paura. C’è da sperare che l’appartenenza della Sicilia allo Stato italiano e la sua presenza nell’Unione Europea costituiscano due punti di forza per il suo risorgimento sociale, culturale ed economico dell’Isola, che deve rimanere ancorata al mondo civile, per non scivolare verso condizioni peggiori delle attuali.

 

Il Risorgimento ha liberato la Sicilia dall’odiato regime borbonico, sempre più reazionario, sorretto da un violento regime di polizia, chiuso agli inviti ad un politica liberale che gli venivano rivolti sia dall’Inghilterra che dalla Francia. Ferdinando II, che regnò fino al 1859, aveva fatto sperare nei primi anni del suo regno in un mutamento costituzionale in senso liberale; infatti, aveva concesso nel 1848 la costituzione ai Siciliani, a seguito dell’insurrezione del 12 gennaio. Ma già nel maggio dello stesso anno il re Borbone aveva abolito la carta costituzionale, restaurato il potere assoluto e si era isolato sul piano internazionale.  

 

I Siciliani, contrariamente a quanti ancora oggi professano nostalgie filoborboniche, fin da quando il regno di Sicilia era stato unito a quello di Napoli, a seguito del congresso di Vienna del 1816, mal sopportavano il regime borbonico, pur con diverse motivazioni: da una parte,  l’aristocrazia feudale non accettava l’eliminazione del parlamento siciliano e che l’ Isola venisse ridotta a mera periferia del regno di Napoli, soggetta ad un Viceré; dall’altra, le plebi rurali, insieme con gli operai e gli artigiani,  a più riprese, nei moti del 1820-21, nella rivolta del 1837 e, infine, nell’insurrezione del gennaio 1848, avevano lottato per eliminare il feudalesimo, migliorare le condizioni di vita, riacquistare quei diritti di autonomia, che i Borboni avevano obtorto collo concesso con la costituzione del 1812. In quell’anno, per sfuggire all’avanzata napoleonica, la dinastia si era rifugiata a Palermo sotto la protezione inglese, garantita dalla presenza di lord Bentinck.  La rivolta del 1848 palesò chiaramente l’odio della popolazione siciliana contro il Borbone, al punto che le sue forze militari furono costrette ad abbandonare l’Isola, la dinastia fu dichiarata decaduta e la reggenza della regione venne affidata a Ruggero Settimo.

 

Quanto brevemente riassunto, dimostra la vaghezza delle conoscenze storiche o, peggio, la mala fede dei nostalgici del periodo borbonica, detrattori del Risorgimento. Le nuove  generazioni  dopo il 1861 hanno imparato a guardare  ben oltre i confini della loro Isola e a confrontarsi con un modo di vivere aperto alle istanze dei popoli che aspirano a diventare soggetti della loro storia. Il sogno di Dante, del Machiavelli, dell’Alfieri, del Manzoni, di Gioberti, di Mazzini, , di cui  quest’anno ricorre il centocinquantesimo anno della morte, e di tanti altri nobili spiriti patriottici si è realizzato con l’unità di una nazione, che cessava di essere una semplice espressione geografica.  

 

Non è generoso, pertanto, definire fallimentare il percorso storico del Risorgimento,  i cui valori sono stati soffocati per un ventennio dalla dittatura fascista. Il nuovo Risorgimento siciliano oggi  è essenzialmente nelle mani della sua gente e principalmente nelle capacità  e nell’ onestà degli uomini politici che l’amministrano e che la rappresentano nel parlamento nazionale e nei gabinetti dell’Unione Europea. Se  manchevolezze, errori, corruzione , trascuratezza ci sono stati nei confronti del  Meridione da parte dei governi della Destra storica e della Sinistra dopo il 1861, se la Sicilia è stata tradita nelle sue speranze di riscatto dalla miseria da uomini della sua stessa terra, come Francesco Crispi, se il Fascismo lasciò il potere in Sicilia alle famiglie dei ricchi latifondisti,  se la presenza di oltre il 55 per cento dei direttori generali dei ministeri sono stati dall’unità ad oggi Siciliani distratti nei confronti dei  bisogni della loro terra,  la  larga autonomia di cui essa gode dal dopoguerra avrebbe dovuto incidere meglio nel  ricostruire questa Regione dalle fondamenta.

 

 Non più due Italie, ma una sola terra, dove il progresso possa giungere equamente per tutti i cittadini. Non è più tempo di scaricare sul passato i problemi di oggi. Del passato risorgimentale conserviamo  il senso della laicità dello Stato, l’amore per la libertà  e la vocazione, ereditata dal Mazzini, di sentirci Italiani e allo stesso tempo cittadini europei , insieme al ricordo della nobiltà d’animo dell’Eroe dei due Mondi, che ci ha insegnato a guardare ai popoli della Terra come fratelli da aiutare nella  difesa della dignità umana. 

 

Libera Università T. Marrone, 28 gennaio 2022                                                       Prof. Antonino Tobia

 

Autore Legre

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Inserito il 28 Gennaio 2022 nella categoria Relazioni svolte