Ancora oggi non si conoscono i veri motivi che spinsero l'imperatore Augusto a relegare Ovidio nella lontana Tomi, in Romania. Ne ha parlato il prof. Antonino Tobia
Relatore: Prof. Antonino Tobia - Letterato
Duemila anni sono trascorsi dalla morte di Publio Ovidio Nasone. Era il 17 d. C. e uno dei maggiori poeti elegiaci della letteratura romana moriva a Tomi, sulla costa occidentale del mar Nero, all’età di sessant’anni. Era stato relegato in una regione lontanissima dalla civiltà e dalla vita elegante che aveva conosciuto a Roma, colpito da un editto dell’imperatore Augusto nove anni prima. Ancora oggi non si conoscono le vere motivazioni che spinsero l’imperatore ad assumere un atteggiamento tanto severo nei confronti di un intellettuale che, per la sua abilità poetica e il su eclettismo artistico, poteva gareggiare con i poeti elegiaci del suo tempo,Catullo,Tibullo, Properzio, ed essere accostato allo stesso Virgilio per il patrimonio culturale che lasciò in eredità alle generazioni successive. Se Dante ha scelto come sua guida e maestro il poeta mantovano, è vero che la presenza di Ovidio ritorna nella Commedia ogni volta che il poeta deve ricorrere al mito per spiegare al lettore il significato del suomessaggio attraverso l’allegoria. Non è un caso che Ovidio è collocato da Dante nel Castello illuminato insieme ad altri insigni poeti: Omero, Orazio, Lucano, Virgilio, della cui schiera egli sarà il sesto: sì ch’io fui sesto tra cotanto senno (Inf. IV, 102) .
Ovidio nacque il 20 marzo del 43 a. C. a Sulmona, ridente cittadina dell’Abruzzo, da una ricca famiglia del ceto equestre, oggi diremmo borghese. Frequentò a Roma col fratello le scuole di grammatica e di retorica, per obbedire al padre che ambiva avviare i due figli all’attività forense. Ma gli studi retoricitarpavano le ali alla scoppiettantefantasia del giovane Ovidio e non era sua la colpa se tutto ciò che diceva assumeva il ritmo suadente del verso: quodtemptabamscribere versus erat (Tristia, IV, 10,26). Completati gli studi di retorica, si recò ad Atene, per approfondire la sua preparazione, e allo stesso tempo ebbe l’occasione di conoscereil mondo, viaggiando attraverso l’Egitto, l’Asia Minore e la Sicilia, dove soggiornò per circa un anno, assaporando i misteri e i miti di questa terra magica, che ricorrerà frequentemente nelle sue opere più mature.Ritornato a Roma, ricoprì le prime cariche del cursus honorum senatoriale, ma abbandonò presto la carriera pubblica per dedicarsi alla sua vera vocazione, la poesia. Contrasse per tre volte matrimonio ed ebbe una figlia, forse dalla seconda moglie o dalla terza, Fabia, che gli rimase fedele fino alla morte, sebbene lontanissima dallo sposo, relegato fino alla morte a Tomi.Così il poeta ricorda i tristi momenti del distacco dal suo fantastico mondo e dai suoi affetti: 'Piangevo, e la moglie amorosa piangendo mi abbracciava con più vigore e una pioggia di lacrime le bagnava le gote innocenti. Tre volte toccai la soglia, tre volte mi sentii trattenuto, e il piede si faceva più lento. Più volte avevo detto addio, ma ancora a lungo parlavo, e come se partissi davo gli ultimi baci. Addio Roma, non mi rivedrai più vivo' (Tristia, I, 3 passim). Anche da morto al poeta fu negato l’estremo desiderio di rientrare a Roma per trovarvi una degna sepoltura. Da san Gerolamo apprendiamo che fu sepolto nella sua odiata Tomi.La relegazione a Tomi segnò una cesura profondissima nella vita di Ovidio. Abituato agli agi, alle comodità, ai giochi licenziosi della capitale, improvvisamentedovette lasciare tutto, i suoi beni, le sue amicizie, i suoi familiari per vivere in una dimensione esistenziale di perenne infelicità e di attesa del perdono da parte dell’imperatore. Perdono che non giunse mai né da Augusto, né dal suo successore Tiberio.'Giovane, fuggii gli aspri scontri della milizia,/ armi solo per gioco maneggiai./ vecchio, adesso , la spada al fianco, alla sinistra/ lo scudo, all’elmo la canizie adatto (TristiaIV, 71-74).Il povero Ovidio vive a Tomi in una costante situazione di pericolo, circondato da barbari, che attentano alla sua incolumità fisica. Anche la natura gli è ostile: 'la neve giace: sole non la scioglie né pioggia,/ e Borea la indurisce e rende eterna./ La prima non s’è ancora fusa che altra ne arriva,/ e per due anni resiste in molti luoghi; e d’Aquiloneè tanta la furia che alte torri/ abbatte e tettistacca e spazza via./ Pelli cucite e brache parano il freddo intenso,/ di tutto il corpo è esposto solo il viso./ Risuonano del ghiaccio che ne pende i capelli,/ la barba brilla candida di gelo./ Scoperto si rapprende, modellandosi al vaso,/ il vino, e morsi ne bevi, non sorsi' (Tristia III, 10, 13-24).Il Ponto ovidiano, ha sottolineato recentemente Nicola Gardini, è il primo abbozzo di 'wasteland' che la letteratura occidentale abbia prodotto. Non sappiamo quanto risponda a verità la disperata descrizione del poeta. Sicuramente la situazione psicologica avrà giocato un ruolo non secondario nell’esagerazione dei contorni di quella landa sperduta, dove non crescono frutti, non cantano uccelli nelle selve, non vi scorrono sorgenti di acqua dolce, dove il mare che si stende come un manto di ghiaccio non consente di praticare la pesca, anche se quel mare e la solitudine gli dettarono i versi del poemetto in esametri,Halieutica sulla vita dei pescatori di Tomie la varietà dei pesci propri del mar Nero.Del testo rimangono 135 versi, trovati dall’umanista napoletano Jacopo Sannazzaro (1458-1530).Ma di quali colpe Ovidio si era macchiato per meritare una giustizia tanto punitiva?Non abbiamo risposte certe in proposito. Lo stesso attribuisce la triste conclusione del suo soggiorno romano ad un carmen, vale a dire ad una sua composizione letteraria, e ad un error. «Perdiderintcum me duo crimina, carmen et error: alteriusfacti culpa silendamihi» (Tristia, 2,1 v.207 sg.). Quale carme e quale errore fecero meritare questo destino non è dato sapere: lo stesso poeta non scese mai nei particolari, che certamente erano oggetto di gossip presso i contemporanei, ma a noi non è dato sapere. La tesi più accreditata, circa l’error, vorrebbe che Ovidio fosse a conoscenza della relazione adulterina di Giulia Minore, nipote di Augusto, con Decimo Giuno Silano, che indusse il nonno ad esiliare la nobile matrona sull’isola Tremerus (isole Tremiti). L’esilio di Giulia Minore coincise, infatti, con la relegazione di Ovidio, che l’imperatore mal sopportava per le sue audaci pubblicazioni a sfondo erotico, contrarie alla morigeratezza che egli voleva riportare nei costumi romani. Inflessibile sulla morale, Augusto anni prima aveva a malincuore inviato in esilio a Ventotene la figlia Giulia, a causa dei suoi costumi troppo libertini, in cui forse il poeta di Sulmona era stato coinvolto direttamente o indirettamente, o per essersi trovato nel posto sbagliato nel momento meno opportuno. Nell’identificazione del carmen e facile fare riferimento all’Ars Amatoria, che dovette essere oggetto di scandalo, di certo superiore a quello suscitato dalla pubblicazione degli Amores e delleHeroides, al punto che l’imperatore ne ordinò il ritiro dalla biblioteche pubbliche. Insomma, l’Ars amatoria fu la goccia che fece traboccare il vaso della tolleranza imperiale.Quando l’8 d. C. il poeta cinquantenne fu colpito dalla pesante punizione dell’imperatore, i circoli culturali dell’Urbe e i salotti dell’aristocrazia romana conoscevano bene il poeta e la maggior parte avrà pure goduto di quella licenziosità erotica, che era stata la musa ispiratrice fin dai primi distici giovanili. Ancora ventenne, Ovidio aveva pubblicato il suo canzoniere amoroso, gli Amores, una raccolta di elegie, sulle orme di Catullo, Tibullo e Properzio. L’amore rappresenta il focus dell’opera, priva tuttavia dell pathos che accompagna le elegie dei poeti a lui noti.Qui l’amore è rappresentato come un lusus, un piacevole svago, una semplice esperienza da cui trarre momenti di edonismo senza alcuna sofferenza o momenti di gelosia o espressioni drammatiche che scandiscono una relazione amorosa. Per potere essere definito un canzoniere, manca la figura femminile, attorno alla quale i sentimenti e le passioni vivono di odio e d’amore. Si è lontani dal tormento di Valerio Catullo, che viveva come un martirio il suo ondivago amore per l’infedele Lesbia. La donna del poeta, Corinna, è uno pseudonimo che ricorda la poetessa maestra di Pindaro. Si trattaprobabilmente di una donna di cui non può rivelare l’identità, o forse di un prototipo evanescente, paradigma di tutte le donne da lui frequentate. Di questa s’ignora tutto, tranne che non si fidava del suo puttaniere amante, costretto a cercare sempre nuove scuse per nascondere i suoi tradimenti. E in Amores il poeta declina tutta una casistica erotica, proiettata sullo sfondo della vita brillante e lussuriosa della Capitale, assumendo il ruolo di precettore della teoria dellibero amore. È assente tuttavia la pungente ironia che il Parini farà scorrere nel suo capolavoro, anche lui nelle vesti di precettore di un Giovin signore.L’amante deve saper mentire sempre, anche essere spergiuro quando è necessario:'Ti giuro nel nome di Venere e sull’arco del tuo alato figliuolo che tu mi accusi di una colpa che non ho commesso'. Così il traditore fedifrago risponde alla sua donna, che lo accusa di avere una tresca con la schiava di cui più lei si fidava, Cipasside. In ogni caso, suggerisce Ovidio, quando si tradisce, bisogna essere cauti ed evitare occhi indiscreti, soprattutto quando un cittadino libero romanosi porta a letto una schiava. Cipasside è la serva più cara alla sua padrona, bella, bruna e abile nell’acconciare i capelli in mille maniere. Sa che non è onesto tradire la fiducia della padrona di casa, vuole resistere alle avances del mandrillo per non profanare il talamo nuziale di colei che la protegge. Ma, avendo ceduto una volta, seppure costretta, è ormai oggetto del ricatto di chi le ha usato violenza : 'Cipasside, bada che mi presenterò io stesso a denunciare la mia colpa e racconterò alla tua padrona dove sono stato con te, e quante volte e in quante e quali maniere'(Amores, II, 7-8). Il tradimento è lecito, non c’è rimorso né pentimento. Non è configurata neppure l’offesa verso chi ti ama.L’amore è solo un piacevole divertimento, una caccia al tesoro dove il premio cambia di volta in volta e richiede l’impego di strategie sempre diverse per catturare la preda. Ovidio è il machiavelli della conquista erotica e il suo libro vuole essere un trattato in cui virtù e fortuna collaborano per raggiungere l’oggetto del desiderio. Se la donna che si sceglie di conquistare ama la corsa dei cavalli, l’amante deve correre allo stadio, seppure lo spettacolo non l’appassioni. Qui deve sedersi accanto alla sua preda ed iniziare l’azione di corteggiamento : 'Perché ti scosti inutilmente?L’intaglio dei posti ci costringe a stare accanto: benedetta questa norma che rende così piacevoli gli spettacoli al Circo! Ma tu, sconosciuto spettatore che siedi alla sua destra, non dar fastidio alla mia fanciulla … E tu che stai a sedere dietro a noi, tieni le gambe a posto .. non le premere la schiena con il tuo ginocchio' (Amores,III, 2). Il lupo non vuole perdere la sua preda. Non è neppure gelosia, ma desiderio di possesso, il piacere della conquista, di cui vantarsi magari con gli amici. Per raggiungere lo scopo, non c’è morale che tenga, anzi è lecito fare ricorso alle menzogne, alle finzioni, persino agli spergiuri. Del resto, si sa per tradizione che 'Iupter ex alto periuriaridetamantum/ et iubetAeoliosinritaferreventos (Ars amatoria, I, vv. 645-646). A questo genere di poesia erotica appartengono le Heroidese soprattutto l’Ars amatoria.LeHeroides sono una colta e raffinata raccolta di 21 lettere, che il poeta immagina indirizzate da eroine del mito ai loro mariti o amanti. Così Penolope scrive a Ulisse, Briseide ad Achille, Arianna a Teseo, Medea a Giasone,Didone ad Enea, Fedra al figliastro Ippolito. L’unico personaggio storico è Saffo, la poetessa di Lesbo che indirizza il suo disperato grido d’amore a Faone. Il poeta delleHeroidesnon è molto diverso dal cantore degli Amores: ha sostituito l’elegia erotica di carattere soggettivo con la proiezione del medesimo mondo in una carrellata di figure femminili, che amano e soffrono, vivendoeroicamente il dramma che le sconvolge o ponendo una tragica fine alla loro passione.Ovidio sa scrutare a fondo l’animo femminile, sa coglierne la sensibilità, sa usare il linguaggio come strumento di scavo interiore. Il tormento diventa dramma e il personaggio attraverso la lettera pone sulla scena se stesso e coinvolge il lettore con vivida rappresentazione. Così l’elegia si pone sulla scena e riproduce le tante esperienze erotiche del giovane poeta.Quelle proprie e quelle suggerite dalla frequentazione degli ambienti aristocratici dell’Urbe, in cui l’erotismo, la perversione e la lussuria avevano contaminato le sfere più alte del potere, lo stesso palazzo imperiale, da Giulia Maggiore, figlia di Augusto, a Giulia Minore sua nipote, da Messaliana ad Agrippina.Se Arianna, Medea, Didone lamentano l’infedeltà e il tradimento dell’uomo che hanno amato e in cui avevano creduto, al contrario, il dramma di Fedra scaturisce da una passione incestuosa per il figliastro Ippolito, che si rifiuta di diventare l’amante della moglie di suo padre. Fedra, prima di decidersi a confessare per lettera i suoi impudichi sentimenti, è tormentata, prova vergogna, non riesce a rivolgere la parola al figliastro, ma 'gli ordini di Amore, quali che siano, è pericoloso trasgredirli: egli ha dominio e potestà anche sugli dei, che pure sono i nostri padroni'. Fedra prova a dare una giustificazione all’irruente sua passione. Il suo cuore brucia, e si tratta di un cuore inesperto che 'subisce con profondo tormento la prima fiamma d’amore'. Sono gli dei arbitri del destino umano e forse la stesa Venere ha voluto scalfire la sua illibatezza per la maledizione che incombe sulla sua stirpe: Giove aveva amato Europa, celandosi sotto le spoglie di un bel toro, dalla cui unione era nato Minosse, padre di Pasife; sua madre Pasife, essendosi camuffata col falso aspetto di una giovenca, si era accoppiata con un toro e aveva partorito il Minotauro; sua sorella Arianna, che aveva aiutato Teseo nell’impresa di fuggire dal labirinto, ucciso il Minotauro, era stata tradita e abbandonata dall’uomo che aveva amato al punto di fuggire con lui dalla sua Creta. Infine, se Arianna era stata affascinata dalla bellezza di Teseo, padre di Ippolito, lei, Fedra, sorella di Arianna, è stata sedotta dal fascino di Ippolito,suofiglio. E come sua sorella, anche lei è disposta a seguire il su amato per ogni dove, per selve e anfratti, per radure e luoghi selvatici, inseguendo con l’arco cinghiali e fiere pericolose. La passione per la caccia non deve negare a Venere le funzioni cui essa ha diritto. E gli esempi che ne fornisce il mito sono tanti. Quanti, infatti, i tradimenti di Giove, di Venere, di Giunone, della divina Aurora che non disdegnava di lasciare di nascosto il talamo del marito, il vecchio Titone, per godere di Cefalo, famoso cacciatore di belve feroci ! Anche lei ormai è decisa ad essere annoverata tra tali amanti. Se il casto Virgilio aveva cantato che 'amor omnia vincit', suggerendo a Dante che l’amore 'a nullo amato amar perdona', è naturale per Ovidio non solo cedere all’’amore, ma soprattutto acquisire l’arte di amare, che non riconosce regole morali, né tabù sociali: la donna è un oggetto da conquistare sia essa libera o schiava, sia essa giovane fanciulla o donna sposata. È’ questo il tema che si propone di trattare nell’Ars amatoria, un poema didascalico in distici elegiaci, che gli assicurò fama e onori nei circoli culturali della capitale e nel bel mondo dell’aristocrazia che si compiaceva della letteratura pruriginosa del poeta di Sulmona. L’arte della conquista amorosa, gli stratagemmi per tenere la donna legata a sé, la spregiudicatezza come condotta di vita attraversano i tre libri dell’opera. Ciò, peraltro, avveniva mentre Augusto tentava di morigerare i costumi, di moralizzare la società, partendo dalla sua famiglia. Come nota L. Alfonsi, ' si disgregava nel riso e nell’aperta affermazione di indifferenza morale, con naturalezza e facilità impressionanti, tutto il patrimonioetico di secoli di tradizione' ( L. Alfonsi e G. Abbate, in Antologia degli elegiaci, To 1977). Nel libro terzo, dopo aver istruito ben bene gli uomini sull’arte di amare, si rivolge alle donne per consigliare loro come rendersi belle, truccarsi, atteggiarsi, nascondere i piccoli difetti. Ovidio è convinto che gli uomini siano conquistati dall’eleganza semplicee raffinata. Particolare interesse mostra per la cura dei capelli. Questi debbono essere lunghi e scendere sulla spalle, lasciando la fronte senza alcun ornamento se il volto è allungato. Al contrario, se il viso è rotondo è opportuno che siano raccolti in un piccolo nodo. C’è chi ama cotonarsi i capelli e rigonfiarli come le onde del mare, chi farseli ben tirati, chi trattenerli con un fermaglio di tartaruga. E poi, occorre che la donna sia oltremodo pulita, non puzzino le sue ascelle del tanfo di un caprone, non si presentino le sue gambe ruvide ed ispide di peli. È importante anche la scelta del vestito: le donne di carnagione pallida indossino vestiti di colore oscuro, che ne facciano risaltare il pallore; le brune scelgano vestiti di lino con colori chiari che ne facciano risaltare l’incarnato. Per accentuare i pregi e nascondere i difettiè di grande aiuto la cosmesi. La cipria bianca a base di argilla in polvere può schiarire una carnagione troppo scura; i sopraccigli radi si possono infoltire ed allungare con la fuliggine di una lucerna; gli occhi possono apparire più profondi e intensi se segnati con un lieve tocco di carboncino o trattati con la polvere gialla di croco; un piccolo neo posticcio può gradevolmente ornare il volto, nascondendone qualche macchia ed esaltandone il pallore, tanto di moda presso le matrone romane. Alla donna eccessivamente magra consiglia di indossare ampi vestiti di lino a strisce rosse e di tenere coperte le scapole ossute. Ma, dopo essersi dilungato con esempi e riferimenti dotti sull’arte di amare delle donne, per la cosmesi rinvia le sue lettrici a quanto aveva già trattato nel suo Medicamenfaciei. C’è da chiedersi se Ovidio affrontasse questi argomenti con l’impegno didascalico che rivela nella cura descrittiva dei particolari, oppure se il suo insegnamento non fosse quello ironico che il buon Parini farà scorrere tra gli endecasillabi del suo poema nella nuova temperie culturale dell’Illuminismo lombardo. Anche se così fosse, la sua vena ironica non fu compresa né accettata e di ciò pagò le conseguenze con una condanna senza indulti.La relegatio a Tomi non spense la vena poetica di Ovidio. Egli non era stato privato né della cittadinanza romana né della disponibilità dei suoi beni. Pertanto poté continuare a studiare e a scrivere versi sebbene con uno stato d’animo diverso, intriso di tristezza e nostalgia.È’ discutibile quale debba essere considerato il capolavoro artistico del poeta di Sulmona. Per molti critici la palma spetterebbe all’Ars amatoria per l’originalità dell’opera e per il divertito modo di esporre la materia, chealterna licenziosi particolari descrittivia narrazioni mitologiche. L’Ars amatoria assegnava al poeta la corona di abile e piacevole verseggiatore, ma allo stesso tempo lo esponeva impietosamente all’ira dell’imperatore per aver osatotroppo in dissonanza con il programma etico augusteo.Era, perciò, necessario cambiare genere poetico con un’opera di ampio respiro, più consona al clima culturale diffuso e incoraggiato da Mecenate, amico e ministro di Augusto. Così nacquero le Metamorfosi, un capolavoro di poesia ed erudizione che haassicurato ad Ovidio il successo presso i posteri.L’opera, in quindici libri, probabilmente era stata completata prima della sua partenza per Tomi, dove venne ripresa e sottoposta ad un accuratolaborlimae. Si tratta di un poema in stile epico originale, più lungo dell’Eneide di Virgilio, le cui fonti sono numerose e non sempre individuabili, in quanto comprende suggestioni e motivi mitologici di ogni epoca greca e latina, da Omero a Virgilio, organizzando una vera enciclopedia del mito. L’uso dell’esametro, al posto del distico elegiaco delle opere precedenti, si adatta all’intenzione dell’autore di seguire il metro del poema epico. L’epos delle Metamorfosi è però un pretesto narrativo. Il centro d’interesse continua ad essere l’amore declinato nelle sue diverse espressioni: passionale, drammatico, sensuale, elegiaco. In una società liquida, che aveva smarrito i valori deimoresmaiorum, cui sforzatamente Augusto voleva richiamarla, l’opera appare il tentativo di restituire certezze ad un mondo che viveva nel relativismo etico, soggetto al perenne divenire dei costumi e della politica. In questo senso, un tale processo di rapido cambiamento di vita e di istituzioni si rifletteva bene nell’idea ovidiana delle metamorfosi, legate alla precarietà dell’essere, dove appare labile il confine tra eros e thanatos, tra restauratio e renovatio. Già in età ellenistica, il divenire di una società nuova ere stato avviato da Alessandro Magno e gliAitia di Callimacoerano stati il tentativo di raccogliere e tramandare miti e leggende in cui si conservasse la memoria delle generazioni passate.Ovidio si provò a dare unità strutturalead un’immensamateria che cercò di presentare come la storia universale del divenire cosmico, che peraltro gli offriva l’opportunità di celebrare anche il momento storico dell’età augustea. Il poema si chiude, infatti, con un finale filosofico-religioso, in cui il filosofo greco Pitagora è presentato come maestro di Numa Pompilio, al quale spiega le leggi universali del divenire e con afflato profetico annuncia la futura grandezza di Roma e la divinizzazione di Augusto: 'Sia lontano il giorno in cui il capo d’Augusto, che governa il mondo, lasci la terra, sia accolto in cielo e ascolti le preghiere dei Romani'. Se all’imperatore spetterà di diritto di partecipare al convito degli dei, nondimeno a lui stesso, grazie alla sua poesia, non mancherà l’onore dell’immortalità, perché né l’ira di Giove né il fuoco né il ferro né il tempo edace potranno annullare la sua opera, che sarà letta dovunque si estende l’impero di Roma, assicurando al suo autore una fama attraverso tutti i secoli' (Met., XV, vv. 869-879, passim). Questa conclusione poteva suonare come una sorta di captatiobenevolentiae, manon fu sufficiente a conciliargli l’animo dell’Imperatore e ad evitargli il severo editto della relegatio.L’opera di Ovidio affronta un tema cosmico, quello della trasformazione di un essere in un altro di natura diversa.E’ il tema che attraversa tanta parte della letteratura mondiale, da Apuleio a Kafka,da Dante a Collodi. Nelle tre cantiche dellaCommediaDante ricorre costantemente alla trasformazione degli spiriti ora peggiorandone l’aspetto con il ricorso alle figure più orripilanti che gli possono fornire la natura o la sua immaginazione, ora sublimandone gli aspetti. Anche il suo trasumanarè esso stesso ilmassimo del cambiamento della sua condizione umana.Ma, mentre il processo metamorfico in Danteappartiene alla dimensione della trascendenza, in Ovidio il tema di fondo resta il dramma dell’amore profano. Così, la trasformazione di Dafne in alloro non ha un valore punitivo, di condanna come per i suicidi danteschi, ma semplicemente poetico, ispirato dalla passione erotica . Il poeta descrive con particolari struggentila metamorfosi della ninfa Dafne in alloro nell’atto di essere ghermita dal voglioso dio Apollo senza alcun riferimento etico, ma solo per la repulsione di un atto di violenza.Pure la trasformazione in quercia e tiglio di Filemone e la moglie Bauci (VIII libro) rientra nella sfera dell’amore terreno, che per sopravvivere alla morte fisica deve ricorrere alla trasformazione:Filemone e Bauciavevano offerto generosamente ospitalità a Zeus e ad Ermes, presentatisi in sembianze umane nella loro misera capanna di fango e canne.' Un giorno ormai sfiniti dalla decrepitezza dell’età avanzata …Bauci s’accorse che Filemone si copriva di fronde e il vecchissimo Filemone s’accorse che di fronde si copriva Bauci. Mentre sul volto di entrambi andavano crescendo le cime degli alberi, si rivolsero, finché poterono,le ultime parole: - Addio, consorte -, esclamarono a un tempo, e allo stesso tempo la corteccianascose e coperse le loro bocche'.Ovidio canta l’amore terreno, immortalato dalla metamorfosi concessa dalla divinità, e ogni trasformazione rimane nell’ambito della sfera naturale. Al contrario, la metamorfosi nel poema dantesco, a partire dal Purgatorio, acquista il significato della catarsidell’uomo, che inizia il suo processo di trasformazione da 'verme' in 'angelica farfalla'(Purg. X) e l’ascesi verso il Paradiso terrestre è una continua metamorfosi dell’anima del penitente, che si sgrava via via del peso dei suoi peccati.Nel poema dantesco la metamorfosi del paesaggio accompagna il divenire dell’anima. Così il 'dolce colore d’oriental zaffiro', che si contrappone all’atmosfera infernale, dove il cielo è 'd’ogni luce muto', fa da sfondo consolatorio al processo di purificazione e si richiama alle proprietà che i lapidari medievali attribuivano allo zaffiro, la pietra che possiede la virtù di liberare l’uomo dalle catene e di restituirgli la speranza della libertà. Già il coltissimo poeta medievale,Marbodo di Rennes, nel suo lapidario De lapidibus, aveva decantato lo zaffiro come la pietra che più si addiceva all’anello di un re per il suo colore rasserenante, simbolo della fede e della speranza celeste.Un chiaro riferimento ad Ovidio lo si trova ancora nel cantoIX del Purgatorio, laddove Dante si sente rapito in sogno da un’aquila dalle penne d’oro, che lo innalza fino alla sfera del fuoco, come il bel giovane Ganimede nelle Metamorfosi è tratto su da un’aquila per volere di Zeus, perché a sua volta, reso divino,assuma il ruolo di coppiere degli dei.Il mito di Glauco è un altro esempio che Dante coglie dalle Metamorfosi(XIII,898-968), per spiegare al lettore il significato del suo trasumanar nel fissare gli occhi di Beatrice: 'Nel suo aspetto tal dentro mi fei,/ qual si fé Glauco nel gustar de l’erba/ che ‘l féconsorto in mar de li altri dei' (Par., I vv. 67-69). Dante si sente trasformare interiormente e oltrepassare i limiti della natura umana, alla stregua del pescatore Glauco, mentre assaggiava l’erba che aveva restituito vigore ai pesci da lui deposti sul prato.Non solo il Medioevo, ma anche i secoli successivi hanno mantenuto vivo il ricordo del poeta si Sulmona, modello di un eccentrico modus vivendi e di un originale virtuosismo stilistico, dalla concezione edonistica del Boccaccio al tragico amore di Giulietta e Romeo, in cui l’episodio ovidiano di Piramo e Tisbe è ben presente al drammaturgo inglese, fino al D’Annunzio, che riprende il mito di Dafne colorandolo dei toni di una struggente sensualità nel poemetto L’oleandro del terzo libro delle Laudi.Accanto alle Metamorfosi Ovidio voleva collocare un’opera di notevole erudizione, ispirandosi agli aitia delpoeta alessandrino Callimaco. In dodici libri intendeva celebrare in distici elegiaci i Fasti di Roma, spiegando l’origine dei riti, delle festività e di alcune usanze registrati nel calendario romano. L’opera, iniziata prima che lo colpisse l’editto augusteo, rimase interrotta al sesto libro e al mese di giugno. Si tratta di un lavoro poco sentito, non rispondente al temperamento del poeta, che tentava invano di recuperare dinanzi all’Imperatore un’ immagine più consona a quella politica di restaurazione dei maiorummores, sostenuta dal fior fiore dell’intellighenzia che circondava la corte.I Tristia raccolgono i lamenti dell’esule, nostalgico della sua città, lontano dalla moglie e dagli amici. ' Parve – necinvideo – sine me liber ibis in urbem/ ei mihi, quod domino non licet ire tuo' (Tristia, I,1). Si tratta di 50 componimenti in distici elegiaci raccolti in 5 libri secondo un ordine cronologico che va dall’ 8, anno in cui dovette lasciare Roma, al 12 d. C..La maggior parte di queste elegie non presentano il nome del destinatario, forse per una certa cautela a non coinvolgere altri nella sua disgrazia. Sono invece indicati i destinatari quando si tratta della moglie, di alcuni membri della famiglia di Augusto, e dello stesso Imperatore, al quale indirizza parecchie elegie di supplica e di adulazione. Il poeta disperato si chiede: Curaliquid vidi?Curnoxia lumina feci?/ Cur imprudenticognita culpa mihi? (Tristia, II, 103-104). Egli sa,maapparentemente non vuole dare una risposta ai suoi struggenti interrogativi, perché non ritiene una colpa così grave i suoi carmi, né giustoche il suo genio gli procuri l’esilio (Tristia,I,1). Forse la risposta è nell’epitaffio che volle fosse posto sulla sua tomba, allorché preferì non essere ricordato dai posteri per la sua opera più impegnativa, le Metamorforsi, ma come tenerorumlusoramorum(Tristia,III, 3, 73) con evidente riferimento alla sua originale poesia dell’amore, quella che anche in esilio sentiva veramente sua.Hic ego qui iaceo/tenerorum/lusor/amorum/Ingenio perii Naso poeta meo;/attibi qui transis ne sit grave quisquis amasti/dicere: Nasonis/molliter ossa cubent.- Antonino Tobia
Inserito il 24 Ottobre 2017 nella categoria Relazioni svolte
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