Il matrimonio nell'antica Roma illustrato dall'avv. Leonardo Poma
Relatore: Avv. Leonardo Poma
(Si riporta, qui di seguito, la relazione integrale dell’avv. Leonardo Poma)
IL MATRIMONIO NELL’ANTICA ROMA
by Leonardo Poma
Gentili signore e signori,benvenuti.
Questa sera desidero invitarvi a nozze.
Parleremo, infatti, di un argomento certamente interessante e sempre attuale e che in vero vede molti di voi, di noi coinvolti. Parliamo, infatti, di matrimonio, fonte di felicità per tanti, ma purtroppo anche di infelicità per altri. E all’uopo, questa sera faremo un viaggio, molto indietro nel tempo, addirittura 2000 od anche 2500 anni fa, e cioè nell’antica Roma, e vedremo come molte cose sono uguali e altre diverse dal matrimonio di oggi.
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E ALLORA PRIMA DI INZIARE DAVVERO ASCOLTIAMO, IN ONORE DI TUTTI GLI SPOSI PRESENTI, LA MARCIA NUZIALE DI WAGNER
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Certo i nostri progenitori Romani non ebbero l’opportunità di ascoltare la celebre marcia nuziale, e magari accompagnavano i loro matrimoni al suono di zufoli, cetre, ed arpe.
Ed ora entriamo davvero nel matrimonio romano, che io ho sintetizzato nel titolo di questo nostro incontro con le fatidiche parole ubi ti Gaius, ego Gaia, che in seguito spiegherò meglio.
ALLORA A MO’ DI PREMESSA
chiediamoci subito: che significa MATRIMONIO ? E non vi sembra che questa parola abbia una notevole assonanza con PATRIMONIO?
Certamente sì, ma i due significati sono completamente diversi, per quanto abbiano una certa comune ascendenza.
Il matrimonio - lo sappiamo intuitivamente tutti - è in buona sostanza l’unione dell’uomo e della donna per creare una famiglia e vivere insieme, formalizzata dinanzi all’officiante e a testimoni. Ma sul concetto ritorneremo.
Il patrimonio è invece il complesso dei rapporti economico-giuridici di cui una persona è titolare.
E allora ?
Osserviamo: nella parola matrimonio la prima parte è composta da mater, madre, mentre monio deriva probabilmente da munus, e quindi è compito della madre, accudire la casa, generare la prole, con una maternità legale che deriva da giuste nozze, quindi con valenza giuridica.
La parola patrimonio si compone, invece, del termine pater che unita a munus sostanzialmente vuol dire che è suo compito ricercare i mezzi per il sostentamento della famiglia, per crearne il benessere, il tutto in quell’ottica di una società romana, ma poi non tanto lontana da quella nostra, che vedeva la moglie dentro casa e il marito fuori al lavoro. E quindi patrimonio anche come complesso dei beni lasciati dal pater.
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L’istituto del matrimonio, come comportamento sociale, è molto antico, e variamente organizzato secondo i tempi e i luoghi. Regolato da norme, civili e/o religiose, nasce quando il consorzio sociale si organizza, e infatti ubi societas, ibi ius, dicevano i Romani: insomma laddove vi è una società ovvero una presenza di una moltitudine di esseri umani, ivi per forza di cose, quasi automaticamente sorge il diritto, cioè un complesso di norme atte a regolare la vita di quella società (pensate, in piccolo, ad un moderno condominio che ha pure un proprio regolamento).
E cosa non sono i Dieci Comandamenti, il cosiddetto Decalogo, se non una serie di norme essenziali per una società semplice e quasi primitiva e presentate come un comando divino per essere più facilmente osservate. In particolare, nell’ambito della famiglia, vogliamo ricordare il quarto comandamento: onora il padre e la madre e il nono: non desiderare la donna d’altri.
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Non a caso il Foscolo in un significativo passaggio del carme Dei Sepolcri ritiene che i popoli primitivi cominciarono ad essere civili "dal dì che nozze e tribunali ed are diero alle umane belve essere pietose di sè stesse e d’altrui..." (vv.91-93), laddove appunto l’istituto delle nozze viene considerato, insieme alla giustizia e alla religione, primigenio cardine della società civile.
E torniamo alla grande antica Roma, maestra di civiltà e diritto. In tal senso le prime norme codificate le troviamo proprio in quell’arcaica legislazione, sommaria ma basilare e importante, paragonata per molti versi ai già detti Dieci Comandamenti, che viene ricordata come la Legge delle dodici tavole (Lex duodecim tabularum), compilata dai Decemviri fra il 450 e il 450 a.C., legge che come nel decalogo di Mosè e alle leggi mosaiche paragonata, contempla almeno due tavole che si occupano della famiglia, dettandone i principi fondamentali: Tabula IV (Genitori e figli), Tabula XI (Matrimonio), cioè diritto di famiglia.
La Legge delle XII tavole fu ritenuta l’arca santa del popolo romano, tanto che lo stesso Cicerone ebbe a dire che contenesse "totam civilem scientiam". Di essa rimangono, purtroppo, soltanto frammenti e citazioni nelle opere dei vari giureconsulti. Col passare del tempo, pur mutando le esigenze, essa non venne mai abrogata ma, semmai, opportunamente disapplicata con gli espedienti giuridici di cui i Romani erano maestri. Solo per l’occasione ricordiamo anche che tale legge e il Corpus Iuris di Giiustinano di nove secoli più avanti, costituiscono le uniche codificazioni organiche del diritto romano.
DEFINIZIONE ROMANA DI MATRIMONIO
Nuptiae sunt coniunctio maris e feminae,
et consortium omnis vitae,
divini et umani iuris comunicatio.
La bella e completa definizione è del giureconsulto Erennio Modesttino (3° sec. d.C.), discepolo di Ulpiano.
E’ utile osservare:
la definizione, per quanto proveniente da un giureconsulto ancora pagano, ben si confà con i principi religiosi del cristianesimo e risulta perfettamente attuale ai nostri tempi;
il giureconsulto usa le parole forti mas (maschio) e foemina (femmina), anzicchè homo (uomo) e mulier (donna), proprio per accentuare l’unione fisica fra gli sposi;
la definizione prosegue con il riferimento al consorzio cioè al dividere la vita per tutta la vita, allo stare sempre insieme;
e, infine, con tono ancora più elevato, conclude dicendo che il matrimonio è una comunione di diritto umano e divino. Considerazione bellissima e profonda.
Tutti concetti, insomma, validissimi ancor oggi e presenti nel nostro matrimonio che è insieme sacramento e contratto civile.
Ed è proprio dal matrimonio che scaturisce la
FAMIGLIA - FAMILIA
definita da Cicerone "principium urbis et quasi seminarium rei pubblicae", fondamento insomma dello Stato.
E cosa recita l’art. 29 della nostra Costituzione? "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio". Badate matrimonio e non convivenza o unioni di fatto, anche se qualcosa oggi si sta muovendo pure in questo senso.
E allora quali sono i
FINI DEL MATRIMONIO
Finis primarius: procreatio atque educatio prolis.
Finis secundarius: mutuum adiutorium et remedium concupiscentiae.
(in vero dal canone 1013 del Codex iuris canonici, che per quanto sia del 1582, recepisce in buona sostanza principi fondamentali molto antichi. Il significato è abbastanza intuitivo).
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Dopo tutto quanto già detto a titolo di introduzione e premessa, parliamo più segnatamente, anche DAL PUNTO DI VISTA GIURIDICO E STORICO dell’istituto del
MATRIMONIO ROMANO
E per entrare nel vivo dell’argomento, per averne anche, in un certo senso, una visione scenografica, guardiamo preliminarmente un filmato moderno dalla durata di circa cinque minuti che ricostruisce per sommi capi la celebrazione del matrimonio stesso.
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Orbene il matrimonio romano, a parte alcuni principi analogici, è profondamente diverso da quello attuale. E tuttavia era alla base dell’istituto familiare e quindi della società romana: ricordiamo, come sopra detto, Cicerone.
A Roma – lo ricordiamo subito – a differenza di altri antichi popoli – la configurazione giuridica del matrimonio è rigorosamente monogamica, anche se venivano tollerate le 'scappatelle' del marito e poi anche quelle della moglie, in età imperiale, per una certa rilassatezza dei costumi che cominciò ad essere frenata solo quando si affermò decisamente il cristianesimo.
Desideriamo ricordare che per il diritto canonico, esso è un sacramento e un contratto, per il diritto civile moderno è un negozio giuridico, assai particolare e complesso, nel quale intervengono la volontà delle parti e quella dello Stato.
Il diritto romano considerava il matrimonio, piuttosto, uno stato di fatto (res facti), anche se produttivo di importantissime conseguenze giuridiche.
Il matrimonio romano soprattutto in età classica - prescinde da solennità iniziali, poiché esso si perfeziona e perdura in quanto di fatto sussistano i due fondamentali elementi della:
coabitazione (requisito oggettivo), anche se non necessariamente continuativa, ammettendosi saltuarie e periodiche assenze per giusti motivi. Però doveva iniziare in modo inequivocabile e pubblico con deductio in domum mariti della sposa, > ubi tu gaius, ego gaia < (la fatidica frase pronunciata dalla sposa e della
maritalis affectio (requisito soggettivo), cioè il consortium omnis vitae, il rispetto reciproco dei coniugi e in particolare il titolo di mater familias che viene tributato da tutti alla sposa, ovvero ancora l’honor matrimonii
e si scioglie con il venir meno di uno di questi elementi.
Quindi non bisogna pensare che la concezione romana del matrimonio sia materialistica, anzi risulta nobilissima e altamente spirituale.
GLI SPONSALI
Con il termine sponsali si intendeva la promessa di futuro matrimonio, cioè il fidanzamento (sponsio et repromissio futurarum nuptiarum).
I matrimoni solitamente venivano decisi dai parenti dei due giovani e i motivi erano sempre di natura economica, soprattutto in età repubblicana.
Il fidanzato donava alla futura sposa un anello, quale pegno della sua promessa di matrimonio, e che la donna si metteva nell’anulare della mano sinistra, ritenuto – come riporta Aulo Gellio – quello anatomicamente vicino al sottile nervo che porta la cuore.
Il fidanzamento non obbliga al matrimonio, perché in tal caso lederebbe la libertà matrimoniale, però produce conseguenze giuridiche, come:
> l’azione a favore del futuro sposo in difesa della futura sposa in caso di offese
alla stessa (actio iniuriarum);
> l’accusatio adulterii per il tradimento di lei;
> il divieto di contrarre contemporaneamente altri sponsali;
> il consenso del pater familias.
In epoca postclassica si introdusse un istituto di origine orientale, le arrhe sponsaliciae, prestazione scambievole di una caparra, con la clausola che la parte inadempiente avrebbe perduto l’arrha prestata e restituito il quadruplo di quella ricevuta. Insomma una sorta di pressione a contrarre matrimonio.
Anche i doni che i fidanzati si scambiano si intendono fatti a condizione che segua il matrimonio, e quindi sono ripetibili se non segua. Non ha diritto di ripetizione chi si è rifiutato senza giusta causa al matrimonio.
Se gli sponsali si rompano per morte del fidanzato, la fidanzata restituisce solo la metà se sia stata baciata alla conclusione degli sponsali (osculo interveniente).
Notare che osculum deriva da os-oris (bocca), e quindi sembra che per i nostri maliziosi padri romani, il bacio sia essenzialmente sulla bocca!
PRESUPPOSTI DEL MATRIMONIO
Sono presupposti essenziali e inderogabili:
1. status libertatis (l’unione fra schiavi o fra liberti non è matrimonio ma contubernium);
2. ius connubii, al fine di contrarre iustae nuptiae: ne godono solo i cives. E inoltre non potevano averlo alcune categorie di persone: per esempio i patrizi non potevano sposare i plebei (almeno sino alla lex Canuleia del 445 a.C.), e ciò per evitare una presunta contaminazione di sangue e che fossero sovvertiti i diritti delle razze (Livio), i senatori non potevano sposare una liberta o una mulier famosa, il magistrato provinciale una donna della provincia, e nel diritto dell’età cristiana il cattolico non può sposare un’ebrea.
3. idoneità fisica: gli evirati non possono contrarre matrimonio. Quanto all’età, si richiede il raggiungimento della pubertas (almeno 14 anni d’età per i maschi e 12 per le femmine).
4. inesistenza di altro matrimonio: il matrimonio romano è monogamico.
5. inesistenza di determinate relazioni di parentela naturale o adottiva: i limiti mutarono a poco poco nel tempo. Fu, infatti, l’imperatore Claudio (41-54 d.C.), a modificare la legge al fine di sposare la nipote Agrippina.
6. tempus lugendi per la vedova: cioè la donna non può contrarre matrimonio se non dopo dieci mesi (poi dodici) dalla morte del marito, onde evitare l’incertezza della paternità (turbatio sanguinis) > ricordiamo: mater sempre certa, pater nunquam.
7. consenso: per il filius familias (se alieni iuris) occorre il consenso del pater familias o anche degli altri ascendenti se ci sono; per la figlia il solo consenso del pater. Il consenso veniva presunto se il pater fosse impossibilitato a darlo se assente o furiosus.
A questo punto chiariamo;
MANUS = (simbolo dell’autorità) potestà del padre sui figli o del marito sulla moglie.
FAMIGLIA AGNATIZIA = AGNATIO = è il vincolo che lega al pater familias e fra di loro tutti coloro che sono sottoposti alla potestas dello stesso capo, indipendentemente da vincoli di sangue (così i figli adottivi e le donne convenute in manum).
COGNATIO = è il vincolo che lega fra loro tutti i parenti di sangue, che discendono, cioè, da un comune capostipite, siano essi agnati o no.
Col passare del tempo perse importanza la famiglia agnatizia per prevalere quella cognatizia, e ciò coerentemente con il decadere della manus.
> Una curiosità: praenomen (che distingueva gli individui della stessa famiglia,
nomen (indicava la gens),
cognomen (sorta di soprannome che si otteneva in seguito a qualche impresa)
Esempio: Marco Tullio Cicerone - Caio Giulio Cesare
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LE SPECIE DI MATRIMONIO
> iuste nuptiae <
A. Matrimonio cum manu
Nell’età più antica tutti i matrimoni erano cum manu; e cioè la moglie entrava a far parte della famiglia agnatizia del marito, quale nuova famiglia acquisita, cadendo sotto la manus di lui, o del suocero, o dell’avo nel caso che anch’egli fosse alieni iuris. Quindi la donna si sottoponeva in condizioni di filia nei confronti del marito, o di neptis (nipote) nei confronti del suocero.
Il pater familias, marito o suocero, aveva quindi sulla donna ogni più ampio potere e nei tempi più antichi, per una legge attribuita ai tempi di Romolo, anche il diritto di vita e di morte sulla donna, almeno in due casi:
- se essa fosse sorpresa in flagrante adulterio – crimen adulterii (infatti l’obbligo della fedeltà vigeva solo per la donna):
- se fosse scoperta ad aver bevuto vino.
A seguito della conventio in manum tutti i diritti della donna passavano al marito per una sorta di successione universale inter vivos, analoga alla successione ereditaria.
Per i Romani il matrimonio era pienamente valido anche se non consumato, e tuttavia essi si sposavano soprattutto per garantirsi una discendenza.
Sul piano della sessualità si avevano atteggiamenti piuttosto liberi, almeno da parte degli uomini (la cosa sarà reciproca solo in età imperiale).
In famiglia la moglie sta vicino al marito in ogni occasione, pur essendone subordinata. Valerio Massimo ci dice che 'feminae, cum viris cubantibus, sedentes cenitabant', le donne erano solite cenare stando sedute, mentre gli uomini erano sdraiati.
FORME DI CELEBRAZIONE DEL MATRIMONIO CUM MANU:
confarreatio: propria della classe patrizia, era una solennità di carattere religioso, allo scopo di propiziare il favore degli dei sui nubendi e non per costituire un vincolo sacro; si svolgeva alla presenza di dieci testes e del Pontifex maximus e consisteva in un sacrificio a Giove con l’offerta di una vittima e la consumazione insieme di libagioni sacre e di un panis farreus. Decadde alla fine della repubblica;
la coemptio: consisteva in una mancipatio (una sorta di vendita solenne fittizia e simbolica), che si effettuava tra lo sposo e il pater familias della sposa;
in tempi un po’ più avanzati, in mancanza di queste due forme rituali, il marito poteva acquistare la manus sulla moglie mediante usucapione o prescrizione acquisitiva, che si chiamava usus, e dipendeva da un dato di fatto e cioè dalla coabitazione ininterrotta per un anno. Tale effetto veniva meno se la coabitazione si fosse interrotta per almeno tre giorni consecutivi (usurpatio trinoctii).
Ma a poco a poco l’istituto della conventio in manum mariti perse d’importanza, restando la confarreatio riservata solo agli alti sacerdoti, per cui si preferì in età classica il
B. Matrimonio sine manu
Già ancor prima dell’età di Giulio Cesare si cominiciò a diffondere una sorta di matrimonio più semplice e libera dai vincoli che comportava la manus, per cui il patrimonio della donna passava in blocco al marito. E allora fu preferita la forma del matrimonio sine manu, che è pur sempre matrimonium iustum, ma senza conventio in manum mariti.
Nel matrimonio sine manu il marito non acquista alcuna potestas sulla moglie, la quale se è alieni iuris rimane sotto la potestà paterna e mantiene i diritti di origine, mentre se è sui iuris, conserva la sua autonomia patrimoniale e personale. Concorre, però, con la dote ad sustinenda onera matrimonii.
Insomma in età classica, i principi fondamentali del matrimonio romano sono, come detto all’inizio:
l’affectio maritalis, e
la coabitazione-convivenza
sui presupposti di:
uguaglianza fra i coniugi;
limitato esercizio di potere punitivo sulla moglie (quindi molto meno che in età arcaica);
assunzione da parte della moglie della condizione sociale del marito (ubi tu Gaius…);
non introduzione della moglie nella famiglia del marito (non si crea l’agnatio).
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In età postclassica, desideriamo aggiungere, anche per l’influenza del Cristianesimo, il matrimonio viene definito sacramento (e la sua celebrazione costituisce prova dell’affetto maritale) e se ne postula la indissolubilità, pur se non inderogabile, perché è ancora contemplato il divorzio, ma al fine di renderlo meno frequente e scoraggiarlo, gli editti dell’imperatore stabilirono delle pene quando fosse non giustificato. Il divorzio, inoltre, deve essere sancito dall’autorità competente.
Per il suo perdurare basta comunque una volontà iniziale e non necessita più della persistenza dell’unione coniugale.
Inoltre, in tale periodo, la madre ha una posizione analoga a quella del padre, e i figli sono gli eredi naturali di tutti e due.
Insomma, a poco a poco, ci si avvia verso una più moderna concezione dell’unione matrimoniale con la progressiva analisi delle cause che possono portare alla sua legittima rottura.
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ALCUNE CURIOSITA’
la cerimonia vera e propria del matrimonio avveniva in base al ceto delle famiglie;
non si sposavano di maggio, considerato infausto (infatti alcuni giorni del mese erano dedicati agli spiriti dei defunti);
la sposa si preparava con un bagno lustrale seguito da toilette e indossava un abito bianco, tunica recta, stretta in vita da una cintura di lana con calzari rossi; i suoi capelli, divisi in sei trecce, erano avvolti in una rete rossa (flàmmeum) sulla testa; altre fonti parlano di un velo arancione che copriva il volto della sposa > nubo significa infatti coprirsi col velo (cfr. nubes = nuvola); la parola nuptiae deriva proprio da nubo;
si firmava poi il contratto nuziale in presenza di dieci testimoni e, dopo, la matrona (signora dai costumi morigerati e univira, cioè che aveva avuto un solo marito, detta pronuba, e che simboleggiava la dea Giunone), che insomma assisteva la sposa, prendeva le destre dei nubendi e le congiungeva ed era ilmomento più solenne;
a questo punto, preceduti da un fanciullo che portava gli arnesi sacri, detto Camillus, gli sposi facevano insieme il giro dell’altare e i presenti esclamavano feliciter, la felicità sia con voi;
terminati la cerimonia e il banchetto nuziale (solitamente sino al tramonto), l’uomo fingeva di strappare la sposa alla madre (simulando il rapimento come nel ratto delle Sabine); si formava così il corteo nuziale preceduto dalla sposa che aveva accanto tre bambini, augurio di fecondità (oggi paggetti e bimbe che reggono il velo), tutti insieme, al grido di Talassio e invocando Imene (quale nume tutelare delle nozze), si recavano alla casa maritale e il marito sollevava in braccio la sposa per farle in tal modo oltrepassare la soglia, perché se essa vi fosse inciampata, ciò veniva considerato di cattivo augurio; era, quindi, un uso per così dire apotropaico; contemporaneamente lo sposo chiedeva alla sposa come si chiamasse, e lei rispondeva 'ubi tu Gaius, ego Gaia' (consortium omnis vitae);
entrati in casa, il marito mostrava alla moglie l’acqua e il fuoco, simboli della vita in comune, e le dava le chiavi di casa;
infine si teneva una cerimonia sacrale e la matrona-pronuba accompagnava la sposa alla camera nuziale e le insegnava le preghiere propiziatorie a Cincta, cioè a Giunone, che aveva il compito simbolico di sciogliere la cintura delle nozze alla sposa e preparava il letto nuziale... e finalmente se ne andava...
quella prima notte veniva dedicata e consacrata a Mutinus Tutunus, antico dio latino dei pastori, patrono della fecondità e della fertilità, identificato dai Romani con Priapo, venerato nei riti nuziali. A tal proposito Lattanzio, nel suo trattato Divinae Institutiones ci tramanda: 'Molto venerato è Tutuno sulla cui parte vergognosa siedono le donne per offrire per primo al dio la propria verginità';
il giorno seguente, i festeggiamenti proseguivano con un banchetto tra i parenti più intimi e la sposa, vestiti gli abiti matronali, presentava le sue offerte ai Lari (le anime degli antenati) e ai Penati (divinità protettrici della famiglia, dell’amore e dell’unione) della nuova casa, ricevendo infine doni dal marito.
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I ROMANI ERANO A FAVORE DEI MATRIMONI
La legislazione matrimoniale augustea (lex Julia de maritandis ordinibus – 18 a.C. e lex Papia Poppea – 9 d.C., di solito citate come leges Julia et Papia), ha lo scopo di indurre i cittadini al matrimonio, di restituire la dignità di esso, di promuovere l’aumento della prole. Per cui una serie di statuizioni:
• gli uomini fra i 25 e i 60 anni e le donne fra i 20 e 50, hanno l’onere di contrarre matrimonio:
• il divorzio e la vedovanza non sono ragioni sufficienti per essere esenti da quest’onere. Sciolto il matrimonio, sull’uomo esso incombe immediatamente; per la donna si ammette che possa rimanere non maritata per 18 mesi in caso di divorzio, e per due anni in caso di morte del marito;
• i matrimoni si vuole siano possibilmente fecondi.
CONSEGUENZE:
- vantaggi di vario tipo per i coniugi con prole (gestione delle cariche pubbliche prima dell’età prescritta, esenzione dai munera e da tutela, ed altro);
- sanzioni contro i coelibes (non coniugati) e gli orbi (coniugati senza prole) (incapacità successoria, vietato l’accesso ai pubblici spettacoli ed altro).
Forse proprio per effetto delle leggi augustee, si racconta che prima del cristianesimo sono rarissime le testimonianze di donne rimaste nubili.
Le donne che avessero almeno tre figli conseguivano addirittura parità di diritti con gli uomini. E Ottaviano promulgò la lex Iulia de pudicizia et de coercendis adulteriis, sancendo gravissime pene economiche contro gli adulteri e le adultere.
Alla base vi era la volontà di rinsaldare l’istituto familiare e la società uscita disfatta dalle guerre civili.
SOLO IN ETA’ CRISTIANA, DOPO COSTANTINO, LE SECONDE NOZZE VENGONO GUARDATE CON DISFAVORE, IN MODO DA SALVAGUARDARE MAGGIORMENTE GLI INTERESSI DEI FIGLI NATI DAL PRIMO MATRIMONIO, E DA PUNIRE IL CONIUGE BINUBO, SOPRATTUTTO CON LIMITI IN MATERIA SUCCESSORIA ED EREDITARIA.
SCIOGLIMENTO DEL MATRIMONIO
Per cause oggettive:
1. Per morte di uno dei coniugi.
2. Per capitis diminutio maxima: cioè per pedita dei diritti civili. Nel diritto classico la prigionia di guerra scioglie il matrimonio, perché non può sussistere giusto matrimonio fra una cittadina e un prigioniero (ancorché romano); Giustiniano statuisce che se il captivus manchi da cinque anni, e non si abbiano notizie di lui, l’altro coniuge sia libero di considerare sciolto il matrimonio (divortium bona gratia).
3. Per capitis diminutio media: cioè per perdita della cittadinanza di uno dei coniugi. Insomma viene meno il connubium in senso assoluto, anche se il matrimonio può continuare a valere iure gentium.
4. Per incestum superveniens: quando in seguito ad adozione si viene a costituire tra i coniugi un vincolo di parentela. Se, per esempio, il paterfamilias del marito adotta la moglie di questo, i due coniugi si trovano in condizione di filii del medesimo pater.
5. Per nomina senatoria del marito di una liberta. Divieto poi abolito da Giustiniano.
Per cause soggettive – divorzio:
Sostanzialmente avveniva per il venir meno dell’affectio maritalis in uno dei coniugi o in tutti e due.
In diritto classico non vi sono limitazioni o forme dettate dall’autorità (in tarda età repubblicana l’abuso dei divorzi diviene addirittura una moda, tanto che le donne – disse un arguto scrittore dell’epoca – contavano gli anni dal numero dei mariti avuti). Tuttavia solitamente i coniugi attuavano un rito solenne e contrario a quello che era stato adoperato per costituire il matrimonio stesso (quindi diffarreatio, e la remancipatio, o nei matrimoni sine manu l’allontanamento della donna dalla casa coniugale).
Per ulteriormente precisare, se l’affectio maritalis veniva meno nel marito, si ha il repudium, e bastava recapitare al coniuge un biglietto con la scritta 'tuas res tibi habeto' (riprenditi quello che è tuo, - ed è tutto finito); o se, invece, il venir meno dell’affetto era bilaterale aveva luogo il divortium.
In quello post classico, per l’avversione al divorzio, si impongono sia forme come limiti.
Nel diritto giustinianeo, addirittura, il divorzio deve avvenire mediante dichiarazione scritta o orale comunicata all’altro coniuge alla presenza di sette testimoni.
Inoltre non ogni divorzio è lecito. Si distinguono:
a) il divortium ex iusta causa, giustificata da una colpa del coniuge da cui si divorzia.
Per l’uomo: adulterio della moglie; falsità o insidie nei confronti del marito; l’essere andata a banchetto o al bagno con uomini; l’aver frequentato spettacoli pubblici senza la volontà del marito.
Di regola un marito che sorprendeva la moglie a bere avendo forzato la cassetta ove erano le chiavi della cantina, la cacciava di casa tenendosi la dote ricevuta al momento del matrimonio, e per questo non aveva alcuna sanzione, anche in qualche caso estremo di uxoricidio, come racconta Plinio il Vecchio.
Per la donna: falsità o insidie da parte del marito; falsa accusa di adulterio; il tentativo del marito di prostituirla; i rapporti del marito con altra donna nella casa coniugale, o frequenti e notori altrove.
b) il divortium bona gratia, cioè per una causa non derivante da colpa di uno dei coniugi: impotenza insanabile, voto di castità, prigionia di guerra.
c) il divortium sine iusta causa, cioè l’atto unilaterale non giustificato da una delle cause sopraddette.
d) il divortium communi consensu, compiuto senza alcuna giusta causa, ma d’accordo fra i coniugi. In entrambi questi due ultimi casi i coniugi venivano, però, sanzionati con la perdita di alcuni diritti patrimoniali fra di loro e nei confronti dei figli.
Infine rileviamo che la reazione cristiana al divorzio giunge a stabilire la illiceità in dati casi, ma non mai la nullità; tuttavia il concetto romano del matrimonio impedisce che si compia l’ultimo passo verso l’indissolubilità del vincolo coniugale.
UNIONI AL DI FUORI DEL MATRIMONIO
Il concubinato:
Per gli antichi romani era una forma di unione, certamente inferiore al matrimonio, ma tuttavia non priva di effetti giuridici, e insomma riconosciuta dal diritto, soprattutto da Augusto in poi.
Non era una relazione sessuale di mero fatto, ma aveva luogo quando il matrimonio non poteva sussistere per mancanza di alcuni requisiti (per esempio l’unione tra il senatore e una liberta).
Per dare contezza ufficiale all’unione di concubinato, bisognava che tale rapporto fosse dichiarato dinanzi a testimoni.
Vi erano, pertanto, alcuni requisiti da osservare, senza i quali, l’unione rimaneva indifferente per il diritto o addirittura illecita:
o che non vi fossero impedimenti di parentela;
o che non vi fosse un matrimonio o altro concubinato fra uno dei concubini e un terzo;
o che la convivenza avesse carattere continuativo e per così dire stabile.
Quanto ai figli nati dal concubinato, essi avevano lo status di liberi naturales, figli naturali, e non avevano alcun legame giuridico col padre. Erano, però, in condizione migliore dei figli incestuosi o adulterini (vulgo quesiti). E comunque potevano assurgere alla dignità di figli legittimi mediante la legittimazione, e quindi conseguire un limitato diritto di successione nei confronti del padre. Fu Giustiniano a regolamentare ancor di più la materia, consentendo l’unione con donna di qualsiasi condizione, ma ribadendo il principio che nel concubinato non potesse esserci l’affectio maritalis.
Insomma il concubinato era una sorta di unione di fatto in qualche modo formalizzata e resa pubblica.
Il contubernium:
Era la relazione di carattere continuativo e abituale tra schiavi o tra un libero e una schiava o al contrario
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Desidero concludere con le parole di un epigramma di Marziale (Epigr. IV, 13) che così augurava ad una coppia di sposi (Pudente e Claudia Peregrina):
Concordia sul loro letto,
e sempre sia propizia Venere a un vincolo tanto pari:
lei lo ami anche quando lui sarà vecchio,
ma anche lei, quando lo sarà, a lui non sembri vecchia.
perchè "L’amore è una cosa meravigliosa"
(ascoltiamo la colonna sonora dell’omonimo film)
Invitandovi, infine, a consumare insieme una focaccia di pane di farro, così rievocando il rito del matrimonio romano.
Leonardo Poma
Inserito il 25 Febbraio 2014 nella categoria Relazioni svolte
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