Un antico dilemma che si ripropone oggi quando si parla di umanizzazione della medicina. Ha argomentato sulla questione il dott. Giuseppe Abbita
Relatore: Dott. Giuseppe Abbita - già Primario di medicina interna
La medicina non è mai stata e non è neppure oggi una scienza. I greci la chiamavano iatrikè tekne, in contrapposizione ad episteme, considerandola come una specie di attività artigianale che opera la sintesi tra scienza, tecnica, e arte.
Con l’avvento dell’approccio scientifico, gli aspetti soggettivi e gli aspetti del rapporto interpersonale della medicina sono diventati sempre meno importanti. La componente tecnologica della medicina è divenuta preponderante rispetto alla componente antropologica, sempre più trascurata, e l’alleanza tra il medico e il paziente si è spezzata. Il medico e il paziente, oggi, sono più distanti l’uno dall’altro.
Nel traghettare la medicina, da una forma per così dire tradizionale, ad una medicina altamente tecnologica, sono stati abbandonati i bagagli ritenuti ingombranti, ormai superati ed obsoleti, ed è subentrata una nuova visione della medicina, fatta di budget, vincoli economici, linee guida, protocolli.
E sono arrivati amministratori senza scrupoli, burocrati, banchieri, pizzicagnoli, notai-come direbbe Fabrizio De Andrè, che hanno introdotto nel linguaggio sanitario termini aziendali , quali: stabilimento, prodotto, profitto, fatturato, concorrenza.
Ed in questo traghettamento, alla ricerca, talora spasmodica, di tecniche sempre più raffinate, di macchinari sempre più sofisticati e di una sempre maggiore competitività, è stato dimenticato a terra il passeggero, il malato; e vittima di questa deriva è stato il comune senso di solidarietà umana, civile e sociale, radice dell’etica e della deontologia medica.
La medicina si è fatta bella, ma , per citare un’altra famosa canzone degli anni ’70, bella senz’anima.
Ma la medicina si occupa di qualcosa che è molto di più di un oggetto materiale, di una macchina da riparare.
Essa si occupa di un uomo, di una persona da curare.
Gli anglosassoni, utilizzano tre termini diversi per definire la malattia: disease, la malattia del medico, cioè la concettualizzazione della malattia da parte dei medici, il modello che ha il medico della malattia.
Sickness, il riconoscimento sociale della malattia, cioè la rappresentazione che ha la società della malattia.
e illness, la malattia del malato, il sentirsi malato, che include aspetti di esperienza soggettiva dello star male, culturalmente mediata.
Una cosa è infatti 'essere malato', che è un concetto oggettivo, ovvero il riconoscimento come tale da parte del medico, altra cosa è 'sentirsi malato', che è una concezione soggettiva, un fatto di esperienza e di vissuto personale.
Ora, la più importante delle ragioni per cui esiste la medicina, è quella di curare le persone perché si sentono malate, e non soltanto perché sono riconosciute tali.
La medicina non è una scienza come tutte le altre, in quanto include regole e leggi naturali e soggettività, dimensioni biologiche e psicologiche.
Giorgio Cosmacini, storico della medicina, scrive: 'Ma la medicina è davvero una scienza? E il suo oggetto non è forse un soggetto? E il patire, che rende paziente, è un dato soggettivo dal quale prescindere, o di cui tener conto?'.
Oggi, limitandosi a un approccio meramente analitico, focalizzato solamente sui dati obiettivi della malattia, sull’essere malato, e non anche sul sentirsi malato, il medico rischia di non ascoltare più il paziente e di trattarlo come una macchina guasta.
Lo stato di salute, o di malattia, è il risultato di una serie di condizioni apparentemente infinita.
Ogni malato è diverso dall’altro: ognuno ha la sua storia, i suoi problemi,- familiari, economici, esistenziali-.
Diversi sono Il carattere, le condizioni professionali e ambientali.
Il malato ha inoltre pregiudizi, convinzioni, timori, certezze, rispetto alla salute e alla malattia, che hanno radici storiche e culturali.
Diverso è quindi il modo di sentirsi ammalati.
Ogni malato non si sentirà mai malato come un altro malato.
La medicina, oggi, sta riconoscendo la necessità di un approccio integrale alla persona umana, sia del paziente, ma anche del medico.
Il Lancet, una delle più autorevoli riviste scientifiche, a partire dal gennaio 2008, ha dato il via a una ’rubrica’ settimanale intitolata ’The art of medicine’. Nell’editoriale di presentazione si afferma: ’La maggior parte delle pagine di Lancet sono naturalmente dedicate alla ricerca scientifica e ai fondamenti tecnici che sostengono il progresso medico. Ma la medicina è influenzata da una serie di fattori che hanno poco a che fare con la scienza. Essa è un processo anche sociale e culturale, ed è condizionata da un inevitabile legame con la storia, la letteratura, l’etica, la religione e la filosofia: in breve, essa ha un’implicazione umanistica, e deve ammettere un ruolo per quelle branche che hanno più a che fare con l’analisi e l’interpretazione che non l’empirismo e l’evidenza» (Faith McLellan, Lancet 2008/1).
In questo momento di transizione, in questo mondo che si sta tramutando sempre più nella propria rappresentazione fatta di immagini, dati, comunicazioni virtuali, si sente il bisogno di medici umanisti, capaci di ricordare e rispettare la concreta dignità dell’uomo.
'Una medicina che abbia cura della persona non può essere meccanicista, ma deve essere risolutamente umanistica. La medicina è la più umanista delle scienze naturali e la più esatta delle scienze dell’uomo.'
E’ quantomeno singolare che tali affermazioni provengano non da un medico, ma da uno scienziato, da Giorgio Israel, professore di matematica dell’Università La Sapienza di Roma, uno dei maggiori esperti di matematica astratta, scienza esatta per eccellenza, ed autore di un bellissimo saggio sull’umanizzazione della medicina: 'Per una medicina umanistica. Apologia di una medicina che curi i malati come persone.'
E’ stato dimostrato che un contributo alla formazione di un medico e ad una pratica più completa della medicina può venire da una cultura umanistica, dalla letteratura e dalle arti espressive.
Ricordiamoci che homo e umanista derivano da humus- terra, e che il medico non può essere altro che uomo di cultura.
Infatti prendersi cura dell’uomo malato è un fatto di cultura, cultura intesa non come puro ed effimero elemento esornativo, ma cultura intesa nella maniera più ampia e più vera: cultura da colere , abitare, coltivare, avere cura.
Cultura che investe la totalità del reale e della vita, cultura che torna al colere, cioè all’avere cura, al coltivare, non soltanto la terra.
Coltivare, avere cura, dell’uomo malato.
E avere cura, coltivare, la propria mente, il proprio cuore, le proprie emozioni!
Umanizzare la medicina significa anche, capire che per essa è essenziale il tempo dedicato all’ascolto del malato.
Chi è malato, spesso incontra forti resistenze nel farsi ascoltare o nel comunicare con chi lo circonda, nel fare sentire la sua voce.
Il sociologo Arthur W. Frank, che sperimentò di persona l’esperienza di una grave malattia, nel suo libro 'The wounded storyteller', il narratore ferito, descrive la sensazione che ha il malato di essere ferito nella voce, per non avere la possibilità di comunicare e di farsi ascoltare.
Spesso infatti il malato subisce passivamente, senza ricevere spiegazioni, indagini diagnostiche e terapie, e decisioni riguardanti la sua salute.
Da protagonista, in quanto è egli stesso a sentirsi malato, diventa un semplice spettatore della sua malattia.
Ma chi è malato, non può essere relegato al ruolo di comparsa.
Ha la necessità di riprendersi il ruolo di protagonista che gli compete.
Ha la necessità di riappropriarsi della propria voce, della possibilità di farsi ascoltare.
A.F. può essere considerato il padre della medicina basata sulla narrazione (Narrative Based Medicine), della medicina narrativa, medicina che esalta il ruolo relazionale e terapeutico del racconto dell’esperienza di malattia da parte del paziente, e della condivisione dell’esperienza, attraverso la narrazione, con il medico che lo cura.
La narrazione contribuisce a costruire un canale comunicativo privilegiato che aiuta la relazione medico-paziente e restituisce al malato la propria dignità di persona.
Ascoltare una storia di malattia è onorare e dare dignità alla voce del malato, a quella voce ferita.
Il medico e il malato: due esseri umani.
Dal loro incontro, dall’inizio della reciproca relazione, la 'scena medica' prende vita, senso, significato.
Affinchè si realizzi una relazione di cura sono necessari tre pilastri.
Innanzitutto il medico deve avere le necessarie conoscenze scientifico naturali.
La medicina, infatti, senza solide basi scientifiche, sarebbe solo una pericolosa improvvisazione.
Ma le conoscenze scientifiche non sono, da sole, sufficienti.
E’ necessaria anche una particolare abilità tecnica cui concorrono intuito, sesto senso, senso critico, senso pratico, capacità di giudizio.
E ancora, e soprattutto, per instaurare una relazione di cura, il medico deve possedere quello che possiamo chiamare ethos umanitario, cioè un’etica antropologica che gli permette di riconoscere nel malato prima di tutto un uomo, e soprattutto una persona.
Deve avere, il medico, la capacità di instaurare un rapporto di empatia, avere cioè la capacità di sentire dentro, di comprendere i pensieri, gli stati d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona in modo immediato, talvolta senza far ricorso alla comunicazione verbale.
Il sociologo A.F., cui accennavo poco fa, va oltre il concetto di empatia utilizzando un termine meno neutrale, più coinvolgente, più ampio, e forse più bello: generosità.
Nel suo scritto 'The renewal of generosity', il risveglio della generosità, dice:
'Intendo per generosità il modo in cui una persona comprende ed agisce tenendo conto della comunione tra la vita di un altro e la sua propria. La generosità inizia col trattare gli altri come se fossimo tra noi connessi, perché sono convinto che siamo connessi. La generosità si apprende attraverso la storia e l’esempio di persone che agiscono in modo generoso. In certi casi la generosità consiste nell’ascoltare le storie degli altri; in altri casi nell’essere testimone delle loro storie, in altri casi ancora nell’agire, nel diventare un personaggio nella loro storia in modo tale da dar loro buone storie da narrare.'
Di recente è nato, a Ferrara, un movimento, un nuovo modo di intendere la medicina e la salute, che è anche un nuovo atteggiamento mentale, denominato Slow Medicine, una medicina lenta, sobria, rispettosa, giusta, il cui motto è ' non sempre fare di più significa necessariamente fare meglio'
La medicina auspicata da Slow Medicine è una medicina a misura d’uomo, non più schiava della fretta, della tecnologia, dell’innovazione a tutti i costi.
Una medicina che vuole andare verso una nuova qualità della cura, fatta di efficacia e umanità, di assistenza e di ascolto, di competenza clinica e abilità sociale, convinta che i valori e le aspettative delle persone malate sono diversi ed inviolabili.
Il simbolo di questo movimento sono due chioccioline, che rappresentano il paziente e il medico , che lentamente si vengono incontro, comunicando tra di loro.
Un riavvicinamento del medico al malato, e del malato al medico, volto a riallacciare quell’alleanza che si è spezzata.
Ritornando ancora al dilemma iniziale, se la medicina è una scienza o un’arte, mi rifarei un attimo all’origine della parola 'medicina'.
Medicina origina dal latino medietas, medietà, giusta misura, il fatto di essere intermedio, elemento di interposizione.
Il medico, quindi, deve essere in grado di interpretare e trovare la giusta misura per il malato, per quel malato, interponendosi tra l’essere malato e il sentirsi malato di quella particolare persona.
Perché Il medico, forte delle sue conoscenze tecniche e scientifiche, deve essere in grado, secondo il detto Ippocratico, 'di spiare e interpretare i segni del male sul corpo del paziente, ma deve anche essere in grado, con la sua arte, di spiarne i discorsi, i modi, i gesti, i pensieri, il sonno e l’insonnia'
……… e forse, perché no, anche i suoi sogni! Giuseppe Abbita
Inserito il 21 Marzo 2014 nella categoria Relazioni svolte
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