Rispetto al genere letterario degli 'specula principis' l'opera del Machiavelli, è un'opera rivoluzionaria - Ne ha parlato Antonino Tobia davanti ad un pubblico numerosissimo
Relatore: Prof. Antonino Tobia - Letterato
Niccolò Machiavelli compose Il Principe cinquecento anni fa, nell’estate del 1513, nel pieno della sua maturità intellettuale, ricco di esperienza politica e imbevuto di studi umanistici, come dimostra la varietà dei generi letterari in cui si cimentò, dalla storiografia alla trattatistica, dalla novella alla commedia. Quando pubblicò Il Principe aveva quarantaquattro anni e tra il 1498 e il 1512 aveva ricoperto importanti incarichi pubblici al servizio della Repubblica di Firenze. La sua attività politica ebbe inizio il 19 giugno del 1498, a seguito della scomunica e della condanna al rogo in piazza della Signoria di Girolamo Savonarola, ricoprendo la carica di capo della seconda cancelleria, che sostanzialmente non era inferiore per importanza alla prima cancelleria, con la quale divideva compiti e pari responsabilità. Si crede che tale incarico gli sia stato conferito per interessamento di Marcello Virgilio Adriani, suo maestro di greco e di latino, primo segretario della Repubblica. Questa informazione ci giunge dall’opera del dotto umanista Paolo Giovio, Elogia clarorum virorum, pubblicata a Venezia nel 1546. Niccolò aveva tentato inutilmente nel febbraio dello stesso anno di entrare nella Cancelleria, ma Savonarola era ancora arbitro della politica fiorentina e il posto era stato assegnato ad un rappresentante del suo partito. La vita pubblica del M. ebbe inizio, quindi, a partire dalla fine del Quattrocento, mentre naufragava il disegno politico del frate domenicano, che aveva fatto vivere al popolo di Firenze un’intensa esperienza di governo democratico, a sfondo teocratico, verso cui Niccolò aveva mantenuto un atteggiamento di distaccata ironia, convinto che si trattasse dell’impresa di un 'profeta disarmato', mancante di forze proprie per gestire con mano ferma un progetto politico tanto rivoluzionario (Cap. VI del Principe).
Si conosce poco della vita di M. prima che egli occupasse questo importante incarico politico.
Niccolò nacque a Firenze il 3 maggio 1469, secondo o terzo dei quattro figli di Bernardo e Bartolomea Nelli. Il padre, dottore in legge, discendeva da una famiglia forse di origine nobile di parte guelfa fin dal XIII secolo, che aveva dato a Firenze numerosi priori e gonfalonieri. Ma le condizioni economiche della famiglia erano piuttosto modeste, né dovevano essere floridi i proventi delle proprietà che tenevano nel comune di San Casciano, meticolosamente amministrate dal padre. Nell’architrave della porta dell’Albergaccio, la dimora della famiglia, c’è lo stemma del casato: una croce latina, dal cui punto di congiunzione dei due bracci si dipartono i chiodi della passione di Cristo, i 'mali clavelli', da cui il cognome Machiavelli. Oggi la casa appartiene al Gruppo italiano vini e gli ambienti accuratamente restaurati si possono visitare.
Prima che i Medici rientrassero a Firenze, a seguito della vittoria della Lega Santa, guidata dal papa Giulio II, sulla Francia di Luigi XII, di cui Firenze era alleata, Machiavelli aveva compiuto parecchie missioni diplomatiche in Italia e in Europa. Era stato presso Cesare Borgia, il duca Valentino, figlio del papa Alessandro VI, che aspirava a costruirsi un vasto stato nell’Italia centrale con ogni mezzo e con audace spregiudicatezza. Cesare Borgia nel Principe verrà indicato come esempio della 'virtù' che un principe deve possedere per realizzare il suo progetto politico. Aveva compiuto una lunga missione insieme con l’amico Francesco Vettori nel Tirolo, presso l’imperatore Massimiliano d’Asburgo e tra il luglio e il settembre del 1510, alla vigilia della guerra tra il papa Giulio II e Luigi XII, si era recato a Parigi, la capitale del regno di Francia, da lui ammirato come modello dello stato assoluto moderno.
Il ritorno della famiglia dei Medici a Firenze, dopo 18 anni di governo repubblicano, segnò l’esclusione dalla vita politica di Niccolò. Nel febbraio del 1513 fu scoperta una congiura antimedicea di Agostino Capponi e di Pietropaolo Boscoli, che verranno giustiziati. Nella lista dei congiurati era segnato al settimo posto il nome di Machiavelli. Imprigionato e torturato con sei tratti di corda, dopo 22 giorni di galera, fu amnistiato al momento dell’elezione al soglio pontificio del cardinale Giovanni de’ Medici, Leone X. Dopo aver tentato invano di trovare un’occupazione presso il nuovo papa attraverso l’amico Francesco Vettori, ambasciatore a Roma, si ritirò nella sua vecchia villa l’Albergaccio, presso San Casciano. Così comincia la seconda fase della vita del M. . Importanti spunti autobiografici e resoconti della sua vita quotidiana durante l’esilio all’Albergaccio si traggono soprattutto dalla lettera del 10 dicembre 1513 all’amico Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino presso la Santa Sede. Di mattina presto Niccolò si recava ad uccellare nei boschi con le panie, trappole cosparse di colla su cui restavano imprigionati gli uccelli. Quindi s’incontrava con i taglialegna, con i quali le zuffe erano frequenti, perché c’era chi non voleva pagare perché vantava un credito di quattro anni per debiti di gioco o chi faceva di tutto per ridurre il volume del carico, pressando la legna in tutti i modi. Gli affari, perciò, non andavano bene, al punto che M. decise di non vendere più la legna a nessuno. Dal bosco poi si recava presso una fonte, dove per diletto leggeva le liriche amorose di Dante o del Petrarca o di qualche poeta latino, come Catullo, Tibullo, Ovidio. Gli amori degli antichi poeti gli facevano ricordare le sue numerose avventure, che con gusto passava in rassegna. Come scrive il De Sanctis, M. 'era un piacevolone, che si spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate'. A casa lo attendeva Marietta, la donna che gli aveva dato sette figli, alla quale era molto affezionato, sebbene la tradisse ogni volta che gli si presentava l’occasione. Dopo aver desinato con la sua famiglia, si recava all’osteria, dove s’ingaglioffava con soggetti di umile rango, con i quali giocava a cricca, a trich-trach, ingiuriandosi reciprocamente e combattendo ad alte grida per un quattrino. Machiavelli considerava dei miseri 'pidocchi' questi suoi compagnoni, ma la loro frequentazione lo aiutava a trarre 'il cervello di muffa' e a non pensare ai suoi guai. Dopo tali avvilenti occupazioni, venuta la sera, faceva ritorno in casa e, spogliatasi 'quella veste cotidiana, piena di fango e di loto' indossava panni reali e curiali per avere accesso alle 'antiche corti degli antiqui huomini ', che lo accoglievano amorevolmente e con loro per quattro ore s’intratteneva, nutrendosi della loro cultura, ch’era l’unico cibo di cui desiderava pascersi. È a questo punto che Machiavelli informa l’amico circa i risultati dei suoi studi. Egli ha fatto capitale delle dotte conversazioni con i suoi illustri maestri e ne ha tratto un opuscolo De principatibus, dove disputa 'che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistano, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono'. Il breve trattato di 26 capitoli è indirizzato a Giuliano, figlio di Lorenzo il Magnifico, che governò Firenze dopo il ritorno dei Medici nel 1512. Dopo la sua morte Il Principe fu dedicato a Lorenzo, figlio di Piero di Lorenzo, nipote del Magnifico. Lo scopo principale della dedica alla famiglia dei Medici era quello di ingraziarsi i Signori di Firenze, mostrare la sua alta e profonda competenza nell’arte del governo dello Stato e, quindi, di essere chiamato alla vita attiva anche per un incarico umile : 'mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso'. Questa lettera era la risposta alla missiva che l’amico Francesco Vettori gli aveva inviato precedentemente, nella quale l’ambasciatore fiorentino lamentava la monotonia della vita nella Roma papale. La lettera di Niccolò, comunque, fu pubblicata solo nel 1813, tre secoli dopo la sua stesura.
La fama di Machiavelli è affidata essenzialmente a questo trattato politico, scritto cinquecento anni fa: per la prima volta nell’era cristiana si affermava la laicità della politica, di cui si proclamava sia l’autonomia rispetto ad ogni metafisica sia la sua indipendenza rispetto alla morale. Nel 1559 tutte le opere di Machiavelli furono inserite nell’Indice dei libri proibiti istituito dalla Chiesa cattolica negli anni in cui il Concilio di Trento cercava di arginare la Riforma di Lutero. Ma anche la Riforma protestante non fu tenera nei confronti del pensiero machiavelliano, che erroneamente e con molta superficialità veniva riassunto nella formula: Il fine giustifica i mezzi, sebbene tale espressione non trovi riscontro nell’opera del Segretario fiorentino. I protestanti, anzi, considerarono Il Principe la sintesi del cinismo politico degli Italiani e un chiaro esempio di ipocrisia gesuitica. Pertanto, l’aggettivo machiavellico assunse un significato assolutamente negativo, sinonimo di falso, ingannatore, privo di scrupoli. Nel corso dei secoli, però, le interpretazioni volsero sempre più in positivo, anche se con notevoli differenze. Per esempio, Benedetto Varchi, poeta, filosofo, erudito fiorentino, di una generazione più giovane di Niccolò, apprezzava l’acume politico testimoniato dal trattato, ma non fu tenero nei confronti del comportamento morale di Machiavelli,: ' Se all’intelligenza che in lui era de’ governi degli Stati, e alla pratica delle cose del mondo, avesse la gravità della vita aggiunta, si poteva agli ingegni antichi paragonare'. È curioso, scrive Adriano Sofri ( In esilio con Niccolò, l’Espresso n. 33 anno LIX), 'come il giudizio somigli a quello che Machiavelli aveva dato di Lorenzo il Magnifico, signore splendido, benché ‘nelle cose veneree meravigliosamente involto’ (e lui poteva capirlo) e in giochi puerili, tanto che ‘molte volte fu visto, intra i suoi figliuoli e figliuole, intra i loro trastulli mescolarsi’. Sicché ‘a considerare in lui la vita voluttuosa e la grave, si vedeva essere in lui due persone diverse'. Machiavelli non fa mistero che in lui, come in qualsiasi essere umano, ci siano due nature diverse: quella animalesca, licenziosa, voluttuosa, lasciva, e l’altra regolata dalla ragione, che aspira alla gloria, alla grandezza, al conseguimento della dignità. Una natura centauresca, come quella di Chirone, il mitico precettore di Achille. In particolare, tale duplicità deve caratterizzare la personalità del Principe, il quale, peraltro, è necessario che si comporti ora da lione ora da golpe. Il comportamento 'doppio' del Principe non è cinismo, bensì capacità di passare da una qualità a quella opposta, e in ciò consiste per Machiavelli la virtù.
Già nel mondo greco con Platone e Aristotele, nel mondo romano con Cicerone e Seneca e poi nel Medio Evo con Dante fino agli umanisti contemporanei del M., come Poggio Bracciolini e Giovanni Pontano, erano stati tracciati gli aspetti personali del principe, indicandone le virtù che doveva possedere e i vizi che doveva evitare. Al contrario, l’opera del M. è un’opera rivoluzionaria rispetto al genere letterario degli specula principis. Il trattato non vuole fornire un’immagine altamente ideale del principe, adornata delle più nobili virtù della clemenza, della liberalità, della giustizia, quanto quella di un uomo di governo che sappia guardare alla 'verità effettuale' con la virtù necessaria a dominare la fortuna, sinonimi rispettivamente di razionalità e casualità. La virtù implica la capacità del principe di fondare un principato, di saperlo mantenere e difendere, insieme con l’abilità a controllare le sue forze militari e ottenere il rispetto e l’obbedienza del popolo. La visione che il M. ha delle masse popolari è improntata al pessimismo. Gli uomini sono malvagi, volubili, irrazionali, un vulgo spregevole che il principe con ogni mezzo e non con le sole virtù tradizionali della mitezza e della generosità deve tenere a freno. Chi regge uno Stato deve in ogni circostanza essere pronto ad affrontare l’irruenza della fortuna che, come un fiume in piena, tutto travolge se egli per tempo non abbia provveduto a creare gli argini necessari. La fortuna è donna, sostiene il Segretario fiorentino con un atteggiamento misogino ereditato dalla tradizione umanistica, e pertanto occorre 'volendola tenere sotto, batterla e urtarla…. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno rispettivi, più feroci, e con più audacia la comandano' (cap. XXV). La personificazione fortuna-donna mira ad identificare la donna con l’irrazionalità, proprio quella che il Principe deve controllare e incanalare entro gli opportuni argini se vuole realizzare il suo progetto politico. L’azione del principe coincide, pertanto, con la salute stessa dello Stato che deve mantenere in vita e fortificare. È necessario, quindi che il principe sia risoluto ed impetuoso, pronto a cogliere i momenti favorevoli e ad usare qualsiasi forma di simulazione o di dissimulazione, ora coniugando l’utile con l’onesto, ora ignorando ogni forma di probità se ciò torna a vantaggio dello Stato, per il cui bene sarà disposto a sacrificare la sua stessa vita. L’etica del principe si eleva al di sopra della morale del volgo. Al di sopra del principe c’è solo il suo potere e la sua volontà. Al di sopra del volgo ci sono i buoni ordinamenti , le leggi e la religione, che il principe considera un ottimo instrumentum regni. L’esempio di Mosè e quello del re Numa Pompilio dimostrano come il popolo sia più propenso ad ubbidire alle leggi che crede divine piuttosto che a quelle imposte da chi lo comanda. L’esempio tratto dalle imprese dei grandi uomini rappresenta un sicuro ancoraggio per l’esposizione delle sue teorie: 'Perché, camminando gli uomini sempre per le vie battute da altri e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie d’altri al tutto tenere né alla virtù di quegli che tu imiti aggiugnere, debbe uno uomo prudente entrare sempre per le vie battute da uomini grandi, e quegli che sono stati eccellentissimi imitare: acciò che, se la sua virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche odore; e fare come gli arcieri prudenti, a’ quali parendo el luogo dove desegnano ferire troppo lontano, e conoscono fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il luogo destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere con lo aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro».
La concezione politica del Machiavelli non può, tuttavia, essere valutata solo alla luce di quanto il Segretario fiorentino espose di getto nel suo breve trattato. In quegli anni dell’esilio, il Nostro stava elaborando una profonda ricerca storiografica attraverso la lettura e il commento dell’opera di Livio. I Discorsi sopra la prima deca aiutano a capire quale fosse la dinamica del suo programma politico: non il principato assoluto, non una repubblica debole e disarmata come era stata quella savonaroliana, bensì uno Stato forte, creato dalla 'saviezza' e dalla 'prudenza' di un Principe e dotato di strumenti di difesa adeguati, le milizie ordinarie formate attraverso la leva obbligatoria dei singoli cittadini. In questo senso, i sudditi, infatti, assumono la dignità di cittadini, in quanto mettono la loro vita a disposizione della salute pubblica e dello Stato. Ma il M. va oltre. La legge di natura impone a ogni cosa un percorso obbligato di nascita e di morte. Lo Stato, fondato dal Principe, sarebbe soggetto a seguire la sua fine se con saggezza il Principe stesso non avesse provveduto ad assicurare la gestione del potere, anche dopo la sua morte, attraverso la cessione graduale della sua sovranità a forme di rappresentanza politica democratica, attraverso l’istituzione di un governo repubblicano. Forse tutto ciò può apparire utopico e in contraddizione con la sua amara e pessimistica concezione che ha dell’umanità. Ma la caratteristica più amata dai romantici che distingue Machiavelli dal Guicciardini è proprio la fede nell’utopia, nella speranza che l’Italia, sempre più saccheggiata, sempre più lacerata dagli eserciti stranieri possa un giorno riscoprire le sue avite glorie e da esse trarre ispirazione per il riscatto' Virtù contra a furore/ prenderà l’arme, e fia il combatter corto,/ ché l’antico valore/ nell’italici cor non è ancor morto'.
L’insegnamento del Machiavelli fu interpretato come dispregio di ogni morale nell’ambito della Controriforma. Il gesuita Giovanni Botero nel suo trattato Della ragion di stato ne confutò il pensiero politico, sostenendo l’esigenza di conciliare politica e morale. Il suo modello di principe è una figura ideale che opera cercando di unire l’utile a l’onesto senza allontanarsi dagli insegnamenti del Cristianesimo e della Chiesa di Roma. Il suo è un modello di Stato confessionale, che esalta 'l’importanza della religione per lo felice governo e per la quiete degli Stati' e perciò ogni principe deve favorirla in quanto' la gente dedita alla religione ed alla pietà vive molto obedientemente, che quella che si governa a caso'. La politica diventa, quindi, pratica di potere esercitata dal perfetto connubio di Stato assoluto e Chiesa.
Contemporaneamente, Traiano Boccalini, carattere anticonformista e aspramente critico della 'ragion di stato' e del malgoverno spagnolo, intervenendo nel dibattito sui rapporti tra politica e morale nei Ragguagli di Parnaso, raccolta satirica di appunti sui costumi, la letteratura, la politica dei suoi tempi, prende le distanze sia dal cinismo, di cui accusa il pensiero machiavelliano, sia dalla bigotta superficialità della proposta di Botero. Boccalini sceglie l’invenzione fantastica per smascherare l’ipocrisia che vede nella condanna dell’opera di Machiavelli da parte della Chiesa: la pericolosità del messaggio del Segretario fiorentino. L’autore del Principe andava condannato perché con i suoi precetti s’ingegnava 'di accomodare in bocca alle pecore i denti posticci di cane e di far vedere 'lume alle talpe'. Era quindi un ribaldo sovvertitore dell’ordine pubblico, perché i pastori non avrebbero potuto più mungere e tosare le pecore come prima e le talpe, vedendo le brutture del potere, si sarebbero smaliziate. Anche gli Illuministi condannarono le idee del Principe, perché esse incitavano alla tirannide e alla frode, dal momento che il trattato separava la concezione della politica dalla morale umana e dai principi di libertà, fratellanza e uguaglianza, professati dai seguaci del culto della Ragione. Un vero travisamento delle teorie del Machiavelli è presente nell’opera l’Antimachiavel del 1739 di Federico II, re di Prussia, che contestava il machiavellismo, in difesa di una politica giusta e rispettosa del diritto naturale. L’opera federiciana fu recensita positivamente da Voltaire. L’interpretazione 'obliqua' del pensiero machiavelliano è fortemente sostenuta dal Foscolo nei Sepolcri. Secondo tale interpretazione, già comparsa nel Sei e Settecento, Machiavelli col pretesto di insegnare ai principi l’arte del governo, ne denunciava le violenze e la crudeltà : 'Io quando il monumento / vidi ove posa il corpo di quel grande, / che temprando lo scettro a’ regnatori / gli allor ne sfronda, e alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue…'. Così il poeta di Zacinto indicava nel Machiavelli il difensore della libertà contro la tirannide, sulla scia del pensiero alfieriano. Gli spiriti liberali del nostro Risorgimento guardarono al Machiavelli come un profeta. Infatti, il Segretario fiorentino, sebbene riconoscesse la drammatica situazione della realtà effettuale dei suoi tempi, era ancora disposto a sperare e credere nell’azione di alcuni spiriti eletti, sorti a rinnovare i fasti del passato. Da qui il richiamo ai versi della canzone All’Italia del Petrarca, che chiude il Trattato: ' Virtù contro a furore / prenderà l’arme; e fia il combatter corto; ché l’antico valore / nell’italici cor non è ancor morto'.
L’appello contenuto nel Principe era destinato, però, a rimanere senza eco per tanti secoli. E ciò lo aveva ben compreso l’amico Francesco Guicciardini, capace di guardare con maggiore lucidità e con amaro scetticismo a ciò che accadeva nel Bel Paese. Le prospettive italiane si facevano sempre più buie. Nel 1515 il re di Francia si impadroniva di Milano. L’Italia diventava terra di scontro tra Francia e Spagna. Finché la situazione precipitò inesorabilmente, quando nel 1527 Roma fu messa a sacco e fuoco dai lanzichenecchi, inviati da Carlo V per punire Clemente VII, al secolo Giulio dei Medici che si era avvicinato al re di Francia, Francesco I, per ridimensionare l’eccessiva potenza imperiale. Questa oscura pagina storica del Cinquecento segnò il tramonto della libertà italiana. A Firenze il popolo si ribellò e cacciò ancora una volta i Medici, ripristinando la repubblica. Machiavelli sperò di riprendere il posto di Segretario, ma su di lui gravava il sospetto di avere favorito la signoria medicea. Poco dopo, il 21 giugno del 1527 la morte lo sorprese nella sua casa, circondato dai suoi amici più cari, lamentando la sua cattiva sorte ed ironicamente passando in rassegna le diverse possibilità che lo attendevano nell’aldilà.
Così scrisse il figlio Piero a Francesco Nelli:
'Charissimo Francescho. Non posso fare di meno di piangere in dovervi dire chome è morto il dì 22 di questo mese Nicholò, nostro padre, di dolori di ventre, cagionati da uno medicamento preso il 20. Lasciossi confessare le sue peccata da frate Mateo, che gl’a’ tenuto compagnia fino alla morte. Il padre nostro ci a’ lasciato in somma povertà, come sapete. Quando farete ritorno qua su, vi dirò molto a bocha. O’ fretta e non vi dirò altro, salvo che a voi mi raccomando'.
Piero scrisse questa lettera il giorno dopo la morte del padre. Morto Machiavelli, il suo pensiero continuò a dividere le coscienze tra fautori e denigratori, tra quanti lo considerano ancora oggi maestro di libertà e quanti ne intravedono il teorico dello stato assoluto.
Hegel apprezzò molto il pensiero del Machiavelli e scrisse che la Germania doveva imparare la lezione del Principe, se voleva conquistare l’unità politica e la dignità di nazione: «Ci fu un uomo di Stato italiano che concepì, con freddo giudizio, la necessaria idea che per salvare l’Italia bisognasse unificarla in uno Stato. Con rigorosa consequenzialità egli tracciò la via che era necessaria, sia in vista della salvezza sia tenendo conto della corruttela e del cieco delirio del suo tempo, ed invitò il suo principe a prendere per sé il nobile compito di salvare l’Italia, e la gloria di porre fine alla sua sventura». Hegel sostiene la validità dei mezzi cui il Principe deve ricorrere per la costituzione dello Stato, dal momento che «le membra cancrenose non possono essere curate con l’acqua di lavanda … né con interventi correttivi troppo delicati. Una vita prossima alla putrefazione può essere riorganizzata solo con la più dura energia». Machiavelli merita di essere lodato per aver capito che «il destino di un popolo che precipita verso il suo tramonto politico» può essere salvato soltanto «dall’opera di un genio». (La Costituzione della Germania)
L’attualità della lezione del Trattato fu sottolineata da Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere. L’intellettuale sardo giudicò Il Principe un «libro 'vivente', in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono … in un condottiero, che rappresenta «plasticamente e 'antropomorficamente' il simbolo della 'volontà collettiva … Nel Principe, quindi, il critico riconosce non un capo, bensì il partito moderno, fondato per costruire uno Stato nuovo. Il carattere utopistico del Principe è nel fatto che il 'principe' non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obbiettiva, ma era una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale; ma gli elementi passionali, mitici, contenuti nell’intero volumetto, con mossa drammatica di grande effetto, si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell’invocazione di un principe, realmente esistente».
C’è infine da sottolineare che durante tutto il secolo scorso ben tre capi di governo di grosso calibro si sono cimentati a scrivere una prefazione al Principe: Benito Mussolini, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi.
Apprendiamo dal giornalista Filippo Ceccarelli che il Preludio a Machiavelli era stato scritto da Mussolini all’inizio del 1924, in occasione di una laurea honoris causa che l’Università di Bologna aveva deciso di conferirgli. Ma gli impegni elettorali del Duce e i dubbi sorti all’interno del Senato accademico fecero annullare la cerimonia. Più tardi, per interessamento di Margherita Sarfatti, che già aveva pubblicato la prolusione sulla rivista 'Gerarchia', furono esposti gli appunti vergati da Mussolini nella Mostra allestita per il decennale della Rivoluzione fascista (1932). Era chiaro che Mussolini leggeva Machiavelli a suo uso e consumo. Si trincerava dietro il pensiero politico di Niccolò per giustificare la forza, la violenza, tutti i mezzi leciti e illeciti da lui usati per occupare il potere. Giacomo Matteotti lesse e commentò lo scritto del Duce in un suo articolo Machiavelli, Mussolini and Fascim, apparso postumo sulla rivista English life del luglio 1924. Il deputato socialista accusava il Duce di essere responsabile di aver creato 'una forma di governo sorretta dalla spada, dalla violenza e dal pervertimento politico', e consigliava al suo avversario politico di ripulire e purificare il fascismo, la cui azione infamava l’Italia di fronte al mondo intero. Quando l’articolo apparve, Matteotti era stato già rapito (10 giugno), ma ancora non era stato ritrovato il suo cadavere, che sarà rinvenuto soltanto il 15 agosto. Da qui la nota in corsivo che accompagnava l’articolo: ' Dopo avere scritto questo articolo, il signor Matteotti fu rapito da alcuni fascisti e ancora non si sa quale sorte gli sia toccata'.
La seconda illustre prefazione al Principe è quella che accompagna l’edizione del 1986 per i tipi di Arnoldo Mondadori. Si tratta di quattro paginette, di cui Bettino Craxi assunse la titolarità senza averle scritte di suo pugno. Era risaputo che il suo ghostwriter ufficiale era Franco Gerardi, a lungo direttore dell’Avanti!, come risulta dalla testimonianza di Filippo Ceccarelli. In questa presentazione il segretario socialista, (anche Mussolini proveniva dalla stessa formazione politica), attacca l’interpretazione gramsciana del Principe, respinge la teoria della doppia morale, una per il principe e un’altra per i sudditi, critica non tanto Machiavelli, che è figlio dei suoi tempi, bensì 'il machiavellismo di comodo che ha preteso di costruire un diritto personale e privato per i potenti e uno diverso per le genti, uno per chi governa e un altro per chi è governato; che ha ridotto l’opera del segretario fiorentino alla legittimazione del doppio gioco e del tradimento; che ha condannato come pura retorica l’interpretazione moralistica dell’opera così ben riassunta nei celebri versi del Foscolo ….' Il Principe del Machiavelli non è l’organizzazione partitica del comunista Gramsci, bensì la democrazia, dalla quale nascono la libertà e il progresso. Forse il segretario del Garofano non si era reso conto che quel 'machiavellismo di comodo', da lui denigrato, era entrato a far parte della sua attività politica e di quanti con lui governavano l’Italia con l’arroganza del potere, che il doroteismo democristiano aveva saputo fino ad allora celare. L’esperienza del machiavellismo craxiano si concluse con l’avviso di garanzia del dicembre 1992, fatto pervenire dal pool di Mani Pulite all’on. Bettino Craxi. Lo stesso anno, che vide l’uscita di Craxi dalla scena politica, l’editore Silvio Berlusconi pubblicò una nuova edizione del Principe, un volume in tiratura limitata di appena mille copie su carta velata color avorio, fuori commercio, destinato a pochi amici e personalità di riguardo come regalo natalizio. L’edizione, suggerita probabilmente dall’amico Marcello Dell’Utri, esperto bibliofilo e presidente di Publitalia, apparve subito pregevole, oltre che per l’eleganza del formato, soprattutto perché presentava le annotazioni di Napoleone Bonaparte e la presentazione dello stesso editore, che stava organizzando la sua discesa nell’agone politico, muovendosi abilmente tra le macerie dei partiti tradizionali. Sennonché si trattava di una bufala, in quanto le annotazioni al testo non erano del Bonaparte ma di un buontempone professore di francese, Amato Guillon, che venuto in Italia, era diventato redattore letterario del 'Giornale italiano', sul quale tra l’altro, nel 1807 aveva attaccato I Sepolcri del Foscolo. Il poeta delle Grazie gli aveva risposto con una famosa lettera, in cui accusava il critico francese d’incompetenza a giudicare i poeti italiani, soprattutto perché ignorava la lingua italiana. Il falso documento risaliva al 1816 e di ciò, a dire il vero, faceva testimonianza l’interessante nota, posta in fondo al volume, di Ermanno Paccagnini, professore di Letteratura moderna e contemporanea all’Università Cattolica di Milano. Nella presentazione di questa edizione era ancora l’uomo d’affari che parlava: Berlusconi provava entusiasmo alla lettera del Principe, per 'l’assoluta tensione verso l’obiettivo del potere', per il raggiungimento del quale Machiavelli sosteneva che si poteva operare, se necessario, 'al di fuori del dominio della morale'. E in sintonia con Machiavelli, auspicava che l’Italia dopo tanto tempo vedesse 'un suo redentore'. L’allusione era fin troppo chiara. Dal 1994, come è noto, ebbe inizio la redenzione del nostro Paese, che ancora continua verso magnifiche sorti e progressive. Degli insegnamenti di Machiavelli, uno, in particolare, Berlusconi propone all’attenzione del lettore: 'Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu sei'. È quanto il cavaliere Berlusconi consigliava e continua a farlo a quanti lavorano per lui, ai quali impone la massima cura della propria immagine e di mirare sempre in alto come ' gli arcieri prudenti' del Machiavelli. In coincidenza con la campagna elettorale che consegnò l’Italia al governo di Silvio Berlusconi, uscì un volume in edizione economica per soddisfare un più ampio numero di lettori, disposti a sborsare 24.000 lire. Rispetto alla prima edizione, in questa del 1994 la presentazione di Berlusconi si impreziosisce di qualche pagina di analisi filologica, allo scopo di smorzare gli entusiasmi della prima lettura, dalla quale aveva ben colto la vulgata che il fine giustifica i mezzi. Qui appare più cauto e tende a sottolineare che le pagine del Principe, pur geniali e affascinanti, presentano una carenza di umanità e un eccesso di spregiudicatezza. Il nuovo alfiere dell’Italia repubblicana mirava a sottolineare, perciò, che nelle sue scelte politiche mai avrebbe disgiunto l’utile dall’onesto. Ai posteri l’ardua sentenza…..
Per concludere, si può osservare che a nessuno di questi tre uomini di potere la fortuna arrise fino in fondo, come non si mostrò amica neppure col Segretario fiorentino, che morì povero e senza alcun incarico di potere. Tragica la fine di Mussolini, drammatica quella di Craxi, poco commendevole l’uscita dalla scena politica di Berlusconi. A chi spetterà sollevare le misere condizioni sociali, politiche, etiche in cui oggi versa l’Italia? Il nostro Paese, nei cento cinquant’anni della sua unità, ha conosciuto governi liberali di destra e di sinistra, un ventennio dittatoriale di bugie e di funesti sogni imperialisti, ha provato l’entusiasmo della ricostruzione per un altro ventennio, è scivolato durante l’ultimo ventennio drammaticamente verso l’orlo di un abisso, che dà la vertigine a chi s’affaccia a guardarvi dentro. Si avverte intorno a noi il furore degli esclusi, che stanno crescendo in maniera esponenziale di giorno in giorno. Quali armi, quale sistema di governo, quale progetto politico potranno farci credere che 'l’antico valor negli italici cor non è ancor morto?'.
Antonino Tobia
Inserito il 11 Dicembre 2013 nella categoria Relazioni svolte
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