A 500 anni dalla prima edizione del Poema, il prof. Antonino Tobia ne ha illustrato la composizione e l'arch. Luigi Biondo ha mostrato una rarisssima edizione cinquecentesca dell'opera, ritrovata negli archivi del Museo Pepoli di Trapani
Relatore: Prof. Antonino Tobia
Dopo una particolareggiata presentazione dell’opera di Ludovico Ariosto, a cura dell’arch. Luigi Biondo, il prof. Antonino Tobia ha esposto la sua relazione riportata qui di seguito, integralmente.
" L’Orlando Furioso ebbe la sua prima edizione nel 1516, dopo una lunga elaborazione artistica di circa 10 anni. L’autore, nel dare inizio al suo poema, aveva dichiarato con molta modestia di voler fare solo una 'gionta' all’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo, sebbene non sia difficile pensare che fin dall’inizio il progetto di Ludovico nutrisse ambizioni ben diverse. A quest’opera, infatti, il poeta dedicò più di quel semplice impegno che una 'gionta' avrebbe richiesto, bensì gli anni più creativi della sua esistenza. Alla prima edizione seguì una seconda nel 1521 in 40 canti, con correzioni linguistiche e stilistiche, mentre restava invariata la struttura. Alla revisione linguistica era stato indotto sia dalla sua innata esigenza di armonia e di perfezione stilistica, sia soprattutto dalle accuse che erano state mosse all’opera del Boiardo, linguisticamente incoerente per la mescolanza di lombardismi, francesismi, latinismi, che originavano un ibrido linguistico, sconveniente al gusto degli umanisti, educati alla concinnitas e all’armonia del latine loqui. Nella terza edizione, data alle stampe nel 1532, il poema si presentava in 46 canti di 38.000 versi con l’aggiunta di episodi nuovi, ma soprattutto con una completa revisione linguistica e stilistica sulla scorta delle dotte argomentazioni di Pietro Bembo sulla questione della lingua, che indussero l’Ariosto ad adottare il toscano letterario come modello linguistico. Per assicurare una maggiore coesione alla materia narrata, il poeta dava una migliore disposizione organica alle vicende e decideva di non inserire i Cinque canti, che forse aveva composto già al tempo della prima edizione. I Cinque Canti, formati da 530 ottave, furono pubblicati postumi nel 1545 e rispondevano all’intenzione del poeta di concludere il poema con la morte di Orlando. L’opera conobbe un enorme successo negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione non solo in Italia ma in tutti gli stati europei, dalla Spagna alla Francia, dall’Inghilterra alla
Germania. Solo nel XVI secolo si contarono 180 edizioni, un numero elevatissimo se si considera che la seconda metà del ‘500 doveva fare i conti con le restrizioni morali della Controriforma e con le polemiche dei sostenitori della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, pubblicata nel 1581, quando il Rinascimento volgeva al tramonto e cedeva lo spazio alla rivoluzione del gusto barocco. Non mancarono neppure le edizioni abusive a testimonianza dell’enorme successo del poema presso il pubblico.Ludovico Ariosto nacque a Reggio Emilia l’8 settembre 1474 da Niccolò e da Daria Malaguzzi, primo di dieci fratelli. A dodici anni la famiglia si trasferì a Ferrara, dove Niccolò svolse l’importante incarico di capo dell’amministrazione comunale di uno dei centri più prestigiosi della civiltà rinascimentale. Il padre decise di indirizzare il primogenito agli studi giuridici, ai quali Ludovico si dedicò per cinque anni. Ma gli interessi culturali del giovane erano essenzialmente letterari e, sotto la guida del monaco agostiniano Gregorio di Spoleto, Ludovico intraprese lo studio del latino e cominciò a dar prova delle sue capacità poetiche, componendo i suoi primi Carmina nella lingua di Virgilio.L’improvvisa morte del padre, quando era ancora sedicenne, lo costrinse a prendersi cura del patrimonio familiare, piuttosto esiguo, e dell’educazione dei fratelli. Entrò quindi al servizio della corte estense con un modesto stipendio, per poi essere scelto dal cardinale Ippolito d’Este come suo segretario personale. Inoltre, prese gli ordini minori, che gli consentivano di riscuotere qualche prebenda ecclesiastica. Il nuovo incarico, sebbene lo distraesse dai suoi impegni letterari, gli consentì di viaggiare per l’Italia al seguito del cardinale. Fu a Mantova alla corte di Isabella Gonzaga, sorella del duca Alfonso d’Este; a Milano per incontrare insieme col cardinale il re di Francia Luigi XII; fu diverse volte a Roma presso il papa Giulio II, una prima volta nel 1509, per chiedere invano l’aiuto del papa contro la repubblica di Venezia ( il 10 dicembre 1508 il papa Giulio II della Rovere aveva formato la Lega di Cambrai con l’imperatore Massimiliano d’Asburgo, Luigi XII e Ferdinando il Cattolico contro la repubblica di Venezia); l’anno successivo per chiedere al pontefice la revoca della scomunica del duca Alfonso, accusato di essere sostenitore della Francia. In un’altra missione a Roma fu scacciato in malo modo da Giulio II e minacciato 'd’essere butato in fiume'. Successivamente fu a Roma presso il successore di Giulio II, il mediceo Leone X, dal quale invano sperò di ottenere qualche incarico prestigioso. Nel 1513 a Firenze, in festa per l’elezione al soglio pontificio d Leone X, Ludovico ebbe modo di incontrare in casa della famiglia Vespucci, imparentata con gli Sforza, Alessandra Benucci, moglie del commerciante fiorentino Tito Strozzi. Il poeta già conosceva la bella signora, che all’età di 33 anni era madre di sei figli, perché da anni il marito, per gli affari che lo legavano alla corte estense, si era trasferito a Ferrara ed era diventato amico di Ludovico, il cui cugino, Rinaldo Ariosto, aveva sposato una dama appartenente alla famiglia Strozzi. Fu l’inizio di un amore che il poeta visse fino alla morte. Alessandra, rimasta vedova solo due anni dopo, unì la sua vita a quella di Ludovico, con un’unione clandestina, circondata dalla massima discrezione fino al 1527, anno in cui i due amanti celebrarono il loro matrimonio in tutta segretezza, l’uno per non perdere i benefici ecclesiastici, l’altra per non essere privata della tutela dei figli e delle rendite del marito. Anche dopo il matrimonio i due coniugi continuarono a vivere in abitazioni separate, circondando la loro relazione amorosa di molto riserbo. La bellezza della donna e il suo temperamento forte e deciso legarono profondamente Ludovico ad Alessandra, presso la cui abitazione, pur non condivisa, il poeta conservava i denari e le sue cose più preziose, compresi i numerosi manoscritti. La Benucci era una donna di carattere, interessata alla conservazione del patrimonio, avida se era necessario. In alcune sue Lettere Ludovico fa cenno alla avidità della compagna, la quale pare fosse disposta ad anteporre l’accrescimento del patrimonio familiare all’affetto dei figli. Risulta, infatti, che non raccolse l’appello delle due figliole che l’invocavano di farle ritornare a Ferrara fuori dal monastero fiorentino, dove il padre le aveva collocate l’anno prima che morisse. Giustificava il suo diniego, adducendo a falso pretesto le ristrettezze economiche.Nel 1516, cinquecento anni fa, Ludovico pubblicò il suo Orlando Furioso in 40 canti in ottave a spese del cardinale Ippolito. Questa prima edizione rappresentò l’inizio di un lavoro di revisione accurato nei contenuti e nel linguaggio che lo impegnò per tanti anni ancora, fino alla fine dei suoi giorni. Per non abbandonare i suoi studi e soprattutto per rimanere vicino alla sua compagna e al figlio Virginio, che aveva avuto da una precedente relazione, si rifiutò di seguire il cardinale Ippolito a Buda, in Ungheria, dove il presule era titolare di un vescovado. Il poeta, allo scopo, addusse motivi di salute, dichiarandosi un cattivo commensale e un mediocre compagno di mondanità. Passò quindi al servizio del duca Alfonso e riuscì a migliorare le sue precarie condizioni economiche e a rimanere nella sua Ferrara, dove poteva continuare la sua passione letteraria. Dal 1517 al 1522 nacquero le prime Satire, furono stese alcune commedie e venne alla luce la seconda edizione del Furioso. Nel 1522 il duca lo inviò in Garfagnana con le funzioni di governatore e di commissario con pieni poteri per riportare l’ordine in quella inospitale regione da poco annessa al ducato. Il poeta in questi anni sfatò il falso mito di un Ludovico amante della tranquillità e perciò incapace di agire con fermezza. Anzi in una lettera del 30 gennaio del 1524, indirizzata al Duca di Ferrara, lamentava che la sua azione di ferma condanna dei disobbedienti e dei facinorosi venisse poi vanificata dalle decisioni opposte del duca, che in questo modo indeboliva l’efficacia della sua azione repressiva. Rientrato a Ferrara nel giugno del 1525, poté finalmente dedicarsi ai suoi affetti familiari e alla sua attività letteraria. Nel 1532 fece un ultimo importante viaggio al seguito del duca Alfonso, che a Mantova incontrava l’imperatore Carlo V. Lo stesso anno pubblicava la terza edizione del Furioso in 46 canti. Colpito da una grave forma di enterite, dopo alcuni mesi di sofferenza il 6 luglio del 1533 morì amorevolmente assistito dai suoi cari. Fu sepolto nella chiesa di San Benedetto. Nel 1801 i suoi resti furono trasferiti nel palazzo Paradiso di Ferrara, che ospita la biblioteca ariostea.Le più importanti notizie biografiche dell’Ariosto le ricaviamo dalle sue Satire. La Satura nacque a Roma come un componimento misto di prosa e poesia, un miscuglio di danza, musica e recitazione. Da genere drammatico divenne genere letterario prima con Lucilio e poi con Orazio, che chiamò le sue satire sermones per il carattere colloquiale che esse presentavano, in cui agli argomenti autobiografici aggiungeva considerazioni etiche personali con un tono bonario ironico e spiritoso. La satira oraziana fu assunta dall’Ariosto a modello dei suoi sette componimenti, indirizzati ad amici e parenti.Dalle satire-Nella prima satira, diretta al fratello Alessandro, l’autore difende la propria libertà, che il cardinale Ippolito aveva creduto di potere comprare con i suoi doni. In nome della libertà decise di non seguire il cardinale in Ungheria: Or, concludendo, dico che, se ‘l sacro/ Cardinale comperato avermi stima/ con li suoi doni, non mi è acerbo et acro/ renderli e tòr la libertà mia prima. (vv.262-265).Nella seconda satira, diretta come al fratello Galasso, scritta nel 1517, quando già era stata data alle stampe la prima edizione del Furioso, l’Ariosto esprime la sua delusione nei confronti della curia romana, accusata di nepotismo e di sciocca alterigia. Quanto ha sperato di ottenere dal nuovo papa Leone X per migliorare le sue condizioni economiche, assai precarie a seguito del suo licenziamento dal Cardinale, si è risolto con un nulla di fatto. A Roma, lamenta il poeta: Felicitade istima alcun, che cento/ persone te accompagnino a palazzo/ e che sia il volgo a riguardarte intento;/ io lo stimo miseria, e son sì pazzo/ ch’io penso e dico che in Roma fumosa/ il signore è più servo che ‘l ragazzo. (vv.160-165).Nel 1518 indirizzava la terza satira al cugino Annibale Malaguzzi per informarlo di essere passato al servizio del duca Alfonso, anche questa volta per necessità e non per ambizione sociale o avidità di guadagno. Sulle orme di Orazio, riconosceva che est modus in rebus e che il ne quid nimis rappresentava la giusta misura di una vita serena, libera ed equilibrata. Questa satira sintetizza uno dei lati più interessanti della personalità ariostesca: Chi brama onor di sprone o di cappello,/ serva re, duca, cardinale o papa;/ io no, che poco curo questo e quello./ In casa mia mi sa meglio una rapa,/ ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco,/ e mondo, e spargo poi d’aceto e sapa,/ che all’altrui mensa tordo, starna o porco/ selvaggio; e così sotto una vil coltre,/ come di seta o d’oro, ben mi corco. (vv.40-48).La quarta satira fu indirizzata al cugino Sigismondo Malaguzzi un anno dopo che aveva assunto l’incarico di governatore della Garfagnana. L’attendeva un compito arduo in un ambiente ostile, che lo distoglieva dai suoi studi. Con sé aveva il figlioletto tredicenne Virginio, nato nel 1509 da una relazione con Orsolina Sassomarino, una ferrarese di umili origini, che il poeta aveva fatto sposare ad un suo uomo di fiducia per evitare pettegolezzi. Ma gli mancava la sua Alessandra.Anche la quinta satira è indirizzata ad Annibale Malaguzzi, nella quale il poeta dava alcuni consigli su come affrontare il matrimonio con Lucrezia Pio e soprattutto come comportarsi con la moglie per averla sempre fedele. Il tono è affettuoso col sorriso sotto i baffi e con qualche licenza di tono popolare: ma fui di parer sempre, e così detto/ l’ho più volte, che senza moglie a lato/ non puote uomo in bontade esser perfetto/ né senza si può star senza peccato;/ che chi non ha del suo, fuor accattarne,/ mendicando e rubando, è sforzato. (vv.13-18)Tu che vuoi donna, con gran studio intendi/ qual sia stata e quale sia la madre, e quali/ sien le sorelle, s’a l’onore attendi. (vv. 97-99).Tolto che moglie avrai, lascia li nidi/ degli altri, e sta sul tuo; che qualche augello,/ trovandol senza te, non vi s’annidi./ Falle carezze, et amala con quello/ amor che vuoi ch’ella ami te; aggradisci/ e ciò che fa per te pàiati bello. (vv.250-255).La sesta satira, indirizzata a Pietro Bembo, presenta un contenuto autobiografico arricchito di elementi che denunciano il mal costume di alcuni precettori. L’Ariosto si rivolgeva all’insigne letterato perché gli indicasse un maestro di greco per il figlio Virginio, che da lui aveva già appreso lo studio dei classici latini e conosceva le opere di Virgilio e Terenzio, di Ovidio e di Orazio. Ma spesso i bravi insegnanti non sono i migliori dal punto di vista morale. Perciò Ludovico chiedeva all’amico che la scelta cadesse su un precettore di buoni costumi, che non fosse soprattutto avvezzo alla sodomia: Senza quel vizio son pochi umanisti, … è gran periglio/ a dormir seco e volgergli la schiena (vv.25; 33-34).Per difendere la propria libertà, il poeta rinunziava all’incarico prestigioso di ambasciatore presso Clemente VII. Nella satira VII del 1524, pertanto, scriveva al segretario del duca Alfonso, messer Bonaventura Pistofilo, che gli aveva offerto l’incarico: Se pur ti par ch’io vi debba ire, andiamo;/ ma non già per onor né per ricchezza:/questa non spero, e quel di più non bramo. (115-117) . Lo pregava anzi di intercedere presso il duca perché fosse richiamato dalla Garfagnana a Ferrara.Durante il suo itinerario letterario l’Ariosto si misurò con diversi generi letterari: dalle liriche in latino (Carmina), alle Rime in volgare, al teatro, ma la costruzione del suo mondo fantastico trovò la più completa realizzazione nel Poema, che rappresenta il vertice della sua arte e uno dei più grandi capolavori del Rinascimento.L’Orlando Furioso e il Rinascimento- Il Rinascimento vide riflesso nel Furioso il proprio ideale di bellezza e di eleganza, una perfetta sintesi di sogno e realtà, di immaginazione e di introspezione sulla condizione umana. Il successo fu enorme fin dalla prima stesura, né il poema del Tasso, pubblicato nel 1581, riuscì ad offuscare il successo dell’Ariosto, giudicato dal Galilei 'magnifico, ricco e mirabile', di contro ad un Tasso 'ometto curioso … oltre tutti i termini gretto, povero e miserabile'. (G. Galilei, Considerazioni al Tasso, c.1589-1595 in Ed. Naz. IX, p. 699). Gli intellettuali del calibro di Galilei non apprezzavano solo la stupefacente architettura del poema, ma in esso vi leggevano gli aspetti più interessanti della società rinascimentale, non ancora condizionata dalle imposizioni controriformistiche che tormenteranno l’animo e la fantasia del Tasso. Più tardi Hegel osserverà che il Furioso rappresentava la prima fase della dissoluzione della cavalleria, continuata nelle fasi successive dall’opera di Cervantes e di Shakespeare, che morivano entrambi cento anni dopo la prima edizione dell’Orlando furioso (1616). Gli ideali del mondo cavalleresco, ancora celebrati dal Boiardo e cari alla corte di Ferrara, venivano rivisitati dall’Ariosto con nostalgica ironia, attraverso la quale riconduceva alla realtà quello che era un mondo ideale. L’ironia è la cifra più interessante dell’opera. Essa scorre attraverso la prosodia delle ottave, la scelta paradigmatica del linguaggio, la piacevolezza del narrare, strumenti indispensabili a mantenere desta l’attenzione del suo aristocratico uditorio.L’ironia, che sorregge l’intera impalcatura dell’opera, tradisce una forte carica di simpatia umana, la stessa humanitas che ha appreso dal teatro di Terenzio: Homo sum, humani nihil a me alienum puto. Da qui, quella costante sospensione di un giudizio morale sulle vicende e sui comportamenti dei personaggi, anche quando questi palesemente errano. L’errare non è un’eccezione del vivere, bensì la metafora della stessa esistenza, è il fluire della vita, il pulsare delle passioni, la gioia di perdersi e di ritrovarsi, l’eterno peregrinare dell’uomo alla ricerca di un bene perduto. Se il De Sanctis considerò l’opera ariostesca priva di ogni interesse morale, sociale, sentimentale, al contrario il Croce intravvide nella fantasmagorica architettura ariostesca la realizzazione di un’armonia cosmica, che conferisce un’interpretazione unitaria al Poema. L’Ariosto poeta e giullare si comporta da esperto regista, che sa quando dare inizio ad un’azione e quando sospenderla, allo scopo di generare attraverso il policentrismo un’ atmosfera di attesa che cattura la curiosità degli ascoltatori senza annoiarli in mezzo al tumulto di tanti elementi cozzanti. Così, senza apparenti sovrastrutture di ordine speculativo-filosofiche, l’autore propone la sua concezione esistenziale: vivere significa essere liberi e felici di esprimersi nella gioia e nel dolore, nel sogno e nella realtà, illudersi e disilludersi, mostrarsi eroi come pure miseri schiavi delle passioni. Questo libero arbitrio costituisce la grandezza e il limite dei personaggi ariosteschi, perché li carica di responsabilità, che non sempre riescono a sopportare. Infatti, anche Orlando e Ruggero, paladini senza macchia e senza paura, devono sottostare a questa religio hominis, che vive dello scontro perenne tra virtus e fortuna. Ma a differenza del principe virtuoso machiavelliano, che domina la fortuna, gli eroi ariosteschi soggiacciono spesso alla dea bendata. Così può capitare che un eroe straordinario come Orlando, vincitore di tante battaglie, non riesca a conquistare il cuore di Angelica; che il generoso e leale Ruggero ceda alle arti della seduttrice Armida; come pure che la bella e irraggiungibile Angelica s’innamori e sposi Medoro, un giovane saraceno di oscure origini. Sembra lontano il messaggio di Pico della Mirandola, inneggiante all’ uomo faber fortunae suae : Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto (De hominis dignitate, 1486).La dignitas dell’uomo rinascimentale esce ridimensionata dalle ottave ariostesche, non ridicolizzata, ma di certo più confacente alla natura umana perché più vera. Nella giostra della vita, il ruolo dell’uomo è quello di un individuo perennemente sballottato tra gli scogli del dubbio, impegnato a stabilire il confine fra ciò che è savio e ciò che non lo è. La saggezza non è di questo mondo, per cui non vi può essere alcuna certezza dogmatica né alcun magistero. Un anno dopo la prima edizione dell’Orlando furioso, Lutero sarà mosso proprio dal dubbio, allorché il 31 ottobre del 1517 affisse le sue 95 tesi nella cattedrale di Wittenberg, dando il via alla Riforma. Crollava il magistero della Chiesa e allo stesso tempo il libero arbitrio, difeso da Erasmo da Rotterdam, era sostituito col servo arbitrio. Il libero pensiero rinascimentale si avviava da questo momento verso la sua stagione autunnale, offuscato dalle dense nubi della Controriforma.La scelta del titolo del poema incuriosisce da subito il lettore, che si attende di conoscere una materia diversa dalle mitiche imprese dell’Orlando cantate dai cantari. Se il Boiardo aveva incentrato il suo poema sulle gesta dell’Orlando innamorato, nel capolavoro ariostesco lo stesso eroe sarà rappresentato furens, come l’Ercole della tragedia senecana. Rimane, comunque, lo stesso sfondo della guerra tra i saraceni e i cristiani ai tempi di Carlo Magno. Agramante, re d’Africa, con l’aiuto del re di Spagna Marsilio, ha attraversato lo stretto di Gibilterra e ha cinto d’assedio Parigi. Tra i suoi guerrieri primeggiano il potente Rodomonte e il valoroso Mandricardo, figlio di Agricane, re dei Tartari . La guerra si svolge in tre fasi. Nella prima sono i cristiani a soccombere e a riportare gravi perdite sotto i colpi infallibili di Rodomonte. Nella seconda fase i cristiani, aiutati dagli eserciti scozzesi e inglesi guidati da Rinaldo, costringono Agramante a togliere l’assedio e a ripiegare ad Arles. Nella terza fase i saraceni sono sconfitti in una battaglia navale e i cavalieri cristiani attaccano le città dell’Africa e distruggono Biserta, la capitale del regno di Agramante. Le sorti del conflitto sono decise da un triplice duello nell’isola di Lipadusa, che vede dalla parte saracena Agramante, Gradasso e Sobrino, dalla parte cristiana Orlando, Brandimarte, Oliviero. Nel duello Orlando sbaraglia i nemici e con la morte di Agramante la guerra volge al termine. Ma un ultimo scorcio cavalleresco sposta la scena a Parigi, dove Rodomonte sfida a singolar tenzone Ruggiero, anche lui saraceno, convertitosi alla religione cristiana per amore di Bradamante, sorella di Rinaldo. Dalle nozze di Rinaldo e Bradamante trarrà origine la stirpe estense, e questo rappresenta il motivo encomiastico del poema.Sullo sfondo della guerra si intrecciano molteplici avventure, che costituiscono una realtà policentrica mossa dal tema dell’amore e della pazzia. Angelica, la bellissima principessa del Catai, piomba a Parigi nel bel mezzo della guerra e fa innamorare perdutamente Orlando e Rinaldo che lottano l’un contro l’altro per conquistare l’amore della bella donna. Per dirimere la contesa, che indeboliva le forze in campo dei cristiani, Angelica viene affidata dal re Carlo al saggio duca Namo di Baviera, con la promessa di consegnarla al paladino che meglio si sarebbe distinto nell’imminente scontro con i saraceni. Ma l’affascinante pagana, approfittando del trambusto bellico, riesce a fuggire, inseguita da uno stuolo di cavalieri di entrambi gli schieramenti, Rinaldo, Sacripante, Ferraù, Ruggiero. Lo stesso Orlando, l’eroe che primeggia tra i paladini di Carlo Magno, non vuole rinunciare alla donna, lascia il campo e inizia il primo dei tanti inseguimenti che il poema registra. Angelica, dopo aver superato molte peripezie durante la sua incessante fuga, s’imbatte in un bel giovane moro ferito, Medoro, lo cura e se ne innamora. Orlando, dimentico dei suoi doveri militari, continua la sua ricerca. Una notte, sfinito e tormentato da mille pensieri, immagina che la sua amata possa avere bisogno del suo aiuto. Si addormenta e in sogno rivede accanto a sé la bella fanciulla in una cornice dolcemente idillica. Ma il sogno presto si dilegua e rimane solo l’eco di una voce che lo ammonisce: Non sperar gioirne in terra mai.Atterrito da quel triste presagio, Orlando riprende la sua ricerca, finché non giunge nei luoghi che erano stati testimoni dell’amore di Angelica e Medoro. La gelosia lo fa impazzire, si denuda, perde l’uso della parola, distrugge tutto quello che incontra, sradica alberi, vaga senza meta per la Francia e la Spagna, attraversa a nuoto lo stretto di Gibilterra. La follia continuerà ad affliggere il paladino, finché suo cugino Astolfo non riuscirà a domare l’ippogrifo, la cavalcatura del mago Atlante col quale, dopo essere disceso negli Inferi, sale sulla cima del Paradiso terrestre. Qui incontra san Giovanni Evangelista, che a bordo del carro d’Elia lo condurrà sulla Luna e gli mostrerà gli enormi cumuli di tutto ciò che gli uomini perdono sulla Terra. Anche Astolfo recupera la parte perduta del suo senno, tant’è che vivrà da savio il resto della sua vita. Quindi, racchiude il senno d’Orlando in una ampolla di grandi dimensioni e lo porta con sé sulla Terra. Fattolo odorare al furioso eroe, questi recupera il senno e può partecipare al triplice duello di Lipadusa e uccidere il re Agramante.Se il Croce ha definito il capolavoro dell’Ariosto il poema dell’armonia, ciò vale per le grandi ed agili strutture architettoniche che organizzano l’universo ariostesco, dove la follia rappresenta una sorta di denominatore comune che attraversa la vita degli individui. La follia non è solo quella di Orlando, ma è la naturale condizione di chi non riconosce il giusto mezzo e insegue per tutta la vita ciò che è impossibile raggiungere. È un comportamento decisamente pazzo quello dettato dalla violenta ira di Rodomonte, come pure sfuggono alla razionale moderazione gli atteggiamenti disperati di Rinaldo o l’incontrollabile gelosia di Brandimarte. I cavalieri del Furioso sono sempre alla disperata ricerca di ciò che non riescono a trovare. Il castello del mago Atlante riassume il tema di questa vana ricerca che costringe i personaggi ad agire all’interno di un mondo illusorio. Il realismo del pensiero umanistico-rinascimentale, tendente a trovare un equilibrio stabile tra microcosmo e macrocosmo, viene travolto dalla realtà effettuale, in cui regnano il disordine e il rifiuto di ogni limite. La poesia, non la filosofia, è in grado di comprendere le discrasie dell’esistenza, i pregi e i difetti dell’uomo, perché essa non giudica, ma comprende con atteggiamento di ironico distacco.Il tema della pazzia nell’età rinascimentale venne trattato, specularmente a quello dell’animi aequitas, anche nelle arti figurative, oltre che in opere letterarie. Hieronymus Bosch si ispirò al poema di Sebastian Brandt per il suo dipinto La nave dei folli. Così pure riscosse notevole successo in tutti gli ambienti L’elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam, in cui l’umanista olandese in tono solo apparentemente scherzoso esalta la pazzia come il motore della vita. La pazzia è, per l’umanista olandese, sinonimo d passione, sentimento, libertà. Essa è l’ebbrezza gioiosa della vita, che da essa scaturisce, in quanto lo stesso atto della procreazione è mosso da un pizzico di follia. Non è saggio colui che si fa guidare solo dalla ragione, che si considera sicuro di sé e superiore agli altri, incapace di amare e di provare pietà verso il prossimo. All’uomo razionale Erasmo contrappone l’individuo che si confonde con la moltitudine degli altri individui, accomunati dalla medesima pazzia, tale da comandare od obbedire ad altri pazzi suoi simili. Tutta la vita umana non è se non una commedia, in cui ognuno recita con una maschera diversa e continua nella parte, finché il gran Direttore di scena gli fa lasciare il palcoscenico. Erasmo guarda il mondo alla rovescia, come se la vita fosse un allegro carnevale. Ciò gli consente di castigare ridendo mores, le ambizioni, la corruzione, l’avidità del mondo ecclesiastico, la presunzione dei grammatici e dei filosofi, la superbia dei dotti che considerano vacue ombre gli ignoranti.Nel poema ariostesco la pazzia, che pure attraversa tutti i canti, trova la sua più alta espressione nel castello del mago Atlante, dove la realtà è fatta di apparenze e di inganno. Qui vivono da prigionieri, sotto l’incanto del mago, quanti hanno perso la ragione e sono alla vana ricerca di ciò che non riescono ad avere. La perdita della persona amata e desiderata è quella che scatena la più grave forma di pazzia. Orlando ne è la vittima più illustre: Dirò d’Orlando in un medesmo tratto/ cosa non detta in prosa mai né in rima,/ che per amore venne in furore e matto,/ d’uomo che si saggio era stimato prima …L’equazione amore = follia interessa la vita di tutti gli uomini, nessuno escluso. E nel proemio il poeta accenna, con un sottile, ironico e affettuoso compiacimento, che anch’egli potrà perdere il senno per l’amore che lo lega alla sua Alessandra Benucci. Non una dea dell’Olimpo ma Alessandra è la sua musa laica e a lei rivolge l’invocazione a non distrarlo dal suo lavoro e a non limargli completamente l’ingegno. Chi mette il piè su l’amorosa pania/ cerchi ritrarlo, e non v’invischi l’ale;/ che non è in somma amor, se non insania,/ a giudizio de’ savi universale (XXIV, 1).L’amore è sinonimo di follia, ma se l’Ariosto non avesse dato via libera ad un pizzico di follia, per dirla con Erasmo, probabilmente si sarebbero ristrette le coordinate della sua mirabile fantasia, sarebbe rimasto un savio cortigiano, racchiuso in una turris eburnea, dalla quale non gli sarebbe stato possibile inventarsi l’ippogrifo e il mago Atlante, Marfisa e Rodomonte, la bella e contraddittoria Angelica, le disavventure di Rinaldo, le strabilianti imprese di Orlando. L’amore ha poi una miriade di sfaccettature e diverso è l’amore di Zerbino per Isabella rispetto a quello di Orlando e degli altri paladini per Angelica. Zerbino, il principe ereditario di Scozia s’innamora della bella saracena Isabella, figlia del re di Galizia. È un amore con un finale tragico. La casta fanciulla ha assistito alla triste fine del suo amato Zerbino per mano di Mandricardo, uno strano personaggio saraceno, al quale il cavaliere cristiano voleva impedire di impadronirsi della Durindana, la spada che era stata di Ettore, poi in possesso di Orlando, fino a quando questi non era stato colto dalla pazzia. Rimasta indifesa, Rodomonte cerca di concupirla, prima mostrando tutta la sua crudeltà nei confronti del frate eremita, che tentava di proteggerla, poi usando parole cortesi per conquistarne la fiducia. Ma la dolce Isabella ricorrerà ad uno stratagemma terribile per sfuggire al violento seduttore:gli farà credere di essere capace di preparare un unguento che l’avrebbe reso invulnerabile e, per dar forza di verità alle sue parole, invita lo stesso Rodomonte a provarlo su di lei.Senza volerlo, in tal modo, Rodomonte conficca la sua spada nel collo che la fanciulla gli porge, privando della vita la fedele e coraggiosa fanciulla, il cui estremo atto di fedeltà toccherà anche il suo duro cuore. Anche Mandricardo cade nella rete dell’amore. Si invaghisce della principessa Doralice, promessa sposa di Rodomonte, la rapisce ed è ricambiato dalla fanciulla, che non si rivela virtuosa come Isabella, Olimpia, Bradamante. Il paesaggio che fa da cornice agli amanti è sempre dolcemente idilliaco, come quello che assistette all’innamoramento di Angelica per Medoro. I due giovani trovano ospitalità in un modesto alloggio pastorale, più comodo che bello, ma sufficiente a garantire la necessaria riservatezza: Quel che fosse dipoi fatto all’oscuro/ tra Doralice e il figlio di Agricane,/ a punto raccontar non m’assicuro;/ sì ch’al giudicio di ciascun rimane./ Creder si può che ben d’accordo furo;/ che si levaro più allegri la dimane,/ e Doralice ringraziò il pastore,/ che nel suo albergo le avea fatto onore. (XIV, 63).Una cifra altamente drammatica caratterizza l’amore di Brandimarte e Fiordaligi. Entrambi convertitisi al cristianesimo, riescono a sposarsi, superando ostacoli, avventure e frequenti separazioni. I due giovani sono uniti da un affetto profondo che li lega fino alla morte. L’epilogo del loro amore è tragico: Brandimarte, fedele amico di Orlando, partecipa all’ultimo scontro che dovrà segnare la fine della guerra, ma mentre sta per colpire Agramante, viene ferito mortalmente da Gradasso. Brandimarte morente raccomanda ad Orlando la sua dolce Fiordaligi, la quale da lì a poco morirà di dolore in una cella accanto al sepolcro del marito. Accanto ai tanti episodi di amore eterosessuale, l’ Ariosto, richiamandosi ai classici, inserisce una bella storia di liaison fra due giovani, Cloridano e Medoro. Omero aveva celebrato l’intimo sentimento d’amore che legava Achille a Patroclo.Virgilio aveva elegiacamente narrato i sentimenti di affetto che legavano Eurialo e Niso. Da questo episodio del libro IX dell’Eneide l’Ariosto trae ispirazione per descrivere l’intima amicizia di Cloridano e Medoro. L’epilogo del racconto virgiliano è però tragico per entrambi i due giovani. Al contrario, nel poema ariostesco muore solo Cloridano, il più anziano dei due amici saraceni, che avevano deciso di dare onorata sepoltura al loro re Dardinello, ucciso da Rinaldo. La triste fine di Cloridano è da attribuire all’incauta decisone di Medoro, che fa fatica a fuggire, come il suo amico, perché non vuole alleggerirsi del peso del cadavere di Dardinello caricato sulle sue spalle. Cloridano, quando si accorge che l’amico è in difficoltà, accerchiato dai cavalieri cristiani, guidati da Zerbino, torna indietro e, credendo Medoro morto, si lancia nella mischia e cade sotto le armi nemiche. La sorte vuole, però, che il bel volto del giovane Medoro, il coraggio e l’estrema fedeltà nei confronti del suo signore, intenerisca il cuore del nobile Zerbino, che anzi punisce il cavaliere che ha osato scalfire tanta bellezza e offendere così generoso eroismo. I valori dell’amicizia, della fedeltà, del coraggio prevalgono sulla differenza del credo religioso, annullano l’odio delle armi, ripristinano il comune denominatore di caritas che distingue l’essere umano. Medoro rimane a terra ferito, ma casualmente viene soccorso e curato dalla bella Angelica che del bel giovane saraceno s’innamora. L’amore di Angelica e Medoro diventa il focus dell’intera vicenda del poema.L’Ariosto è certamente figlio del suo secolo, ne sa leggere tutte le virtù ma anche i difetti col suo sorriso tra l’amaro e l’ironico. Anzi, piuttosto sarcastico si rivela nei confronti dei creduloni che si affidano all’astrologia, negli anni in cui intellettuali come Machiavelli e Guicciardini suggerivano di fondare le proprie decisioni sull’esame della realtà effettuale. Maghi, astrologi, stregoni erano consultati dai sovrani che si lasciavano influenzare dalle profezie di tanti ciarlatani. La stessa Caterina dei Medici, sposa di Enrico II, re di Francia, volle conoscere Nostradamus, il più famoso astrologo del ‘500, lo ospitò nella sua corte parigina e ne divenne una convinta sostenitrice. Nel XVIII canto del suo poema, così ironizza il poeta sulla preveggenza dell’astrologo Alfeo, trapassato dalla spada di Cloridano, mentre dormiva serenamente nella sua tenda:' ed entrò dove il dotto Alfeo dormia/ che l’anno innanzi in corte a Carlo venne,/ medico e mago e pien d’astrologia:/ ma poco a questa volta gli sovvenne, /anzi gli disse in tutto la bugia./ Predetto egli s’avea che d’anni pieno/ dovea morire della sua donna in seno :/ed or gli ha messo il cauto Saracino/ la punta de la spada ne la gola. (XVIII, 174-175).La perenne instabilità in cui si muovono i personaggi del Furioso spande una vena di malinconia su tutto il poema. Essa appare abbastanza scoperta in alcuni episodi, come quello che descrive gli irragionevoli comportamenti di tanti personaggi in una giostra senza fine, o del viaggio di Astolfo sulla luna, o della pazzia di Orlando e della tristezza che lo invade dopo il suo rinsavimento. Sennonché la malinconia ariostesca non ha nessuno degli elementi psicologici che tormenteranno l’animo romantico, né lascia segni di frustrazione.L’eroe ariostesco non si abbatte fino a rinunciare alla propria vita, semmai trae dalle sconfitte, nel momento in cui torna ad essere savio, una lezione di vita che lo aiuterà a percorrere la via che lo porterà alla eudaimonìa, cioè alla felicità terrena, ad una visione cosmica dell’esistenza in cui le contraddizioni vivono e si superano. L’uomo rinascimentale si riconosce nella mitica figura del centauro Chirone, per metà uomo savio ed equilibrato, per metà soggetto alle passioni naturali, e tale concezione esistenziale si fa interprete di quell’esigenza di equilibrio e di misura che gli umanisti avevano cercato sul piano estetico. Sicché nel poema euritmia narrativa ed eudaimonia esistenziale costituiscono quel perfetto binomio che fa dell’Orlando furioso la più alta espressione artistica del Rinascimento, che si muove tra idealismo e realismo, tra la miseria delle passioni e la perfettibilità dell’animo umano.L’opera dei pupi costituì a partire dalla seconda metà dell’ottocento uno strumento di diffusione culturale e di corale divertimento soprattutto delle masse popolari. Le imprese narrate dall’Ariosto e dal Tasso nei loro poemi diffusero la conoscenza dei personaggi più importanti delle chanson de geste. Piccoli teatri improvvisati riportarono dalla strada su una scenografia istoriata su una tela mobile le imprese di Orlando e di Rinaldo, le contese tra saraceni e cristiani, gli amori di Angelica e Medoro, di Zerbino e di Isabella, come pure la cattiveria del traditore Gano di Maganza e la ferocia di Rodomonte. La partecipazione all’attività del puparo che muoveva sul palco i pupi, commentandone l’azione con la sua voce ora roboante, ora terrificante, ora dolce e cortese, era seguita dal pubblico chiassoso e pretenzioso, che interveniva con vivaci commenti, con battute salaci, con partecipazione affettiva. Il teatro nel teatro era la caratteristica dell’opera dei pupi, che dalla Spagna fu introdotta nel XIX secolo prima a Napoli e da qui in Sicilia, dove i pupi acquistarono delle caratteristiche proprie. I pupi catanesi erano più alti di quelli palermitani, più pesanti e con gli arti fissi. Al contrario, i pupi palermitani, quelli che Mimmo Cuticchio fa vivere ancora sulla scena, sono più piccoli, con gli arti snodabili, che conferiscono maggiore vivacità di movimento alle marionette. L’opera dei pupi faceva imparare a memoria a un popolo di analfabeti le ottave dell’Orlando Furioso e della Gerusalemme liberata, che venivano recitate per alleviare le fatiche del lavoro manuale e trasmesse dai mastri artigiani ai loro 'picciotti' di bottega che le recepivano spesso come unica forma di educazione elementare. Allo stesso modo, le arie più belle delle opere liriche che venivano rappresentate nei teatri borghesi si diffondevano per le popolose vie cittadine attraverso il canto di umili interpreti, privi di cultura, ma forniti di istintiva sensibilità e doti canore. Il medesimo fenomeno era avvenuto al tempo di Dante, quando i versi più famosi della Commedia venivano recitati per i borghi di Firenze nelle botteghe che si aprivano sulla strada, ascoltati con un certo fastidio dall’aristocratico Petrarca, che considerava il fenomeno una sorta d’inquinamento della preziosità della poesia. Nel 2008 l’Unesco ha inserito l’Opera dei Pupi tra i Capolavori del patrimonio orale e immateriale. Igor Man, firma prestigiosa del giornalismo italiano, figlio di uno scrittore siciliano, Titomanlio Manzella, e di una nobile russa, sul quotidiano La Stampa del 23 febbraio 1996 scriveva una sorta di nobile epitaffio sulla fine dell’ 'opira di pupi': L’opera dei pupi non muore mai. Continua a raccontare le gesta dei paladini di Francia oggi ancora, incurante della TV … forse perché la gente, quella con la G maiuscola, è assetata di Valori e nell’Opera dei Pupi li ritrova: il rispetto dell’avversario, perfino del nemico; il rispetto della donna; la lealtà; l’amicizia; il senso dell’onore eccetera. A specchio dei valori, i cosiddetti disvalori: la ruffianeria; l’intrallazzo; l’arroganza; il tradimento. Antonino Tobia
Inserito il 22 Novembre 2016 nella categoria Relazioni svolte
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