Letteratura e nevrosi, una rilettura di A. Manzoni
Alcune zone d'ombra nel vissuto di Alessandro Manzoni: ne ha parlato, davanti ad un numeroso pubblico, Antonino Tobia
Relatore: Prof. Antonino Tobia
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Il Vocabolario della lingua italiana della Treccani così definisce la nevrosi: ' Condizione di sofferenza della psiche, di natura assai varia, che si manifesta con ansia, irritabilità, fobie, ossessioni, compulsioni, e anche disturbi a carico di determinati organi corporei, ma non intacca i processi intellettivi né deteriora la personalità nel suo complesso; è essenzialmente connessa a situazioni conflittuali dovute a motivi psicologici'. Va dato merito alla critica analitica di Gioanola se, grazie al suo saggio Psicanalisi e interpretazione letteraria, pubblicato nel 2005 per i tipi di Jaca Book, oggi possiamo conoscere alcune 'zone d’ombra' del vissuto dei grandi letterati del ‘900 italiano. Così, Pirandello è presentato come un grave caso clinico e la pazzia che ricorre frequentemente nelle sue opere, da Mattia Pascal a Uno nessuno e centomila, dal Berretto a sonagli a Così è se vi pare, per citare alcuni testi del premio Nobel, è il riflesso artistico, se non la vera musa ispiratrice, di 'uno schizoide che non diventa schizofrenico ma che è tendenzialmente scisso'.
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Italo Svevo, il padre della categoria degli 'inetti', è un nevrotico 'che stenta a rapportarsi al reale'. Alfonso Nitti, il protagonista di Una vita, è vittima di un continuo e tormentoso lavorio della coscienza che lo porterà al suicidio. Emilio Brentani, l’impiegatuccio di Senilità, si duole di avere sprecato tanta parte della sua vita e di non essere in grado di reagire, assumendo a modello l’allegro e spensierato modo di vivere dell’amico scultore Balli. Secondo Gioanola, Svevo ha difficoltà ad affrontare ogni responsabilità e, anche se il suo io rimane integro, soffre di una nevrosi isterica, che contagia anche la vita di Zeno Cosini nella Coscienza di Zeno, dove il ricorso all’ironia consente al protagonista di allontanare da sé l’impatto violento con la realtà per meglio dominarla.
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Su Giovanni Pascoli Gioanola ha scritto una monografia, Sentimenti filiali di un parricida, Milano 2000, in cui l’elemento sessuofobico, presente anche nei tratti nevrotici degli autori precedenti, appare dominante. 'Pascoli non è capace di parlare da uomo, in lui c’è una netta dominanza del materno e la figura del padre è un ingombro sulla strada di identificazione con la madre: c’è un infantilismo anche espressivo che è adesione all’originario, regressione verso l’arcaico e rifiuto di ogni idea di progresso. Per questo, quando suo padre muore si sviluppa in lui un senso di colpa che lo porta a una devozione smodata verso la famiglia d’origine'. La sessualità del poeta si rivela sempre tinta di paure e di morbosità, come se il coito venisse sempre interrotto da un blocco tutto interiore, da colpe inconfessabili. Si leggano Gelsomino notturno e Digitale purpurea, per un’immediata comprensione della difficoltà di approccio del Pascoli con il sesso in generale.
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La nevrosi spinge D’Annunzio ad esibire ogni sua emozione, ogni suo gesto, a fare della sua vita un’opera d’arte, come Andrea Sperelli, il protagonista del Piacere. Ma, nota Gioanola, 'l’esibizionismo sfrenato di D’Annunzio nasconde una vocazione oscura: il poeta della vitalità per eccellenza è in realtà attratto dalla morte e ossessionato dal suicidio'.
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Saba, al contrario, non è un esibizionista ma un intellettuale periferico che vive isolato, lontano dalle ardite innovazioni dei Futuristi come delle oscure analogie ermetiche. Anche il poeta triestino deve fare i conti con la sua nevrosi e ricorre alla psicanalisi, affidandosi alle cure di un allievo di Freud a partire dal 1928. Da pochi anni Trieste non appartiene più all’Impero austro-ungarico, ma si respira ancora la sua cultura mitteleuropea e solo cinque anni prima Svevo aveva pubblicato la sua Coscienza di Zeno, dove la fa da padrone l’incontro dello scrittore con la psicanalisi. Gioanola analizza Saba, accostandogli 'il mito del matricida e dell’omosessuale che ama Pilade'. Come Oreste uccise la madre Clitennestra per vendicare il padre Agamennone, così è facile riscontrare in Saba un profondo risentimento per la madre. Il padre era fuggito dopo le nozze, forse per evitare l’arresto come irredentista. La madre lo aveva abbandonato alla nascita, affidandolo a balia ad una contadina slovena, Peppa Sabaz, che lo amò come il figlio che aveva perduto. Quando la madre pretese di riprendere con sé il figlio, Umberto si trovò diviso fra la madre naturale, una donna austera e severa di origine ebrea dalla 'faccia marmorea', e la madre adottiva, alla quale si sentiva affettivamente legato, al punto da sostituire il suo cognome, Poli, con quello di lei italianizzato.
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Facendo un salto indietro di un secolo, alla luce del trauma dell’abbandono materno vengono analizzati la formazione e lo sviluppo psicologico di Alessandro Manzoni, con un approccio meno idealistico o semplicemente biografico e più centrato sugli effetti storico-letterari che la nevrosi produsse in don Lisander. Dopo il ritratto intimo del Manzoni, pubblicato da Pietro Citati nel 1980 nella collana degli Oscar Saggi Mondadori, un prezioso approfondimento della nevrosi dell’autore dei Promessi sposi è stato curato nel 2013 da Paolo D’Angelo per i tipi del Mulino nella collana dei Saggi.
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Alessandro Manzoni nacque a Milano il 7 marzo 1785 dal conte Pietro Manzoni, ricco proprietario terriero, e da Giulia Beccaria, figlia del celebre autore del trattato Dei delitti e delle pene, animatore dell’Illuminismo lombardo insieme con i fratelli Verri e gli intellettuali che si riconoscevano nelle pagine del Caffè. I genitori non ebbero una vita matrimoniale felice. Giulia aveva venti anni quando si unì in matrimonio con il conte Pietro di quarantasei anni, due più del suocero. Inoltre, i temperamenti dei due sposi erano completamente diversi: all’indipendenza del carattere e alla vivace intelligenza di Giulia non si accordava la bigotta pedanteria del marito, che la costringeva a vivere insieme con sette cognate nubili e un cognato canonico. In questi anni Giulia frequentò intimamente Giovanni Verri e quando nacque Alessandro si diffuse la voce che fosse figlio del più giovane dei fratelli Verri. Il conte Pietro riconobbe il figlio, ma nel 1792 i coniugi ottennero la separazione legale. Il piccolo Alessandro non conobbe l’affetto dei genitori. Venne affidato nei primi anni dell’infanzia ad una balia e all’età di sei anni fu avviato dal padre agli studi presso il collegio dei padri Somaschi prima e dei padri Barnabiti fino all’età di 16 anni. Il disinteresse affettivo dei genitori e la severa educazione collegiale influirono pesantemente sullo sviluppo psichico dell’adolescente, che cominciò a sentire fermenti libertari, suscitati anche dalle imprese napoleoniche e a maturare una seria coscienza civica attraverso le letture dei contemporanei Monti, Parini e Alfieri. Ne è chiara testimonianza l’allegorico poemetto in terzine, Il trionfo della libertà, in cui immaginava che a lui quindicenne si presentassero in una visione notturna la Libertà, la Pace, l’Uguaglianza, l’Amor patrio, valori di derivazione illuministica. L’amicizia di Vincenzo Cuoco, esule napoletano a Milano, gli fece maturare un senso profondo della storia nazionale, mentre con Ermes Visconti, suo coetaneo, condivise il primo approccio alle teorie romantiche. La sorella di Ermes, Luigina, fu il primo amore del giovane Alessandro. Gli studi e il rapporto con i più importanti intellettuali del tempo, dal Monti al Foscolo, non potevano colmare il vuoto affettivo del suo animo. Sua madre l’aveva abbandonato all’età di sei anni e si era trasferita prima a Londra e poi a Parigi con il suo compagno, il conte Carlo Imbonati, mentre il padre non aveva un affettuoso dialogo con il figlio, chiuso in una sua esteriore bigotteria. L’equilibrio psichico del giovane, non consolidato dall’amore dei genitori, rimase fragile, turbato, secondo Citati, da un violento complesso edipico, che gli faceva ritenere il padre colpevole del fallimento del matrimonio. L’incontro con la madre avvenne all’età di venti anni, dopo che Carlo Imbonati era morto improvvisamente nel 1805, lasciando la sua compagna erede dei suoi beni. In verità, Giulia qualche mese prima del decesso improvviso dell’Imbonati, aveva invitato il figlio a raggiungerla, forse perché gliene aveva parlato con note di stima il Monti, suo ospite nella casa di Parigi, ovvero perché cominciava a sentirsi sola, tormentata da un senso di colpa. La notizia dell’improvvisa morte di Carlo Imbonati raggiunse Alessandro mentre si accingeva a raggiungere la madre. A Parigi il giovane intellettuale poté scrivere un capitolo tutto nuovo della sua esistenza di uomo e di artista. La madre, ormai senza il sostegno affettivo dell’amante, penetrò nella vita del figlio come un uragano ed egli lasciò farsi travolgere. Giulia aveva quarantatré anni, era ancora una donna interessante, vivace e ricca di grazia. Il figlio ne fu conquistato al punto da comporre una delle sue opere migliori prima della conversione: il Carme in morte di Carlo Imbonati. Era questo un modo gentile di onorare la memoria del conte e di confortare la madre, che era diventata la sua dolce amica. È probabile che, l’influenza materna eccessivamente ossessiva abbia indotto il figlio a cercare nel ricordo dell’Imbonati il sostituto della figura paterna. Il Carme è molto interessante in quanto contiene in nuce gli elementi essenziali della poetica manzoniana e suggerisce allo stesso tempo il ritratto morale e civile del Manzoni, che resterà immutato nei lunghi anni della sua esistenza: l’arte deve nascere dal sentimento e dalla riflessione: 'sentir e meditar'. La poesia è espressione dell’invenzione, della creatività dell’animo, ma inserita in un contesto razionale, i cui interessi vanno dai problemi storici a quelli morali e religiosi. L’arte deve svolgere una funzione educatrice attraverso i suoi messaggi di verità. La verità ha in sé qualcosa di solenne e di sacro: il santo ver mai non tradir. Il poeta deve conservar la mano pura e la mente, non far tregua coi vili e non deve proferir mai verbo che plauda al vizio o la virtù derida.
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A Parigi il Manzoni visse in perfetta simbiosi con la madre, la quale lo introdusse nell’ambiente colto della capitale. La nuova coppia che si era costituita frequentava il salotto di Sophie de Condorcet, amante di Claude Fauriel, critico, storico e letterato francese, che era stato amante di Madame de Stael, con la quale aveva promosso la diffusione delle idee romantiche in Europa. Il Fauriel esercitò da subito grande influenza sulle scelte letterarie del Manzoni, come pure sul piano politico. Lo introdusse, infatti, nel gruppo degli Ideologi, che contestavano la politica tirannica di Napoleone, che col trattato di Campoformio aveva ceduto la repubblica di Venezia all’Austria (1797). Degli Ideologi faceva parte anche il filosofo Antoine Destutt de Tracy, anch’egli vicino alle teorie sensiste di Condillac e in politica vicino alle richieste del Terzo Stato e oppositore dei privilegi feudali. Nella vivace atmosfera culturale degli Ideologi si respirava un saldo rigore morale e si avvertiva l’influenza del giansenismo che a Parigi si era diffuso nel Seicento.
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Se Parigi aprì al Manzoni gli orizzonti culturali e lo aiutò ad assorbire quanto di nuovo il Romanticismo stava diffondendo in Europa, dall’altra parte non contribuì a temperare i segni manifesti della sua nevrosi. Scrive D’Angelo che la malattia nervosa di Manzoni aveva probabilmente qualche tratto di ereditarietà. Soffrivano di disturbi nervosi il nonno Cesare Beccaria, lo zio Giulio, fratello del nonno , la madre. Anche il matrimonio con Enrichetta Blondel fu organizzato dalla madre, dopo due precedenti tentativi di fidanzamento con la sorella di Ermes Visconti e la figlia dell’amico Destutt de Tracy. Enrichetta aveva 16 anni contro i ventidue di Alessandro. Era figlia di un ricco banchiere e imprenditore ginevrino, di fede calvinista, con un carattere molto sensibile, mite e dolce, quello che ci voleva per convivere per tutta la vita con una suocera onnipresente, ed accettare un perenne stato di gravidanza. Nel 1807 giunse al Manzoni notizia delle cattive condizioni di salute del padre. Si mise in viaggio per Milano, ma il conte Pietro morì prima che il figlio giungesse. Così non partecipò ai funerali né volle dare l’ultimo saluto alla salma del padre. La mattina del 6 febbraio dell’anno successivo nel comune di Milano Alessandro sposò Enrichetta con rito civile; la sera le nozze furono benedette con rito evangelico. Quattro mesi dopo il matrimonio, la famiglia Manzoni rientrò a Parigi. Nel dicembre del 1809 nacque la primogenita Giulia, che fu battezzata con rito cattolico, sia perché così era stato concordato nell’atto matrimoniale, sia perché nonna Giulia e Enrichetta avevano intrapreso un nuovo percorso religioso, che le condusse in seno alla chiesa cattolica. Certamente un ruolo importante nella loro conversione esercitò l’abate giansenista Eustachio Degola, che con le sue lunghe e dotte conversazioni avviò anche Alessandro a risvegliare la sua fede nel credo cattolico. Nel febbraio del 1810 i due coniugi ottennero dal papa Pio VII il permesso di celebrare il loro matrimonio con rito cattolico.
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La genesi della conversione manzoniana al cattolicesimo non è chiara. Certamente per un intellettuale del suo calibro, per un pensatore attento e riflessivo qual era non si poté trattare di un evento ex abrupto, come la conversione di san Paolo sulla via di Damasco. La spiegazione può essere ricercata nell’influenza della madre, che si era rifugiata nella religione, nell’accondiscendenza della moglie a seguire la suocera in tutte le sue scelte, come pure nell’esigenza tutta interiore di trovare una risposta ai tanti interrogativi sul senso della vita e della morte, sull’esigenza di aggrapparsi ad un nuovo sostituto della figura paterna dopo che era morto Carlo Imbonati, che la madre aveva tentato di surrogarglielo come un padre adottivo, sebbene non l’avesse conosciuto, e dopo la morte del padre di cui portava il cognome. La figura di Cristo padre e fratello avrebbe dovuto colmare quel vuoto affettivo che gli era rimasto dentro dall’infanzia e che gli aveva fatto emergere tanti aspetti clinici della sua personalità. Secondo uno studio dei fratelli Lombroso, Alessandro aveva ereditato dalla madre una costituzione neuropatica ed eccitabilità smoderata e da un testo pubblicato nel 1898 da Paolo Bellezza, Genio e follia di Alessandro Manzoni, ricaviamo un ritratto decisamente patologico. Lo scrittore insiste sulla balbuzie di Alessandro 'balbettone e impacciato' e stila una nomenclatura dei disagi psichici che affliggevano il giovane poeta: agorafobia, ipsofobia, acrofobia, la paura di cadere e dell’acqua, tracce di epilessia, anaffettività verso amici e parenti. Come precisa D’Angelo, l’analisi clinica di Bellezza voleva essere una sorta di canzonatura del metodo positivista lombrosiano, tant’è che egli ne scrisse allo stesso Lombroso, il quale dovette sentirsi buggerato. Tuttavia, seppure l’applicazione delle teorie lombrosiane possano sembrare eccessive, è anche vero che l’infanzia e l’adolescenza del Manzoni furono condizionate da una profonda carenza affettiva, i cui segni si evidenziarono con gli anni. L’agorafobia è il tratto psicoanalitico più manifesto, che per tanti anni è stato posto alla base della sua conversione. Il 2 aprile 1810 a Parigi in Place de la Concorde si stavano svolgendo i festeggiamenti per il matrimonio religioso di Napoleone con Maria Luisa d’Austria. Manzoni ed Enrichetta erano in mezzo alla gente che osannava la coppia imperiale. Improvvisamente, racconta Giovanni Visconti Venosta, che frequentò il Manzoni ormai anziano, 'sospinto e schiacciato in mezzo alla folla, gli svenne sua moglie tra le braccia, ed ebbe per alcuni momenti l’angoscia di vedersela strappata e calpestata tra le terribili ondate del popolo. Da quel giorno le vie e le piazze cominciarono a dargli le vertigini' (G. Visconti Venosta, Ricordi di gioventù, Milano, Cogliati, 1906, p. 592). Ma il figlio della seconda moglie, Stefano Stampa, sulla conversione del poeta riferisce che 'udì raccontare che una volta a Parigi, sentendosi male per via (allora usciva solo) e temendo di svenire come gli era accaduto pur troppo una volta, si ricoverò in una chiesa per sedervisi e lasciar passare il suo malessere, e che la quiete della chiesa, l’avervi ripigliato le sue forze e perso il timore del male che s’era prima sentito, lo aveva predisposto ad accogliere con maggiore simpatia quelle idee, a cui forse si sentiva già inclinato' ( S. Stampa, Alessandro Manzoni. La sua famiglia, i suoi amici, Milano, Hoepli, 1883-89, II, p. 61). A questa versione si aggiunge quella di Angelo De Gubernatis: il Manzoni 'smarrita un giorno la giovane sposa, in mezzo alla folla delle vie di Parigi, attiratovi da un canto religioso sia entrato nella chiesa di san Rocco e abbia mormorato questa semplice preghiera <<o Dio, se tu ci sei fammiti palese>>. Egli ritrovò dicesi tosto la sua sposa e divenne credente' (A. De Gubernatis, Alessandro Manzoni. Studio biografico, Firenze, Le Monnier, 1879, p.121). Il Manzoni attribuiva a questo episodio l’insorgere di questa sua malattia nervosa, che gli impedì per sempre di uscire da solo, per non essere colto da stati di ansia e di vertigini. Pe il poeta, annota Citati, 'la ritrovata fede in Dio fu un evento traumatico, che ingigantì e approfondì la sua nevrosi' (op. cit., p. 52). Quando sedeva a tavola aveva bisogno di porre accanto a sé una seggiola sulla quale poggiare la mano, per sentirsi rassicurato di non precipitare in un abisso. Se si avvicinava un temporale, si chiudeva nella sua stanza, impaurito dal cielo grigio e dal brontolio cupo dei tuoni. Non osava uscire di casa se doveva posare i piedi sul bagnato. Col tempo cominciò a convivere con i suoi mali e trovò in lunghe chilometriche passeggiate insieme a qualche volenteroso accompagnatore una forma di lenimento delle sue crisi.
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Nel giugno del 1810 la famiglia Manzoni, Alessandro, la moglie, la madre e la piccola Giulia nata nel 1808, lasciarono Parigi e ritornarono a Milano, dove si sistemarono nella villa di Brusuglio, che Giulia aveva ereditato da Carlo Imbonati. La grande villa a due piani risuonava delle voci di amici, domestici e soprattutto dei tanti bambini che Enrichetta partoriva ogni due anni circa. Dopo Giulia, nacquero nell’ordine Pietro (1813-73), Cristina (1815-41), Sofia (1817-45), Enrico (1819-81), Clara (1821-23), Vittoria (1822-92), Filippo (1826-68), Matilde (1830-56). Il capo riconosciuto della famiglia – scrive Citati – era la madre, che teneva l’amministrazione della casa ed esercitava la sua autorità su tutti i componenti, compresa la docile Enrichetta che, pur sfibrata dai continui parti e dalle malattie che indebolivano il suo corpo, non mancava di stare vicino al marito, di seguire l’educazione dei figli, di mostrarsi affettuosa nei confronti della suocera. Enrichetta amava intensamente Alessandro, al punto da sfidare, pur nella sua fragilità, la veemente protesta della sua famiglia d’origine che non aveva bel accolto la sua conversione alla religione cattolica. Così scriveva alla cugina Carlotta De Blasco il 30 ottobre 1816: ' La salute incostante del mio caro Alessandro è anche la causa del poco tempo che posso avere per me, perché le angosce nervose che prova non gli permettono di stare solo un momento … Egli prova talvolta delle agitazioni interiori così forti, che egli non può assolutamente assentarsi, o trovarsi solo; potete immaginarvi la pena che deve causarci il suo stato …'
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Enrichetta, quindi, aveva poco tempo da dedicare alla sua salute, chiedeva poco per sé e, afflitta da una progressiva cecità, si muoveva quasi cieca da una stanza all’altra della nobile magione, rarefacendo la sua presenza nei cenacoli letterari che il marito teneva nel suo salotto.
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Enrichetta si spense la notte di Natale del 1833 all’età di 42 anni. Per qualche anno rimase solo con la madre Giulia e i suoi nove figli. Nel 1837 Alessandro sposò Teresa Borri Stampa, rimasta vedova nel 1820 con un figlio ancora giovane, Stefano. La loro vita coniugale durò fino alla morte della donna nel 1861. Alcuni critici hanno sostenuto che il Manzoni ebbe con la seconda moglie una maggiore intesa sessuale, che l’aiutò a superare i suoi numerosi disagi psichici. Si tratterebbe di pure illazioni, in quanto da una lettera del 16 dicembre del 1845, indirizzata al suo medico Giovanni Morelli, risulta che lo scrittore cercava nell’acqua minerale di Boario qualche sollievo dei suoi mali fisici e mentali; e dieci anni dopo continuava a lamentarsi dei suoi mali nervosi e ciò fino alla fine della sua lunga esistenza.
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Scrive Paolo D’Angelo che don Lisander incolpava di questa sua fragile condizione psichica 'l’immaginazione troppo viva che gli faceva vedere pericoli inesistenti se si fosse avventurato negli spazi aperti', il che condizionò l’iter della sua produzione artistica. Dopo la conversione, il Manzoni decise di celebrare i momenti principali dell’anno liturgico, componendi degli Inni, secondo l’antica tradizione cristiana. Dei dodici inni programmati ne compose solo cinque: La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione e, infine, La Pentecoste, che finì di comporre nel 1822, con varie stesure, in cui si nota il travagliato superamento dell’influenza giansenista, che aveva caratterizzato gli scritti precedenti. In particolare, La Passione fu scritta tra il marzo del 1814 e l’ottobre del 1815, gli anni del Congresso di Vienna e del ritorno all’assolutismo. La sconfitta di Napoleone a Waterloo suscitò una crisi profonda nel Manzoni che, pur considerando l’imperatore francese un traditore dei principi di libertà dei popoli, tuttavia temeva ancor più la restaurazione del potere austriaco. Non volle assumere alcun incarico politico offertogli dal nuovo governo, preferendo immergersi nella sua attività letteraria. Influenzato sempre di più dalle nuove idee romantiche, in via del Morone, (era l’indirizzo della casa del Manzoni), si formò il gruppo ultraromantico, che proponeva una letteratura impegnata sul piano civile e sociale, ispirata al vero e nemica della mitologia, libera dai canoni retorici, inneggiante alla libertà d’ispirazione. Il programma già espresso prima della conversione nel Carme in morte di Carlo Imbonati trovava una sua teorizzazione più solida. L’innografia, pur avendo tratto ispirazione dalle verità della fede cristiana, non era un genere letterario decisamente 'popolare', occorreva quindi tentare un genere diverso, più aperto al pubblico e con maggiore capacità comunicativa. Il teatro offriva tale opportunità. Nel giugno del 1819 completò la sua prima tragedia, Il conte di Carmagnola, il 1822 è l’anno dell’Adelchi. Entrambe affrontano un argomento storico, le cui vicende potevano far riflettere gli spettatori sulle condizioni attuali della loro terra. Il poeta mette sulla scena personaggi storici ed inventati, ma con lo sguardo fisso all’indagine e alla verità dell’azione. Per non tradire la verità e per meglio comunicare con il pubblico sul piano etico-religioso e politico, il poeta, sull’esempio delle tragedie storiche di Schiller e di Goethe, rifiutò le unità pseudo-aristoteliche di tempo e di luogo, mentre avvertiva il bisogno di far precedere ciascuna tragedia da una premessa storiografica. Il poeta, in questo modo, completava l’opera dello storico, andando oltre la semplice descrizione dei fatti, e non tradiva la verità, anzi la illuminava dal di dentro, mettendo in luce la realtà umana, morale e psicologica dei protagonisti nel loro agire. Così si spiega la risposta che diede a M. Chauvet, il letterato classicista francese, che gli contestò l’inadempienza alle tre unità di tempo di luogo e di azione: il poeta ha il diritto di adottare le forme più consone alla sua ispirazione; le unità di tempo e di luogo limitano eccessivamente il respiro drammatico; l’invenzione non deve confondere il vero storico, ma ne può essere il suo complemento. Nell’Adelchi è viva l’influenza dello storico liberale francese, Augustin Thierry, che conobbe grazie al Fauriel durante il suo secondo soggiorno parigino, che si protrasse fino all’agosto del 1820. Il Thierry, studioso degli insediamenti barbarici in Inghilterra e in Francia, lo indirizzò allo studio dei popoli oppressi e ad approfondire la divisione fra conquistatori e popolazioni sottomesse. Questo indirizzo andava bene per gettare luce sul destino del popolo latino, oppresso dai Longobardi prima e dai Franchi poi. L’interesse per la storia ormai dominava gli studi del poeta. Anche le due odi Marzo 1821 e il 5 Maggio non si allontanano dalla poetica che egli ha elaborato alla luce delle idee romantiche e della sua formazione cristiana: il vero storico, al contrario dell’invenzione, che si nutre di menzogne, è di per sé poesia finalizzata a un obiettivo utile etico, morale, politico. Nella sua Lettera a Cesare D’Azeglio o sul Romanticismo tale poetica è espressa in modo lapidario: la poesia e la letteratura in genere deve proporsi: l’utile per iscopo, il vero per soggetto, l’interessante per mezzo. Non pare strano, a questo punto, l’approdo del Manzoni ad un nuovo genere letterario, il romanzo storico, diffuso con successo dallo scozzese Walter Scott presso il pubblico europeo.
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Gli anni 1821 e 1822 furono quelli della maggiore produzione artistica del Manzoni. Il 24 aprile 1821 intraprese il progetto di un romanzo storico e cominciò a documentarsi sul periodo storico che aveva scelto come sfondo agli avvenimenti. Il romanzo gli consentiva di misurarsi con la prosa, di introdurre sulla scena un maggior numero di personaggi rispetto alla tragedia, di dare il ruolo di protagonista alla gente umile e meccanica, operando una vera rivoluzione copernicana e di attribuire una nota di maggiore realismo ai fatti narrati, respingendo il 'romanzesco' per considerare 'nella realtà la maniera d’agire degli uomini'. Per cinque anni lo scrittore rimase chino sulla sua scrivania a scrivere e a riscrivere la sua storia anche per nove ore di seguito. Ancora una volta, tra gli altri problemi, si poneva quello del rapporto tra vero storico e invenzione. Era importante non tradire le coordinate culturali, politiche religiose e civili del Seicento. La Lombardia sotto il dominio spagnolo doveva essere speculare alle condizioni di oppressione, in cui la regione lombarda si trovava ai suoi tempi dopo la Restaurazione. Solo analizzando le radici della decadenza politica e morale del tempo passato era possibile indicare un orizzonte futuro agli Italiani. Ritornava quindi il medesimo spirito patriottico che aveva ispirato Marzo 1821 e i cori delle due tragedie. Il Manzoni guardava al popolo con un certo paternalismo, tipico della borghesia liberale che si era confrontata nelle pagine del Caffè. Si trattava di un paternalismo necessario, finalizzato alla trasformazione di una massa senza nome in un popolo consapevole dei propri diritti, rispettoso delle leggi, fiducioso nel lavoro come strumento di progresso individuale e sociale. Liberalismo e cristianesimo non si scontrarono nelle pagine del romanzo, anzi laicismo e valori cristiani finirono con l’incontrarsi proficuamente nell’azione riformatrice della società auspicata dallo scrittore. Bisognerà attendere l’enciclica Rerum novarum di papa Leone XIII del 1891, per ascoltare la voce della Chiesa cattolica sui problemi di carattere economico e sociale.
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Del suo romanzo il Manzoni ci ha lasciato tre edizioni: la prima inedita, composta tra il 1821 e il 1823, intitolata Fermo e Lucia; la seconda pubblicata dall’autore nel 1827 con il titolo definitivo di Promessi Sposi; ed infine l’ultima edizione del 1840. No ci soffermeremo ad analizzare il romanzo, che richiederebbe una lunga disamina, diremo soltanto che c’è una profonda differenza tra l’edizione del Fermo e Lucia e quella dei Promessi Sposi sia per l’impostazione del racconto, sia per la riduzione delle digressioni storiche, sia per l’atteggiamento stesso dell’autore, che ha scoperto l’ironia come mezzo per ridurre la contrapposizione tra il bene e il male, sia perché sotto la vigile presenza della Provvidenza il caos delle vicende umane trova una felice ricomposizione cosmica. Tra la ventisettana e la quarantana il Manzoni si dedicò a revisionare il romanzo sotto l’aspetto linguistico, scegliendo la soluzione fiorentina, che gli consentiva di richiamarsi alla tradizione linguistica riportata al presente. La lingua fiorentina parlata dalla borghesia colta divenne non soltanto il mezzo espressivo della redazione definitiva, ma allo stesso tempo forniva all’Italia un modello di lingua unitaria, viva, attuale, duttile. A questo servì il risciacquo dei panni in Arno operato a Firenze, dove il poeta si era recato nel luglio del 1827 con la sua numerosa famiglia raccolta in due carrozze: padre, madre, nonna Giulia, sei figli e quattro domestici.
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Dopo l’edizione del 1827 la vena creativa dello scrittore si inaridì. Si dedicò alla saggistica con opere di interesse letterario e soprattutto storico. Anzi nei confronti dell’unico suo romanzo il Manzoni prese subito le distanze e ne scrisse le motivazioni nel Discorso sul romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione. In esso, in contraddizione con quanto aveva affermato nella Lettre à M. Chauvet, scriveva: il vero solo è bello … il verisimile …è un vero diverso dal reale. Da qui la conclusione che è meglio evitare la commistione di storia ed invenzione nello stesso componimento. Il 'vero' diventa oggetto di culto assoluto, esso coincide con la poesia e rifugge ogni fuga inventiva. Si capisce che ormai la via alla stesura di nuovi romanzi era per sempre preclusa. Se il contemporaneo Balzac componeva negli stessi anni 96 romanzi, sotto il titolo comune di La Commedia umana, e Walter Scott logorava la sua vita scrivendo sempre nuovi romanzi per sanare la sua situazione economica, don Lisander non volle più fantasticare né inventare, ma restare aggrappato alla storia, dalla quale traeva verità e sostegno psicologico. Paolo D’Angelo, che insegna estetica a Roma Tre, trova qualche punto di contatto tra il silenzio creativo del Manzoni dopo i Promessi Sposi e quello di Rossini il quale, dopo aver composto il Guglielmo Tell nel 1828 all’età di trentasei anni, cessò di realizzare qualcosa di nuovo. La posizione del Manzoni sembra tuttavia molto diversa. Fin da giovane il poeta fu afflitto da tanti e gravi disturbi nevrotici, che condizionarono periodi più o meno lunghi della sua esistenza. Per rispondere a questi disagi psichici aveva un continuo bisogno di non sentirsi solo, di avere un sostegno, di aggrapparsi alla vita reale, passeggiando, piantando alberi, curandosi dei fiori, facendo lunghe passeggiate con cadenza e ritmo regolari. Fin da giovane, sul piano artistico, il Manzoni fu alla ricerca del 'santo vero' che coincise sempre più con il vero storico. L’immaginazione gli apparve col tempo una bella menzogna da cui prendere le distanze per non lasciarsi travolgere dal vago e dall’ebbrezza della fantasia che produce smarrimento, vertigine, ansia. Come spiega D’Angelo, allo scrittore tutto quello che proviene dalla libera invenzione, che non trova un riscontro esatto nella realtà storica, pare pericoloso. L’invenzione gli apre dinanzi un abisso, un grave smarrimento come quello che gli procurava l’agorafobia. L’arte, insomma, non era un passatempo, né uno spazio senza confini, in cui librarsi con la fantasia; essa doveva esprimere l’ethos di un popolo, come la poesia di Omero e le tragedie dei poeti greci, in cui vivevano i valori di una civiltà da trasmettere alle generazioni future. L’arte, come ornamento e come invenzione o effusione della mente e dell’anima di un singolo, era morta. Lo aveva notato tra gli altri Arturo Graft, che nel Discorso storico vi leggeva la morte dell’arte, argomento dibattuto da filosofi come Hegel prima e Nietzsche dopo. L’arte era per Hegel una via attraverso la quale lo Spirito assoluto si manifestava con le forme sensibili, ma era destinata a venir meno di fronte al vero dispiegato dalla filosofia. Per Nietzsche l’arte cedeva dinanzi alla scienza. Per il Manzoni l’arte si identificava con la storia, che considerava rappresentazione vera dell’agire umano, unica fonte d’ispirazione. Così la nevrosi suggerì al grande nevrotico della letteratura italiana, come lo definisce Paolo D’Angelo, una nuova teoria dell’arte, che negava valore artistico al suo unico romanzo, I promessi sposi.
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Il 1848 fu un annus horribilis per la famiglia Manzoni. Il patrimonio diventava ogni giorno più esiguo, aggredito dall’incendio che distrusse parte della villa di Brusuglio, dai cattivi raccolti, dai debiti dei figli maschi. Filippo era finito in carcere per debiti, riuscendo in parte a lavare tale onta, combattendo durante le cinque giornate di Milano. Morì in miseria vent’anni dopo. Enrico non ebbe migliore fortuna. Dopo aver consumato i suoi beni, senza arte né parte, dilapidò il ricco patrimonio della moglie, continuando la bella vita senza farsi scrupolo di indebitarsi, di non pagare i suoi fornitori, di onorare i conti degli alberghi dove si recava con la famiglia a trascorrere le vacanze. Il grande poeta, erede di una famiglia aristocratica, noto in tutta Europa, era costretto a risparmiare sulla spesa, sul vestiario, sui domestici, a cercare di ottenere il massimo profitto dai diritti d’autore. Della numerosa famiglia non c’erano più Cristina, morta venticinquenne, seguita due mesi dopo dalla nonna Giulia; Sofia, morta all’età di ventisette anni nel marzo del 1845. Pietro morì lo stesso anno del padre nel 1873, precedendolo di un mese, mentre sopravvissero al vecchio genitore Enrico e Vittoria, la più longeva dei figli, morta settantenne nel 1892. Nel 1860 Manzoni accettò la nomina di senatore del regno d’Italia, ma la sua vita continuava a registrare i lutti degli amici più cari, il Fauriel e del filosofo Antonio Rosmini, col quale aveva condiviso il piacere di tante dotte conversazioni e da cui aveva tratto ispirazione per alcuni suoi scritti come il trattato De inventione. Nel marzo del 1862 Giuseppe Garibaldi andò a far visita al Manzoni nella sua casa di Milano e gli offrì un mazzolino di viole. L’anno successivo alla nomina di senatore il Nostro restò vedovo per la seconda volta. La scomparsa di Teresa Borri fece calare il silenzio nella casa di via Moroni. Quanto discreta e silenziosa era stata Enrichetta, tanto loquace, di pronta intelligenza, di gioiosa partecipazione alla vita si mostrava Teresa, sebbene fosse afflitta da continui malanni in ogni parti del corpo. Stava vicino al marito accanto al caminetto di via Moroni, suonava il clavicembalo, parlava inglese e francese, si interessava di letteratura. Allo stesso tempo, scrive Citati, possedeva un senso plebeo, vitale, buffonesco della realtà quotidiana, che dovette attrarre moltissimo la timorosa freddezza del marito. Ma anche Teresa era un’ipocondriaca. Nel 1844 aveva temuto che fosse ammalata di timore. Si trattava invece di una gravidanza inaspettata che si concluse con l’aborto di due gemelline.
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Alessandro Manzoni si spense nel lettuccio rosso di ferro la sera del 22 maggio 1873 dopo una penosa agonia. Milano tributò solenni funerali al suo illustre vate con un lungo corteo che attraversò il centro della città fino al cimitero monumentale, dove ancora oggi riposano le sue spoglie. Giuseppe Verdi compose per il grande milanese la sua Messa di requiem, che diresse personalmente, dopo le esequie anche alla Scala.
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Antonino Tobia
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Autore
Prof-Greco
Inserito il 26 Maggio 2015 nella categoria Relazioni svolte
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