La donna, l'amore, la divinità nell'Eneide raccontata da Antonino Tobia
Dopo che la battaglia di Azio (31 a. C.) aveva sancito definitivamente il potere di Gaio Giulio Cesare Ottaviano, Virgilio si dedicò alla composizione dell’Eneide, poema epico in dodici libri. Dal 29 al 19 a. C. il poeta mantovano lavorò alacremente alla sua opera senza riuscire a darvi l’ultima mano. L’incompiutezza del poema tormentava il poeta che sentiva vicina la morte. Cinquantotto esametri, infatti, sono rimasti incompiuti ed è probabile che Virgilio volesse operare un definitivo labor limae e modificare o completare qualche passo. Forse per questo motivo in punto di morte avrebbe voluto che l’Eneide fosse bruciata e per testamento aveva chiesto che non venisse pubblicato nulla che non fosse stato già pubblicato. Ma Augusto, dopo la morte di Virgilio, diede istruzioni agli amici del poeta, Vario Rufo e Plozio Tucca, perché curassero la pubblicazione del poema. Sulla composizione dell’opera ci fornisce una notizia molto interessante la Vita di Virgilio del grammatico romano Elio Donato (IV sec. d. C.), che utilizzò la biografia scritta da Svetonio agli inizi del II d. C. : Virgilio stese prima un canovaccio in prosa, cui seguì la stesura in versi, componendo di volta in volta questo o quell’episodio a seconda che l’ispirazione gli suggeriva. Nel Proemio del III libro delle Georgiche Virgilio aveva già promesso di dedicarsi alla stesura di un poema epico in cui cantare 'Assarici proles demissaeque ab Iove gentis / nomina Trosque parens et Troiae Cynthius auctor' (vv. 35-36). Del resto, ben prima che Virgilio facesse di Enea l’eroe dell’epopea nazionale, l’eroe troiano aveva una grande popolarità nella letteratura latina. L’ultima notte di Troia era stata descritta da Nevio nel Bellum Poenicum, che Virgilio certamente aveva letto, come pure nei primi tre libri degli Annales Ennio aveva narrato le origini di Roma, da Enea ai sette re. Dionisio di Alicarnasso ( I sec. a. C.) racconta nelle sue Antichità Romane che i Latini avevano costruito a Lavinio un heroon (monumento dedicato ad un eroe divinizzato), che gli archeologi datano al VII secolo a. C..
Lo sfondo dell’Eneide è la leggenda di Enea, l’eroe troiano che sopravvisse alla distruzione della sua patria messa a ferro e fuoco dai Greci e che peregrinò a lungo nelle acque del Mediterraneo prima di approdare nella costa laziale. Qui fondò un primo insediamento, Lavinio, dal nome della sua sposa italica Lavinia, figlia del re Latino. Iulo, nato dalla moglie troiana Creusa o, secondo la versione liviana, dalla principessa latina Lavinia, trasferì la capitale da Lavinio ad Alba Longa nei pressi della moderna Castel Gandolfo nel 1152 a. C. e da qui provenne Romolo, il futuro fondatore di Roma. Per tramite del figlio Iulo, Enea divenne il capostipite della gens Iulia, che poteva così vantare di discendere dalla dea Venere, madre di Enea. A questa gens appartenevano Giulio Cesare e l’imperatore Augusto grazie all’adozione da parte dello zio Cesare, che lo nominò suo erede. L’argomento della distruzione di Troia è espressamente narrato nel secondo libro dell’Eneide. Rispetto al modello omerico, si trattava di una novità, in quanto sia nell’Iliade sia nell’Odissea il tema era stato appena accennato. Personaggi ed episodi di tale vicenda, però, erano entrati a far parte della tragedia attica (Ecuba, Andromaca, Troiane di Euripide), erano stati trattati in seguito in età alessandrina e fatti propri dalla letteratura latina con le tragedie di Livio Andronico, Nevio, Ennio, Accio. Virgilio, come scrive Antonio La Penna, dové considerarlo un tema impegnativo, non solo per la sua tragica grandiosità, ma soprattutto perché doveva dimostrare come mai l’eroe avesse evitato la fine, che aveva travolto tanti nobili eroi caduti con le armi in pugno, non certo per viltà. Da qui il ricorso al sogno, in cui Ettore incita Enea ad abbandonare la battaglia ormai decisamente perduta, al fine di sopravvivere alla triste fine di Troia e di mettere in salvo i Penati. Un secondo incitamento alla fuga giunge ad Enea dalla stessa madre Venere ed infine una terza esortazione a partire da Troia gli perviene dall’ombra della moglie Creusa, sparita tragicamente nella rovina generale. In questo modo Virgilio scagiona ampiamente l’eroe troiano da ogni accusa di viltà e lo investe di una ardua e nobile missione: fondare una nuova patria, perché questo era il volere di Giove. Il poeta, quindi, ricorre al mito per nobilitare le origini del popolo romano ed Enea diventa 'il portatore di un futuro che riguarda l’intera umanità, in cerca della nuova patria dove in un giorno lontano rifiorirà l’età dell’oro a mettere per sempre fine alla guerra'[1]. Pe la prima volta nel mondo antico, osserva il Traina, assistiamo ad una 'grande teologia della storia': alla fors epicurea, che sconvolge la vita degli uomini per un processo di casualità indeterminato, Virgilio sostituisce il fatum stoico, inserendo il logos negli avvenimenti, che dà loro un senso e una concertazione superiore. La complessa struttura del poema, sulla scia dei modelli omerici, è attraversata dalla presenza degli dei e del loro intervento nelle vicende umane. Ma si tratta di una religiosità più profonda rispetto a quella trasmessa dal mito. Virgilio vuole conferire un alone divino alla storia di Roma che si irradia fino ad Augusto. La ritualità che presiede alle pratiche religiose è trattata con riverenza e caricata di un’impronta tutta romana. Le origini di Roma e le grandi imprese delle antiche famiglie romane sono trattate in prospettiva dell’avvento di Augusto al potere. Virgilio unisce storia e mito e coglie il nesso storico degli avvenimenti, come un’unità continua guidata dal fato verso la fondazione dell’impero. Di questo progetto l’Italia rappresenta il cuore dell’imperium romanum, il baluardo politico e morale contro la mollezza e la corruzione dell’oriente ellenistico, in sintonia con il nuovo indirizzo politico di Augusto, che mirava ad unire renovatio con restauratio. La catabasi La disposizione dei dodici libri dell’Eneide procede in modo tale da ricordare nei primi sei i viaggi e l’errare di Ulisse, dal settimo in poi le imprese di guerra che richiamano il carme sempre sonante di armi dell’Iliade. Ma Enea, prima di imboccare la foce del Tevere e di sbarcare nelle terre laziali, dovrà vivere un’esperienza eccezionale, attraverso la quale, come canta Dante, 'intese cose che furon cagione della sua vittoria'. Il libro sesto segna il passaggio tra la prima e seconda parte del poema, quasi un poema nel poema per il suo ruolo centrale e prolettico rispetto a quanto sarà da qui in poi narrato. Enea, approdato a Cuma, mentre i compagni provvedono a preparare i cibi, sale al tempio di Apollo, ove la vecchia Sibilla Deifobe gli rendeva i responsi invasata dal dio : ' Compìti son del mar tutti i pericoli;/ restan quei della terra, che terribili/ saran veramente e formidabili./ Verranno i teucri al regno di Lavinio:/ di ciò t’affido. Ma ben tosto d’esservi/ si pentiranno. Guerre, guerre orribili/ sorger ne veggio, e pien di sangue il Tevere./ saravvi un altro Xanto, un altro Simoi,/ altri Greci, altro Achille, che progenie/ ancor egli è di dea. Giuno implacabile/ allor più ti sarà, che supplichevole/ andrai d’Italia a quai non terre o popoli/ d’aìta mendicando e di sussidi!/ E fian di tanto mal di nuovo origine/ d’esterna moglie esterne sponsalizie' (VI . 126-140). Su ordine della Sibilla Enea, quindi, seguendo il volo di due bianche colombe, coglie il ramo d’oro e discende con lei nell’oltretomba attraverso la caverna situata nei pressi del lago di Averno ( grec. àornos= privo di uccelli). Il ramo d’oro rappresenta il dono che Enea dovrà offrire alla regina degli Inferi, Proserpina, per propiziarsela e ottenere il permesso di entrare nell’Ade e di poterne venir fuori. Si tratta di un rito iniziatico, che costituì il punto di partenza di Sir James Frazer per sviluppare la sua grande opera sull’evoluzione delle credenze e delle istituzioni religiose, Il Ramo d’oro. Il commentatore di Virgilio, Servio (IV secolo), collega questo rito con il culto della dea Diana ad Aricia, antica cittadina del Lazio, dove si trovava un albero sacro nel Nemus Aricinum. Lo schiavo fuggitivo che avesse staccato un ramo da questo albero e avesse successivamente ucciso il sacerdote ne avrebbe preso il posto. Si tratterebbe , secondo Frazer, della teoria del dio morente, presente in numerose religioni, in cui la divinità, coinvolta in una vicenda in cui perderà la vita, la riacquista in un momento successivo, come Osiride, Dioniso, Adone, Gesù e tanti altri. La discesa di Enea nel regno dei morti presuppone, quindi, la rinascita stessa di una nuova patria, che da questi luoghi trarrà la sua origine mitica. Vedendo il ramoscello d’oro, Caronte permette ad Enea e alla Sibilla di attraversare lo Stige, lungo la cui riva stazionano le anime dei morti che non hanno ricevuto sepoltura, tra cui Palinuro, il timoniere della nave di Enea che, vinto dal sonno, era caduto in mare e, gettato sulla spiaggia dell’Italia, era stato ucciso dagli abitanti del luogo. Dopo avere addormentato il custode dell’oltretomba con una focaccia drogata, i due s’inoltrano nell’Ade. Qui visitano diversi gruppi di defunti: bambini, condannati ingiustamente, i morti per amore, fra i quali Didone, e gli uccisi in battaglia. Giunti all’ingresso del Tartaro, s’imbattono nei peggiori peccatori, che soffrono pene atroci. Finalmente raggiungono i Campi Elisi, dove vivono beatamente le anime dei giusti. Qui Enea incontra il padre Anchise che indica al figlio le anime di quanti illustreranno la storia di Romolo: Romolo, i primi re, i grandi generali che renderanno potente l’impero romano nel mondo, lo stesso Augusto e suo nipote Marcello, alla cui morte precoce Virgilio fa un breve accenno. Si narra che quando Virgilio lesse questo passo (VI. 861-87) alla presenza di Ottavia, madre di Marcello, la sorella di Augusto svenisse per la commozione. La religione romana primitiva subì attraverso i contatti con la Magna Grecia notevoli cambiamenti e molte divinità greche furono identificate con gli antichi dei romani: Zeus/Iuppiter, Atena/Minerva, Efesto/Vulcano, Artemide/Diana, Era/Giunone/, Poseidone/Nettuno e così via. Tuttavia i culti primitivi sopravvivevano con la loro semplice ritualità nelle campagne e all’interno delle casa, come la religione dei Lari, che distingueva i Lares compitales protettori dei crocicchi, venerati nelle feste agricole e i Lares familiares, numi tutelari della casa e della vita domestica, identificabili con gli spiriti divinizzati degli antenati defunti. Ogni casa aveva il proprio lararium in cui erano conservate le immagini dei Lari, così come i nostri nonni in un angolo della camera da letto esponevano con religioso rispetto i ritratti dei loro antenati. Ma Orazio, Ovidio, Apuleio ed altri riferiscono anche di spiriti malefici, i Lemures che come fantasmi si presentavano nelle case dei loro familiari il 9, 11, 13 maggio. I più ostili erano gli spettri dei morti in giovane età, che nutrivano rancore verso i familiari rimasti in vita. Per esorcizzare gli spiriti il pater familias nella festa dei Lemùria, come ci racconta Ovidio (Fasti. 5. 421), si alzava a mezzanotte e camminando scalzo per la casa lanciava dietro le sue spalle nove fagioli neri, perché li mangiassero gli spiriti. Nel libro X v. 534, Virgilio fa, poi, riferimento ai patris Anchisae Manes: Mago, nemico di Enea, nel bel mezzo di un accanito combattimento invoca l’eroe troiano perché gli risparmi la vita. L’invocazione alla pietas non ottiene l’effetto implorato ed Enea, offuscato dal dolore e dal desiderio di vendicare la morte del giovinetto Pallante, caduto poco prima per mano di Turno, lo trafigge con la sua spada. In questa circostanza il figlio di Anchise non appare affatto pius, ma piuttosto simile nella ferocia ad Achille, vendicatore efferato della morte del caro amico Patroclo. Non sappiamo, circa le credenze religiose dei Romani, se credessero nelle reincarnazione. Nello stesso libro VI, comunque, pare che Virgilio non la rifiutasse. Infatti, ad un certo punto Enea scorge numerose anime che bevono le acque di un fiume che scorre in una valle appartata, in un bosco isolato. Anchise gli spiega che si tratta del fiume Lete, il fiume che dà l’oblio della vita già in terra vissuta a chi ne beve le acque. Così purificate le anime, spinte dal fato, si rivestono di nuovi corpi. (704-751). È probabile che Virgilio abbia ricavato questa dottrina della reincarnazione da Platone o dalle religioni misteriche diffuse a Roma, come l’orfismo e il pitagorismo che predicavano la trasmigrazione delle anime: l’anima si incarnava tre volte e doveva condurre ogni volta una vita virtuosa per essere ammessa nell’Isola dei Beati. Durante i II e I secolo a. C. si fecero sentire nuovi influssi religiosi provenienti dall’Oriente, come il culto della Magna Mater, penetrato a Roma durante la seconda guerra punica, che i Romani identificheranno con la dea Cibele, sposa del giovane Attis; ed ancora il culto orgiastico di Dioniso, quello di Iside ed Osiride, e ancora il culto del dio persiano della luce, Mitra, che si diffuse a partire dal I secolo d. C. . Virgilio nelle Georgiche, come pure Ovidio e Tibullo ci informano della persistenza delle antiche credenze religiose italiche all’inizio dell’impero. Come nell’epos omerico, Virgilio fa intervenire le divinità nelle azioni umane, conferendo loro uno spessore più dignitoso ed elevato. Nel libro VIII è il dio del fiume Tevere ad incoraggiare Enea, angosciato dalla notizia che le tribù italiche si stavano radunando sotto i loro capi, e a suggerirgli di chiedere l’alleanza degli Arcadi guidati da Evandro (VIII. 36-65). La presenza, poi, della madre Venere in soccorso permanente del figlio attraversa tutto il poema, come pure, di contro, l’odio di Giunone verso l’eroe troiano, reso ancora più violento quando il re Latino offre ad Enea alleanza e la mano della figlia Lavinia: la dea rende furente contro i Troiani la regina Amata, madre di Lavinia con l’aiuto della Furia Alletto e accende una folle ostilità in Turno, cui la principessa era stata promessa prima che Enea approdasse in Italia (VII. vv. 544-620). Amata è un personaggio creato da Virgilio, come pure una sua creazione è la vergine Camilla. Questo personaggio compare solo nell’Eneide. Figlia del re dei Volsci, è alleata di Turno: 'E vien dalla gente de’ Vosci infine Camilla/ equestre torma guidando e schiere che bronzee rifulgono,/ guerriera: non adusata a inclinare le mani/ femminee al fuso e ai lievi strumenti di Pallade … ' (VII. 803-817 E. Cetrangolo). Nel libro XI la dea Diana, conscia del fato che incombe su Camilla, chiama a sé la ninfa Opi perché protegga la vergine a lei consacrata e ne narra la storia: ' … O fanciulla, alla guerra crudele … ' (XI. vv. 535-596 E. Cetrangolo). Lo scontro tra i Rutuli e gli Etruschi si fa sempre più acceso e nella mischia Camilla gode a fare strage dei nemici che arretrano. Ma, ispirato da Giove, il vecchio re Etrusco Tarconte sgrida ed esorta i suoi a resistere all’assalto di una femminetta. La lotta riprende più atroce, gli Etruschi incalzano con più audacia, mentre Camilla, intenta ad impadronirsi delle splendide armi rifulgenti d’oro e delle belle vesti del troiano Clorèo, già sacerdote di Apollo, lungi dal sospettare il pericolo che la sovrasta, non si accorge che l’etrusco Arunte già l’aveva presa di mira e che ora stava per vibrarle il colpo mortale. Colpita, Camilla si abbatte al suolo. Tenta di strappare dalla ferita la lancia, ma invano. Le forze le vengono meno, il suo volto impallidisce e reclina il capo morta. Una delicata nota di femminilità quella che Virgilio ha voluto inserire in questo episodio carico di stragi e di violenza ma, restituendo a Camilla per un attimo un comportamento pertinente alla donna, il poeta le ha fatto pagare quel desiderio di un momento con la morte: (XI. 799-831). Di Lavinia ci sono numerosi ma brevi riferimenti a partire dal libro VI, quando l’ombra del padre Anchise la indica nei Campi Elisi come futura coniuge del figlio. È quindi una donna che ha un destino già segnato, quello di allevare Silvio, il figlio che avrà da Enea, destinato a diventare re di Albalonga e capostipite dei re Albani. Non è chiaro fino a che punto accettasse Enea come suo sposo, sostituendolo al re dei Rutuli, più vicino a lei per anni e per affinità culturale. Enea, in fondo, era uno straniero, vedovo con prole, dal futuro incerto. Non è un caso da trascurare che mentre sua madre implorava Turno di non affrontare in campo Enea, lei 'bagnata le gote di lacrime ardenti,/ la voce udì della madre e un vivo rossore le accrebbe/ il fuoco e le corse pe’l viso avvampato' (XII. 64-66). Si può dubitare che si tratti di amore, ma non si può negare che lei si sentisse legata a Turno e lo considerasse un sostegno per sé e la sua gente. Tant’è che 'poi quando le donne latine ne appreser la morte,/ per prima la figlia Lavinia sue chiome fiorenti/ lacera e le sue gote rosate'. La giovane è disperata, anche perché questa guerra le ha portato via anche la madre Amata, decisa a porre fine alla sua vita impiccandosi. Ma il personaggio femminile per eccellenza è la regina Didone, sulla cui figura è incentrato il quarto libro. Virgilio riprende dal Bellum Poenicum di Nevio l’idea dell’incontro di Enea con Didone durante la sua sosta sulle coste dell’Africa settentrionale. Già lo storico greco Timeo di Taormina (IV/III sec. a. C.) aveva narrato che Didone, moglie di Sicheo, profuga da Tiro, si era rifugiata in Africa per sfuggire al fratello Pigmalione. Questi, salito al trono di Tiro, aveva fatto uccidere il cognato per impadronirsi delle sue ricchezze. Il vero nome di Didone era Elissa, poi mutato in Didone (= la fuggitiva) quando ella giunse nella nuova terra, dove fondò la città di Cartagine. Ma con ogni probabilità la vicenda amorosa tra Enea e la regina è un’invenzione di Virgilio. La tradizione voleva, infatti, che giunta in Libia, il re Iarba le avesse concesso di potere occupare tanta terra quanta poteva essere coperta da una pelle di bue. Didone aveva tagliato la pelle in sottilissime strisce che aveva unito una all’altra. Per evitare il matrimonio con il re, la nuova regina fece innalzare una pira per il sacrificio e si gettò poi tra le fiamme. Un’altra leggenda narra che si colpì a morte con un pugnale, quando i suoi sudditi pretesero che rompesse il voto di fedeltà al marito morto e sposasse Iarba, il re di Libia. Virgilio aveva a disposizione diversi modelli letterari riguardanti gli amori infelici di donne abbandonate. Il dramma di Medea, abbandonata da Giasone, era stato oggetto di una delle tragedie più riuscite di Euripide. Apollonio Rodio nelle Argonautiche aveva ripreso nel terzo libro del suo poema l’amore di Medea con il capo degli Argonauti. Un altro amore contrastato, quello di Arianna, figlia di Minosse e di Pasife, per Teseo, era stato cantato da Catullo nel carme 64. In Medea come in Arianna e in Didone si accende l’amore per l’eroe coraggioso e sfortunato che viene da lontano; sicché la simpatia umana si trasforma presto in una passione irrefrenabile. Dopo che nel terzo libro Enea ha concluso la narrazione delle proprie avventure, Didone appare sempre più conquistata dalla personalità dell’eroe troiano anche per l’intervento congiunto di Giunone e Venere: la prima perché desidererebbe che Enea stabilisse i suoi Penati a Cartagine sposando Didone, l’altra perché il figlio trovasse un’ottima accoglienza presso la regina. Didone tutta la notte è agitata dalla passione che cresce nel suo animo. Ormai è certa che l’impulso che le viene dal cuore non è possibile frenarlo e di ciò chiede consiglio alla sorella: 'Anna, sorella; che orribili sogni mi turbano Già combattuta! Quale ospite strano è giunto tra noi! Che aspetto stupendo! Qual forza d’animo e d’armi! Egli appartiene, son certa, alla stirpe divina! Segno dei vili è il timore. Ma lui! Quali colpi sostiene Del fato! Quali ardenti battaglie narrava! S’io non avessi già fisso nella mia mente il proposito, e immoto, di più non legarmi per nozze a nessuno, poi che il primo mio amore perì e rimasi delusa, potrei forse soltanto per lui soggiacere alla colpa. Anna, - con te voglio aprirmi - , dopo la misera morte del mio sposo Sicheo, poi che furon di strage fraterna tinti i Penati, solo quest’uomo ha mosso il mio cuore e il vacillante animo ha spinto verso di sé. I noti segni risento del fuoco antico risorgere. Ma s’apra piuttosto la terra ai miei piedi, il Padre celeste mi spinga col fulmine all’ombre, alle pallide ombre dell’Erebo in notte profonda, prima ch’io t’infranga, o Pudore, e sciolga il tuo nodo. Quegli che primo mi strinse, anche seco il mio cuore Ha portato: e seco intanto lo serbi dentro la tomba'. (IV. 9-29) Anna incoraggia la sorella ad ascoltare i palpiti del suo cuore, sottolineando quale vantaggio potrebbe il regno stesso ricevere da un’alleanza con i Teucri. Quindi le consiglia di sciogliere il giuramento coniugale, chiedendo il consenso agli dei. Le parole della sorella accendono ancor più la passione di Didone, che decide di far sacrificio agli dei e di intrattenere più a lungo l’ospite nella sua reggia. 'Or seco ella conduce Enea tra le mura, gli mostra le ricchezze Sidonie, la città preparata a riceverlo. Comincia a parlare ma ferma a mezzo la voce; chiede ancora d’udire demente i lutti di Troia di pendere ancora di lui narrante le labbra. Poi, quando usciti son tutti e la luna oscuratasi nasconde sua luce e l’ultime stelle consentono il sonno, sola s’attrista nel vuoto palazzo e s’adagia sul letto lasciato da Enea: lontana lo vede, l’ode lontano. O tiene Ascanio nel grembo, l’avvince il sembiante del padre; e tenta così d’ingannare l’amore segreto'. (IV. 74-85) Per intrattenere piacevolmente l’ospite, Didone organizza una partita di caccia. Improvvisamente scoppia una violenta tempesta e la folla dei partecipanti cerca rifugio come può. Ma, per uno stratagemma studiato da Giunone, Didone ed Enea si rifugiano insieme nella stessa caverna. Il Connubium 'Intanto un murmure largo comincia a turbare il cielo; di seguito un nembo frammisto a grandine scoppia; Prima la Terra e la pronuba Era diedero il segno: brillarono lampi, e l’etere fu testimonio all’amplesso, e le Ninfe sui monti ulularono; né apparenza né onore scuote Didone; non pensa a un amore segreto: ma nozze lo chiama e vuole col nome di nozze velare la colpa'. (IV. Vv. 160-172) Didone vive l’amplesso come la consacrazione di un vincolo coniugale, al quale partecipano le stesse forze della Natura sotto la protezione divina: la Terra madre che accoglie i due amanti; Giunone pronuba, protettrice delle nozze che funge da testimone, i lampi che sostituiscono le fiaccole nuziali che nel matrimonio romano illuminavano il corteo, le Ninfe che eseguono il coro che accompagnava a Roma il rito nuziale al canto dell’imeneo. Sennonché la tempesta e l’ululato delle Ninfe hanno qualcosa d’inquietante e di tristemente lugubre. Ben presto fama volitat per tutta l’Africa e giunge anche alle orecchie dei numerosi principi africani, di cui aveva rifiutato le nozze. Tra questi il più adirato è Iarba, che aveva concesso alla regina vedova il lembo di terra su cui fondare la sua città e pertanto rivolge una preghiera a Giove per l’offesa ricevuta. Giove ascolta la sua preghiera e manda Mercurio da Enea per ricordargli la missione che il fato gli ha assegnato: ' A che pensa? Con quale speranza fra gente nemica indugia? Non pensa a Lavinio, ai suoi discendenti Italici? Navighi; è tutto. Sia questo il messaggio'. Con l’alato suo piede il dio vola dall’Olimpo e scorge Enea che si appresta a costruire fortezze e case per sé e per i suoi in una terra che non è la sua. 'Ora tu fondi dell’alta Cartagine il regno, edifichi, schiavo di donna, una bella città, diventato di te e del tuo regno immemore? A che pensi? Con quale speranza in terra di Libia ozioso il tempo consumi? Se gloria d’impresa sì grande non t’agita il cuore, pensa ad Ascanio che cresce, alle speranze in Iulio riposte, cui il regno d’Italia si deve e la terra romana'. ( IV. 235-275 passim) A tali parole, Enea resta senza voce e tutto smarrito da quella visione, stabilisce di obbedire al comando divino e di lasciare al più presto quella terra. Convocati i capi troiani ordina di preparare segretamente le navi, mentre egli avrebbe chiesto commiato alla regina, cogliendo il momento propizio e il modo che sembri il migliore. 'Ma chi potrebbe ingannare una donna che ama? Presentì la regina l’inganno e dei prossimi eventi S’accorse, lei timorosa d’ogni cosa sicura'. Finalmente affronta lei per prima il troiano: - Hai perfino sperato, o perfido, tu di potermi Nascondere tanto delitto? Di potertene andare in silenzio, così, da questa mia terra? Non l’amor nostro né il nostro patto d’un tempo né ti trattiene Didone che morrà crudelmente? ………………………………………………………..Tu fuggi Dunque da me? Per queste mie lacrime, per la tua destra – non altro ho serbato a me stessa – per l’amor nostro, per le nozze già cominciate, se bene di te meritai, se mai tu ricevesti alcuna dolcezza da me, ti prego, abbi pietà della casa che crolla, deponi questo pensiero, se a preghiere è aperto ancora il tuo animo! Per te le genti di Libia, per te m’hanno odiato I re dei Numidi e i Titi mi furon avversi; sempre per te il mio pudore e la fama d’un tempo, per cui sola andavo alle stelle, scomparvero. A chi mi abbandoni morente, ospite? Mi resta ormai Questo nome soltanto a chiamarti, di sposo che m’eri. ………………………………………………………………………………… Se almeno un figliuolo mi fosse Avanti la fuga nato da te, se un piccolo Enea Mi scherzasse dintorno per queste mie sale, non delusa forse del tutto, non ingannata mi sentirei né abbandonata del tutto da te'. (IV. 296-330 passim) A Didone che smania come una Baccante e che tenta di convincere l’amato prima con parole aspre e poi con preghiere accorate, l’eroe non sa rispondere che con parole di riconoscenza e di ringraziamento, ma protestando allo stesso tempo il suo dovere di partire perché così ordinano i fati: 'Non turbare te stessa e me col pianto: / io non cerco l’Italia per mia volontà'….. Italiam non sponte sequor! Con tali parole cerca di accommiatarsi dall’infelice e disperata Didone. 'Mentre parla così già da tempo ella lo guarda torbida gli occhi volgendo qua e là e con lo sguardo muto tutto lo squadra, finché divampando prorompe: - Non t’è madre una dea, non discendi da Dardano, o perfido, ma il Caucaso orrendo dall’ardue sue rupi t’ha generato, e una tigre d’Ircania allattato. Perché ancora dissimulo, perché a oltraggi più gravi mi serbo? Gemette forse al mio pianto? Egli mi ha forse guardata? Ha pianto forse commossa? Ha detto forse per me che tanto l’amavo una parola pietosa? Che altro può farmi di peggio? Ormai né Giunone né Giove m’assistono più, non più con giusti occhi essi mi guardano. Non c’è luogo nel mondo alla fede. Naufrago Io lo raccolsi e lo misi a parte del regno; la flotta perduta, i compagni ho salvato da morte. Le Furie mi stringono! Ora soltanto l’augure Apollo, ora soltanto l’oracolo Licio, ora soltanto gli è giunto mandato da Giove un nunzio divino nel vento a portargli il comando tremendo. Eh sì, proprio vero, lui preoccupa i Numi! Lui li tiene agitati, li turba nella lor pace! Non ti trattengo né ribatto il tuo dire. Va’, cerca, l’Italia tra i venti, insegui il regno fugace Per l’onde. Ma spero che in mezzo agli scogli, se i Numi son giusti e possono mai qualche cosa, tu attinga il supplizio chiamando sovente Didoneper nome. Coi fuochi del rogo fumanti T’inseguirò da lontano; e morta, dovunque tu vada, vedrai la mia ombra. Sarai così ripagato; e giù tra i Mani profondi saprò il tuo tristo destino'. (IV. 362-387) Didone è sfinita. Le ancelle la soccorrono e le sue membra svenute portano nel talamo e le adagiano sul letto. Enea no trova né le parole né il tempo per aggiungere altre parole a quelle pronunciate prima. Si reca a controllare i lavori che precedono la partenza, mentre la disperata Didone osserva dall’alto del suo palazzo il brulicare dei compagni di Enea attorno alle opere che precedono la partenza. L’animo della regina è stravolto, la sua dignità calpestata, il suo amore offeso. Eppure si rivolge alla sorella Anna perché si rechi da Enea e gli chieda di rinviare la partenza di qualche tempo: Ormai non invoco più quella fede da lui profanata, le nozze d’un tempo, né chiedo che al Lazio rinunzi s^ bello né che tralasci il pensiero del regno; ma solo un poco di tempo, una tregua a questo furore, perché la fortuna m’insegni, vinta, il soffrire. Chiedo quest’ultima grazia – e tu intercedi pietosa – Che s’egli me l’offre, più grande pagherò con la morte'. (IV. 431-436) Ma Enea è irremovibile e, pertanto, Didone matura il proposito di uccidersi: chiede alla sorella di aiutarla a preparare un rogo dove bruciare ogni ricordo dell’amante. Le tenebre della notte rendono più dolorosa la disperazione della misera donna. È l’alba e da lontano lei scorge le navi troiane che veleggiano verso il largo. Maledice il giorno in cui ha incontrato quell’uomo fedifrago, che l’ha sedotta e abbandonata, si augura che tra i suoi cittadini e i Troiani ci siano odio e guerra in eterno e, straziata nel cuore, scende dalla torre da cui ha assistito alla partenza di Enea, sale sul rogo e si trafigge con la spada che l’eroe troiano le aveva donato: 'O care spoglie, mentre un dio e i fati assentivano; accogliete quest’anima e me liberate d’affanno! Vissi, e il corso ho compiuto che Fortuna mi diede; tra poco andrà la mia immagine grande nell’ombra sotterranea. Fondai un’illustre città, le mie mura vidi innalzate; vendicato lo sposo, il fratello inumano punii: felice, troppo felice, soltanto se ai lidi nostri non fossero giunte le navi dei Dardani! ……………………………………………………………………… E premuta la bocca sul letto: - morrò invendicata, ma muoio … così è bello entrare nell’ombra. Veda con gli occhi il mio rogo dal mare il crudele Dardano, e porti seco il mio augurio di morte'. E si getta pesantemente sul ferro e le mani e la spada si colorano di sangue. Nel libro sesto, Enea guidato dalla Sibilla scende agli I, dove incontra una moltitudine di animedi morti. Tra queste vi è Didone. Enea le rivolge parole d’affetto e ancora una volta tenta di giustificare la sua partenza. Ma '…………………………………………………………………..quella Rivolta di spalle, fissi gli occhi per terra Né il volto si muove a quelle parole d’inizio, ma dura come pietra o come roccia Malpersia: finché s’involò e disparve nemica nel bosco folto, dove Sicheo, suo primo marito, divide con pari amore i suoi affanni'. (VI. 468-474) Didone anche nell’oltretomba mantiene il suo atteggiamento regale. Rispetto ad altre figure femminili tramandate dal teatro greco e dalla letteratura ellenistica, Didone è la figura ideale di una eroina di età matura, cui sono estranee la timidezza e le ingenuità tipiche delle giovinettiene lontani dal suo animo perfidie, odiosità, lamenti e piagnistei. Muore senza cedere al suo orgoglio. Dante la ricorderà nel V canto dell’Inferno come: 'colei che s’ancise amorosa, e ruppe fede al cenere di Sicheo'. Virgilio aveva immaginato la sua riconciliazione con lo sposo nell’Ade; Dante la condanna ad una solitudine disperata. Antonino Tobia
Inserito il 17 Maggio 2012 nella categoria Relazioni svolte
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