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La poesia patriottica

Il prof. A. Tobia ha esortato a mettere al bando quanti vogliono riportare indietro l'orologio della Storia con sogni padani o rigurgiti di umori filo borbonici.

Patria e poesia

La poesia patriottica: la penna e la spada
'Il Risorgimento è una conquista degli Italiani su se stessi, prima ancora che sugli stranieri' G. Volpe

Immagine riferita a: La poesia patriotticaNel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, sono tornati ad affiorare prepotentemente o meglio selvaggiamente i rancori, le diffidenze, i sospetti , le accuse che si pensava ormai sopiti e superati dalla ricerca storiografica più attendibile. Non c’è solo la perniciosa politica della Lega Nord, che sogna la realizzazione di una Padania inesistente sotto il profilo geografico prima ancora che sociale e culturale, ma una stolida doppiezza di pensiero e rigurgiti di umori filo borbonici  attraversano le menti di improvvisati intellettuali e di politici meridionali, quanti tanto male hanno fatto e continuano a fare alle regioni da loro amministrate. Sicché se i Leghisti considerano il Sud una palla al piede e un freno alla loro avanzata verso magnifiche sorti e progressive, larga parte del Sud ricorda di essere stata rapinata dal Nord fin dal 1861 e a questo chiede un massiccio risarcimento nell’ipotesi di una secessione, quale è quella ventilata recentemente dal governatore siciliano R. Lombardo.
Nella sua recente pubblicazione C’era una volta in Italia, A. Caprarica, di origini meridionali, definisce il Regno delle Due Sicilie un rottame abbandonato dalla storia sulle coste dell’Italia Meridionale, una costruzione statale marcia, corrosa dai tarli dell’inefficienza, dell’arbitrio e della corruzione. Ma sottolinea che anche il Regno di Sardegna era uno Stato povero, schiacciato dalle spese di un esercito sproporzionato rispetto al suo bilancio. La differenza fra le due entità politiche era però abissale sotto il profilo politico e istituzionale. I Borbone, infatti, prima avevano soffocato il rinnovamento illuministico esploso nella rivoluzione del 1799, poi avevano cancellato ogni forma di costituzione e avevano reagito con la forza ad ogni sussulto di rivolta. In particolare, va ricordato che i Siciliani per ben tre volte (1828, 1848, 1860) si erano ribellati contro il mal governo borbonico e contro la soppressione delle loro autonomie istituzionali. Come pure va ricordato che il fenomeno del brigantaggio, esploso dopo l’unificazione, non toccò la Sicilia, ma solo quelle regioni del Meridione, sobillate dalla reazione filo borbonica e da alcuni apparati della Chiesa cattolica. Ma al di là di qualsiasi revisionismo  storico, la verità da insegnare alle nuove generazioni è che senza l’unificazione l’Italia non sarebbe mai entrata nel novero delle nazioni europee.
Il 18 marzo 1861 a mezzodì 101 colpi di cannone annunciarono in tutte le città della Penisola la proclamazione del Regno d’Italia. Un sogno lungo cinque secoli, alimentato dal sacro fuoco della poesia e dal contributo intellettuale di tanti pensatori, diventava realtà.
L’idea d’Italia da Dante ai padri del Risorgimento
Dante riconosceva il ruolo della Monarchia Universale, quale istituzione garante della pace tra i popoli, ma aveva chiara l’idea di un’Italia, che nel contesto imperiale fosse il Giardino dell’Impero. Sennonché, quell’Italia, che era stata donna di province e  faro di civiltà per l’Europa, languiva abbandonata al suo destino dagli imperatori tedeschi e lacerata dalla lotte interne alle singole città. L’apostrofe del canto VI del Purgatorio esprime l’indignazione dell’esule che sognava di vivere in un paese unificato dalle virtù e dal diritto: Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta/ non donna di provincie, ma bordello!
L’universalismo politico, presente nel pensiero di Dante, scompare  nella concezione politica del Petrarca. Se l’Alighieri aveva sognato un mondo pacificato dalla leale collaborazione tra Papato e Impero, il Petrarca, a distanza di una generazione, si rifugiava nel sogno di una Roma repubblicana e di un’Italia che, finalmente memore della sua tradizione, liberasse il suo suolo dalla tedesca rabbia. Non era ancora l’idea di un’Italia intesa come Stato-nazione, ma di certo l’esortazione dell’Aretino suonava come un vibrante appello alla concordia di tutti gli Italiani e rimarcava il senso di identità di un popolo che doveva trovare il suo punto di forza storico e morale nel retaggio della civiltà latina: Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno/ a le piaghe mortali/ che nel bel corpo tuo sì speso veggio,/ piacemi almen che miei sospir‘ sian quali/ spera ‘l Tevere et l’Arno,/ e ‘l Po, dove doglioso et grave or seggio …
Da questo celeberrimo testo poetico il Machiavelli trasse più tardi i versi che chiudono il suo trattato Il Principe: Vertù contra furore/ prenderà l’arme, et fia ‘l combatter corto:/ché l’antiquo valore/ ne l’italici cor non è anchor morto. Il Segretario fiorentino, dinanzi alle gravi carenze politiche e militari dell’Italia, che Carlo VIII aveva potuto conquistare col gesso,  auspicava la nascita di un grande principato che avesse la forza di arginare l’alluvione degli eserciti stranieri, ed impedire che  l’Italia fosse considerata  terreno di lotta e di conquista. La generosa utopia del fondatore della scienza politica trovava nello scetticismo di F. Guicciardini un’impietosa sconfitta, laddove alla generosa virtù si contrapponeva l’arido particolare. Tuttavia, anche durante il potere egemonico della monarchia spagnola, dipinto a tinte fosche qualche secolo dopo dal Manzoni nel suo capolavoro, il sentimento di forte identità e di rifiuto di ogni tirannide continuava a sopravvivere nelle menti e nei cuori di molti italiani. La penna, prima ancora delle armi, continuava ad indicare agli spiriti eletti il percorso da seguire e a mantenere viva l’idea di libertà e di dignità di un popolo. Ne sono una valida testimonianza la passione politica del ferrarese Fulvio Testi, che dedicò a Carlo Emanuele I di Savoia alcune stanze, conosciute col titolo di Pianto d’Italia, indirizzate contro il malgoverno degli Spagnoli; come pure le Filippiche di Alessandro Tassoni, più noto per il suo poema eroicomico la Secchia rapita. Il Tassoni, anch’egli ostile alla politica di Filippo II, fu un ammiratore e un sostenitore della politica antispagnola di Carlo Emanuele I, che definì il più magnanimo principe della sua età. Un tale sentimento antitirannico preannunziava il nuovo clima romantico, destinato a segnare l’opera di Vittorio Alfieri, celebrato da Leopardi  come colui che sulla scena pose guerra ai tiranni. Emulo del grande tragediografo, il  giovane Foscolo dell’Ortis esprimeva sentimenti libertari di tipo alfieriano e nei Sepolcri evocava l’immagine dell’Astigiano come quella di chi irato a’ patri Numi, errava muto/ ove Arno e più deserto, i campi e il cielo/desioso mirando; e poi che nullo/ vivente aspetto gli molcea la cura/ qui posava l’austero; e avea sul volto/ il pallor della morte e la speranza … Nella chiesa di Santa Croce l’Alfieri-Foscolo ritrovava la speranza del riscatto nazionale, confortato dalla memorie di quanti avevano illustrato con le loro opere e il loro genio la patria comune. 
Il Romanticismo italiano si distinse da quello d’oltralpe soprattutto perché si nutrì essenzialmente dei temi patriottici e seppe guardare all’indipendenza e all’unificazione dell’Italia come ad un’unica speranza, da realizzare con metodi, mezzi e procedure diversi. Le tesi di Gioberti e di Rosmini, il pensiero di Mazzini e di Cattaneo, per citare gli intellettuali più insigni del tempo, nutrivano un sogno comune: restituire l’Italia al proprio retaggio e farne una nazione che fosse, come scriveva il Manzoni  nell’ode Marzo 1821, una d’arme, di lingua, d’altare/ di memorie, di sangue e di cor.
Nel 1832 Giuseppe Mazzini, rivolgendosi ai poeti e agli scrittori italiani, ammoniva: Pensate a rinnovare l’edificio intellettuale cogli scritti …, poiché il politico non potete; scotete le menti, … scrivete storie, romanzi, libri di filosofia, giornali letterari, ma sempre con la mente all’intento unico che dobbiamo prefiggerci, col core alla patria … Dissotterrate i documenti delle nostre glorie e delle nostre virtù, ch’oggi dormono nei sepolcri dei nostri grandi; resuscitate colla pittura delle antiche battaglie e degli antichi sacrifici l’antico valore. E il Mazzini non fu vox clamans in deserto, ma l’anima stessa di tanti giovani intellettuali, che scelsero come ufficio speciale della letteratura il promuovere, piuttosto che uno sterile piacere in chi legge, un caldo amore per la patria e le virtù civili … per influire efficacemente al miglioramento morale (S. Pellico). 
Tra i maggiori rappresentanti della poesia patriottica va annoverato G. Berchet, che fu anche il propagatore più acceso delle idee romantiche. Su un piano diverso si colloca tutta la rimanente produzione poetica di ispirazione patriottica che, pur lontana dal valore lirico della poesia del Foscolo, del Leopardi e del Manzoni, tuttavia merita di essere letta e apprezzata per il suo tono sincero e l’ardore patrio  che riesce a trasmettere. Si leggano i versi dell’inno Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli, scritto nell’autunno del 1847 e musicato da Michele Novaro, le liriche di Luigi Mercatini La spigolatrice di Sapri e la Canzone italiana, che il popolo battezzò Inno di Garibaldi, musicato con vibrante enfasi risorgimentale da Alessio Olivieri (Si scopron le tombe/ si levano i morti …); e accanto a queste liriche è d’uopo ricordare la produzione di Arnaldo Fusinato, autore dell’ode patriottica ispirata alla caduta di Venezia nel 1849 (Il morbo infuria/il pan ci manca/ sul ponte sventola/ bandiera bianca),  come pure la poesia sociale di Francesco Dall’Ongaro, rimasto famoso anche per il suo Fornaretto di Venezia e  le Canzoni piemontesi di Angelo Brofferio. Infine, canzone patriottica, amata e cantata soprattutto nell’Italia settentrionale, fu La bella Gigogin, il cui testo popolare fu musicato dal maestro milanese Paolo Giorza nel 1858. Il messaggio della canzone, racchiuso nel ritornello daghela avanti un passo, era rivolto al re Vittorio Emanuele II, affinché facesse un passo avanti nel consolidamento dell’alleanza con Napoleone III di Francia contro gli Austriaci.
La penna, quindi, contribuì insieme con le armi a fare l’Italia e nel tempo seppe diffondere, anche attraverso la scuola, la consapevolezza di appartenere ad una stessa patria  e il senso d’identità di un popolo.
 A cento cinquant’anni dall’unificazione politica, si può dire che l’Italia, agognata da tanti cuori generosi, sia un fatto compiuto ed accettato dalle Alpi a Lampedusa? Oppure occorre far nostro l’appello lanciato recentemente dallo storico inglese Paul Ginsborg nel suo libro Salviamo l’Italia, laddove l’esortazione dello studioso, che ha chiesto la cittadinanza italiana, mira a combattere ogni forma di scetticismo col quale la classe politica si appresta alla celebrazione dell’Unità per una grave carenza delle virtù democratiche?
Oggi un’unica consegna deve attraversare le menti e i cuori di tutti e soprattutto dei giovani: mettere al bando quanti vogliono riportare indietro l’orologio della Storia e vanificare il sacrificio di tanti giovani eroi al fine ultimo di ricondurre il nostro Paese alla condizione di un vulgo disperso che nome non ha.
                                                                                                                                    Antonino Tobia
 

Autore Prof-Greco

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Inserito il 06 Novembre 2010 nella categoria Relazioni svolte