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La penna e la spada

'I valori del Risorgimento italiano e l'impegno per un nuovo Risorgimento europeo': questo il tema sviluppato dal prof. Antonino Tobia al Convegno del Rito Simbolico Italiano

Relatore: Prof. Antonino Tobia

I valori e i protagonisti della costruzione dello Stato Unitario

<_div style="font-family: -apple-system, BlinkMacSystemFont, "Helvetica Neue", "Segoe UI", Arial, sans-serif; font-size: 13px;">Immagine riferita a: La penna e la spadaSono trascorsi 185 anni dal lontano 18 marzo 1861, allorquando a mezzogiorno 101 colpi di cannone annunciarono in tutte le città della Penisola la proclamazione del Regno d’Italia. Un sogno lungo cinque secoli, alimentato dal sacro fuoco della poesia, dal contributo intellettuale di tanti pensatori e dal sangue di numerosi martiri, diventava realtà. Il Risorgimento dava un nome ad un popolo e decretava l’esistenza di una nazione, non più una semplice espressione geografica. Il Risorgimento, che ha segnato i momenti storici dell’unificazione politica italiana, nel corso del XIX secolo, si inseriva nel quadro di una generale tendenza europea alla conquista della libertà politica, dell’indipendenza e dell’unità nazionale, idealità che la rivoluzione francese e l’avvento napoleonico avevano diffuso e che il congresso di Vienna non era riuscito a soffocare. Tali valori trovavano in Italia intellettuali di diverso orientamento culturale, ma con un unico obiettivo, la libertà dallo straniero, l’unità di un popolo. La scuola democratica mazziniana e quella cattolico-liberale, che faceva riferimento a Gioberti e a Rosmini, educarono le coscienze degli Italiani ad aspirare ad una patria libera e  indipendente. Il critico letterario Francesco De Sanctis, di scuola democratica, definì Mazzini 'Il Mosè dell’Unità' nel 1874, a conclusione di un suo ciclo di lezioni sull’apostolo genovese. Da destra lo storico Gioacchino Volpe definì il Risorgimento italiano ' una conquista degli Italiani su se stessi, prima ancora che non sugli stranieri' G. Volpe. In questo convegno, il richiamo alla storia ai profeti e ai padri del Risorgimento appare doveroso, per rispondere alle numerose interpretazioni revisionistiche di tale momento storico, che mirano a scalfire quelle della storiografia risorgimentale consolidata. All’indomani della caduta della monarchia sabauda e del fascismo, che avevano celebrato e difeso il mito risorgimentale, come strumento di unificazione politica, sociale e culturale, si è assistito ad un rigurgito revisionista sui valori e le idealità del Risorgimento. Retrivi richiami meridionalisti filoborbonici si sono collocati negli ultimi decenni sulla scia dell’ottocentesco storico Giacinto de’ Sivo (1814-1867), legittimista convinto, fervente cattolico e suddito fedele del governo borbonico per tradizione familiare. De’ Sivo considerava l’unità d’Italia un’aberrazione storica e un’offesa al disegno divino, che aveva voluto la Penisola divisa per costumi, lingua, stirpi e sistemi politici diversi. Saggi storici, negazionisti dei valori risorgimentali, sono pubblicati in gran numero, intesi ad oscurare tutta l’opera di costruzione dello Stato unitario, a svilire l’azione militare di Garibaldi , colpevole di avere provocato il disfacimento del Mezzogiorno d’Italia e di aver consentito la  colonizzazione del Sud della Penisola da parte degli ingordi Savoia . La nascita della Lega Nord di Bossi tra il 1989 e il 1991, con la stravagante invenzione geopolitica della Padania e il suo programma indipendentista ha ampliato a dismisura il fossato tra nord e sud, provocando il rinfocolarsi di  movimenti autonomisti in Sicilia e una vieta nostalgia dell’amministrazione del governo e della monarchia dei Borboni. Contemporaneamente ha ripreso vigore la vexata quaestio del tradimento dell’Eroe dei Due Mondi, responsabile della distruzione del regno delle Due Sicilie col conseguente depauperamento delle risorge e delle energie del Sud. Per rispondere ai detrattori della storia patria e ai nostalgici del bel mondo borbonico, vale la pena ricordare quanto scrive nel suo saggio del 2010 C’era una volta in Italia, A. Caprarica, di origini meridionali. Lo scrittore-giornalista definisce il Regno delle Due Sicilie un rottame abbandonato dalla storia sulle coste dell’Italia Meridionale, una costruzione statale marcia, corrosa dai tarli dell’inefficienza, dell’arbitrio e della corruzione. Ma sottolinea che anche il Regno di Sardegna era uno Stato povero, schiacciato dalle spese di un esercito sproporzionato rispetto al suo bilancio. La differenza fra le due entità politiche era però abissale sotto il profilo politico e istituzionale. I Borbone, infatti, prima avevano soffocato il rinnovamento illuministico esploso nella rivoluzione del 1799, poi avevano cancellato ogni forma di costituzione e avevano reagito con la forza ad ogni sussulto di rivolta. Carlo Alberto, al contrario, educato in Francia in un clima liberaleggiante, già nel 1820 aveva cominciato ad avere rapporti con i Carbonari, sebbene, salito al trono nel 1831, fosse stato costretto ad assumere una politica antiliberale, sconfessata nel 1848 dalla promulgazione dello Statuto e dalla dichiarazione della guerra all’Austria. Va poi ricordato che i Siciliani per ben tre volte si erano ribellati contro il mal governo borbonico e contro la soppressione delle loro autonomie istituzionali: nel 1820 la rivolta, scoppiata a seguito della soppressione della Costituzione concessa nel 1812, era stata soffocata da Florestano Pepe; nel 1848 la rivoluzione siciliana del 12 gennaio aveva portato alla proclamazione di un nuovo Regno di Sicilia indipendente, con Ruggero Settimo a capo del governo, che sopravvisse fino al maggio del ’49. Anche questo moto insurrezionale fu soffocato nel sangue dalle milizie del generale Gaetano Filangieri e punito con l‘imposizione di un debito pubblico di 29 milioni di ducati. Infine, il 1860 la Sicilia si sollevò al richiamo garibaldino, e fu l’inizio della fine del regno delle Due Sicilie. Va anche sottolineato che il fenomeno del brigantaggio, esploso dopo l’unificazione dal 1861 al 1865, non interessò la Sicilia, ma solo quelle regioni del Meridione, soffocate dalla miseria e sobillate dalla reazione filoborbonica e da alcuni apparati della Chiesa cattolica. Ma al di là degli errori, di certi eccessi nell’amministrare l’ordine pubblico, delle gravi inefficienze nella lotta contro il feudalismo imperante nel Sud, l’unificazione della Penisola ha consentito all’Italia di  registrarsi nel novero delle nazioni europee e di dare una esatta spiegazione semantica del Risorgimento. L’Italia col 1861 risorge nel senso che rinasce ribattezzata come nazione e popolo su quanto già esisteva nella lingua, nella cultura e nel comune sentire di tanti intellettuali, di cui è doveroso fare una rapida rassegna.   Dante riconosceva il ruolo della Monarchia Universale, quale istituzione garante della pace tra i popoli, ma aveva chiara l’idea di un’Italia, che nel contesto imperiale fosse il Giardino dell’Impero. Sennonché, quell’Italia, che era stata donna di province e  faro di civiltà per l’Europa, languiva abbandonata al suo destino dagli imperatori tedeschi e lacerata dalla lotte interne alle singole città. L’apostrofe del canto VI del Purgatorio esprime l’indignazione dell’esule che sognava di vivere in un paese unificato dalle virtù e dal diritto: Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta/ non donna di provincie, ma bordello! L’universalismo politico, presente nel pensiero di Dante, scompare  nella concezione politica del Petrarca. Se l’Alighieri aveva sognato un mondo pacificato dalla leale collaborazione tra Papato e Impero, il Petrarca, a distanza di una generazione, si rifugiava nel sogno di una Roma repubblicana e di un’Italia che, finalmente memore della sua tradizione, liberasse il suo suolo dalla tedesca rabbia. Non era ancora l’idea di un’Italia intesa come Stato-nazione, ma di certo l’esortazione dell’Aretino suonava come un vibrante appello alla concordia di tutti gli Italiani e rimarcava il senso di identità di un popolo che doveva trovare il suo punto di forza storico e morale nel retaggio della civiltà latina: Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno/ a le piaghe mortali/ che nel bel corpo tuo sì speso veggio,/ piacemi almen che miei sospir‘ sian quali/ spera ‘l Tevere et l’Arno,/ e ‘l Po, dove doglioso et grave or seggio … Da questo celeberrimo testo poetico il Machiavelli trasse più tardi i versi che chiudono il suo trattato Il PrincipeVertù contra furore/ prenderà l’arme, et fia ‘l combatter corto:/ché l’antiquo valore/ ne l’italici cor non è anchor morto. Il Segretario fiorentino, dinanzi alle gravi carenze politiche e militari dell’Italia, che Carlo VIII aveva potuto conquistare col gesso nel 1494 ,  auspicava la nascita di un grande principato che avesse la forza di arginare il diluvio degli eserciti stranieri, ed impedire che  l’Italia fosse considerata  terreno di lotta e di conquista. La generosa utopia del fondatore della scienza politica trovava nello scetticismo di F. Guicciardini un’impietosa sconfitta, laddove alla virtù dell’eroe machiavelliano si contrapponeva l’arida discrezione con la ricerca del particolare. Francesco De Sanctis, nel clima risorgimentale ottocentesco, stigmatizzerà l’uomo guicciardiniano, come il responsabile del decadimento morale e politico dell’Italia. Anche durante il potere egemonico della monarchia spagnola, dipinto a tinte fosche qualche secolo dopo dal Manzoni nel suo capolavoro, il sentimento di forte identità e di rifiuto di ogni tirannide continuava a sopravvivere nelle menti e nei cuori di molti italiani. La penna, prima ancora delle armi, continuava ad indicare agli spiriti eletti il percorso da seguire e a mantenere viva l’idea di libertà e di dignità di un popolo. Ne sono una valida testimonianza la passione politica del ferrarese Fulvio Testi, che dedicò a Carlo Emanuele I di Savoia alcune stanze, conosciute col titolo di Pianto d’Italia, indirizzate contro il malgoverno degli Spagnoli; come pure  le Filippiche di Alessandro Tassoni, più noto per il suo poema eroicomico la Secchia rapita. Il Tassoni, anch’egli ostile alla politica di Filippo II, fu un ammiratore e un sostenitore della politica antispagnola di Carlo Emanuele I, che definì il più magnanimo principe della sua età. Un tale sentimento antitirannico preannunziava il nuovo clima romantico, destinato a segnare l’opera di Vittorio Alfieri, celebrato da Leopardi  come colui che sulla scena pose guerra ai tiranni. Emulo del grande tragediografo, il giovane  Foscolo dell’ Ortis esprimeva sentimenti libertari di spirito alfieriano e nei Sepolcri evocava l’immagine dell’Astigiano come quella di chi irato a’ patri Numi, errava muto/ ove Arno e più deserto, i campi e il cielo/desioso mirando; e poi che nullo/ vivente aspetto gli molcea la cura/ qui posava l’austero; e avea sul volto/ il pallor della morte e la speranza … Nella chiesa di Santa Croce l’Alfieri-Foscolo ritrovava la speranza del riscatto nazionale, confortato dalla memorie di quanti avevano illustrato con le loro opere e il loro genio la patria comune.  Il Romanticismo italiano si distinse da quello d’oltralpe soprattutto perché si nutrì essenzialmente dei temi patriottici e seppe guardare all’indipendenza e all’unificazione dell’Italia come ad un’unica speranza, da realizzare con metodi, mezzi e procedure diversi. Le tesi di Gioberti e di Rosmini, il pensiero di Mazzini e di Cattaneo, per citare gli intellettuali più insigni del tempo, nutrivano un sogno comune: restituire l’Italia al proprio retaggio e farne una nazione che fosse, come scriveva il Manzoni  nell’ode Marzo 1821, una d’arme, di lingua, d’altare/ di memorie, di sangue e di cor. Nel 1832 Giuseppe Mazzini, rivolgendosi ai poeti e agli scrittori italiani, ammoniva: Pensate a rinnovare l’edificio intellettuale cogli scritti …, poiché il politico non potete; scotete le menti, … scrivete storie, romanzi, libri di filosofia, giornali letterari, ma sempre con la mente all’intento unico che dobbiamo prefiggerci, col core alla patria … Dissotterrate i documenti delle nostre glorie e delle nostre virtù, ch’oggi dormono nei sepolcri dei nostri grandi; resuscitate colla pittura delle antiche battaglie e degli antichi sacrifici l’antico valore. E il Mazzini non fu vox clamans in deserto, ma l’anima stessa di tanti giovani intellettuali, che scelsero come ufficio speciale della letteratura il promuovere, piuttosto che uno sterile piacere in chi legge, un caldo amore per la patria e le virtù civili … per influire efficacemente al miglioramento morale (S. Pellico). Tra i maggiori rappresentanti della poesia patriottica va annoverato G. Berchet, che fu anche il propagatore più acceso delle idee romantiche.Su un piano diverso si colloca tutta la rimanente produzione poetica di ispirazione patriottica che, pur lontana dal valore lirico della poesia del Foscolo, del Leopardi e del Manzoni, tuttavia merita di essere letta e apprezzata per il suo tono sincero e l’ardore patrio  che riesce a trasmettere. Si leggano i versi dell’inno Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli, scritto nell’autunno del 1847 e musicato da Michele Novaro, le liriche di Luigi Mercantini La spigolatrice di Sapri e la Canzone italiana, che il popolo battezzò Inno di Garibaldi, musicato con vibrante enfasi risorgimentale da Alessio Olivieri ( Si scopron le tombe/ si levano i morti …); e accanto a queste liriche è d’uopo ricordare la produzione di Arnaldo Fusinato, autore dell’ode patriottica ispirata alla caduta di Venezia nel 1849 ( Il morbo infuria/il pan ci manca/ sul ponte sventola/ bandiera bianca),  come pure la poesia sociale di Francesco Dall’Ongaro, rimasto famoso anche per il suo Fornaretto di Venezia e  le Canzoni piemontesi di Angelo Brofferio. Infine, canzone patriottica, amata e cantata soprattutto nell’Italia settentrionale, fu La bella Gigogin, il cui testo popolare fu musicato dal maestro milanese Paolo Giorza nel 1858. Il messaggio della canzone, racchiuso nel ritornello daghela avanti un passo, era rivolto al re Vittorio Emanuele II, affinché facesse un passo avanti nel consolidamento dell’alleanza con Napoleone III di Francia contro gli Austriaci. La penna, quindi, contribuì insieme con le armi a fare l’Italia e nel tempo seppe diffondere, anche attraverso la scuola, la consapevolezza di appartenere ad una stessa patria  e il senso d’identità di un popolo.  A cento cinquantotto anni dall’unificazione politica, si può dire che l’Italia, agognata da tanti cuori generosi, sia un fatto compiuto ed accettato dalle Alpi a Lampedusa? Oppure, dobbiamo temere che le forze retrive, nemiche dell’unità nazionale, indirizzate ad un egoistico regionalismo o un antistorico revisionismo possano cancellare secoli di fede patriottica con i suoi valori di libertà, di giustizia, di apertura dei confini e di partecipazione al consorzio delle nazioni, in una visione umana ed ecumenica della storia. E per riuscire in questo nostro intento, noi che ci sentiamo cittadini di una patria nobile per virtù, arte e umanità, dobbiamo vincere ogni forma di arrendevolezza al nemico e ogni atteggiamento dettato dallo scetticismo, sapendo scegliere con oculatezza gli uomini cui affidare il governo del nostro Paese, affinché l’Italia possa risorgere, lo ha sognato Dante molti secoli fa, come il giardino dell’Impero, oggi Unione Europea. Oggi un’unica consegna deve attraversare le menti e i cuori di tutti e soprattutto dei giovani: mettere al bando quanti vogliono riportare indietro l’orologio della Storia e vanificare il sacrificio di tanti giovani eroi al fine ultimo di ricondurre il nostro Paese alla condizione di un vulgo disperso che nome non ha. Un solo modo esiste per non tornare indietro alla barbarie dei nazionalismi, che hanno insanguinato la prima metà del secolo scorso. Si tratta di guardare al Risorgimento europeo, che passa attraverso la costituzione degli Stati federali europei. Se Mazzini fu il profeta dell’Italia unita, Altiero Spinelli col Manifesto di Ventotene ha tracciato il solco per il nuovo Risorgimento europeo. Il cammino è lento, ma è nel solco della storia e non può deviare.-  prof. Antonino Tobia Trapani, 14.XII.2019 

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Inserito il 14 Dicembre 2019 nella categoria Relazioni svolte