Antonino Tobia ha trattato il tema della felicità nei suoi diversi aspetti ascetici ed edonistici in una lunga carrellata storica e mitologica
Relatore: Prof: Antonino Tobia - Letterato
La ricerca della felicità oggi è sentita come un’esigenza globale ed individuale, sopraffatti come siamo dall’angoscia di un olocausto atomico, dalla nostra impotenza dinanzi alle imprevedibili catastrofi naturali, o dalla paura di una completa distruzione dell’edificio economico, sociale, culturale del mondo civile che abbiamo edificato e dal ritorno alla barbarie, attraverso uno dei tanti ricorsi storici.
Pertanto, la domanda corrente è se l’uomo possa raggiungere la felicità, e quindi se sia stato mai felice e soprattutto come questo stato d’animo sia stato concepito nel tempo: se come un’aspirazione ascetica, se come la ricerca di una dimensione edonistica, oppure se vissuto come la nostalgia di un eden lontano. A questa domanda ne segue un’altra: si può educare alla felicità?
L’etimologia fa derivare il lessema felicità dal latino: felicitas, la cui radice "fe-" indica abbondanza, ricchezza, prosperità, sicché si può notare la presenza della medesima radice in aggettivi come fecondo, fertile, ferace. In questo senso, la felicità potrebbe essere considerata lo stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri. Una tale conclusione farebbe pensare che essa, pur essendo una meta difficile da raggiungere, sia tuttavia possibile conquistarla.
Ma come e con quali mezzi?
La felicità è stata nel corso dei secoli oggetto di studio di varie dottrine etiche eudemonistiche (dal greco eudaimonìa, termine greco che indica la "felicità').
Adamo ed Eva si suppone fossero felici, non mancando di niente, privi di ogni dolore e del labor vitae, in virtù della dimensione edenica in cui il Padre li aveva collocati. Ma il desiderio di conoscenza, che travalicava il limite imposto dal Creatore, li espose alla precarietà fisica e all’infelicità dell’anima. Da quell’infausto momento, l’uomo delle Sacre scritture anela a riconquistare la perfezione perduta e aspira alla felicità con struggente nostalgia. Il messaggio biblico, infatti, identifica la felicità con la virtù perduta da riconquistare. Gli Ebrei attendono da 4000 anni il Messia redentore, di cui conservano una concezione temporalistica e nazionalistica: il Messia verrà ad istaurare il regno della pace per 1000 anni e ha scelto il popolo d’Israele come la nazione eletta. Il Cristianesimo, invece, ha ritrovato la ricostituzione dell’alleanza tra Dio e l’uomo attraverso Cristo, Dio-uomo, che ha tracciato la via della salvezza e riaperto le porte del Paradiso con il suo sacrificio. Il Paradiso, come il regno della felicità eterna, non è un’utopia per i credenti, ma un atto di fede nella bontà divina. Tuttavia, il Cristianesimo, soprattutto dopo la Riforma di Lutero, si è profondamente diviso sui modi e i mezzi di cui l’uomo può disporre per riconquistare la felicità: secondo i cattolici l’impegno personale, la preghiera, il pentimento e l’esercizio delle virtù teologali della fede, della speranza e della carità, unite alle virtù cardinali della sapienza, della giustizia, della fortezza, e della temperanza consentono a ciascuno di partecipare della grazia di Dio (a tutti i figli d’Eva nel suo dolor pensò A. Manzoni, La Pentecoste). I Luterani oppongono al libero arbitrio dei Cattolici il servo arbitrio, che implica il concetto della predestinazione ab aeterno, per cui l’uomo può salvarsi solo se Dio lo ha predestinato alla grazia.
Il mito greco faceva coincidere la felicità con la ricerca della verità. In tal senso, l’atto di disubbidienza di Adamo appare speculare all’intrepida azione di Prometeo, che rubò di nascosto il fuoco agli dei per donarlo agli uomini. In entrambi i casi, la ricerca del sapere produsse sofferenza e dolore, ma consegnò all’uomo le chiavi della sua consapevole crescita materiale e spirituale. Se dopo trent’anni Zeus fu mosso a pietà dalle atroci sofferenze cui aveva condannato il rapitore del fuoco divino, accogliendolo immortale nei Campi Elisi, anche il Dio del Nuovo Testamento, facendosi uomo, volle provare fino in fondo le pene dell’umanità per riscattarla dal peccato originale. Il politeismo greco, tuttavia, non solo non è affetto dal senso della colpa e del peccato, ma attribuisce agli dei pregi e difetti, umanizzando il divino e divinizzando l’umano. Al di sopra del pantheon greco e dello stesso padre degli uomini e degli dei stava inesorabile il Fato, il dio più antico, generato dalla Notte senza il concorso di altre divinità. Neppure i Numi potevano sottrarsi a ciò che il Fato aveva stabilito e ordinato alle Moire, le Parche nella religione dei Romani, che presiedevano all’intero corso della vita umana.
La poesia greca è sensibile al tema della felicità : in OMERO (IX sec. a. C.) ed ESIODO (VIII – VII sec. a. C.) la felicità coincide con la virtù, di cui sono garanti gli dei. La virtù omerica corrisponde a quella che sarà la virtus dei Romani, espressione del vigore, del coraggio, dell’eccellenza dell’individuo. Achille ed Ettore raggiungono la felicità attraverso l’eroismo, combattendo per una causa giusta e quindi ben accetta agli dei : Achille per vendicare la morte dell’amico Patroclo, Ettore in difesa della sua patria. Di contro, gli dei puniscono con l’infelicità l’ingiusto, l’inetto e il codardo. Ulisse raggiunge la sua felicità dopo essere approdato nella sua Itaca ed avere riconquistato i suoi affetti familiari. Ma, anche gli eroi dei poemi omerici riconoscono la precarietà dell’esistenza umana, che difficilmente consente all’uomo di raggiungere la felicità: 'nulla è più misero dell’uomo, fra tutti gli esseri che respirano e che camminano sulla terra' , scrive Omero nell’Iliade (XVII 446 s.) , e nell’Odissea la fragilità umana è ribadita: 'gli uomini sono creature effimere' (XVIII 130) e non sfuggono la morte gloriosa: ' … Ormai m’ha raggiunto la Moira. / Ebbene non senza lotta, non senza gloria morrò, / ma avendo compiuto qualcosa di grande, che anche i futuri lo sappiano' (Il. XXII 303-304). Con queste parole Ettore si avvia alla morte per mano di Achille, convinto che non tutto morirà.
In Esiodo, la felicità consiste nella giustizia e nel lavoro produttivo di ricchezza. La società descritta da Esiodo nel suo poema Opere e Giorni si allontana dalla aristocrazia eroica della poesia omerica. La ricchezza degli aristocratici, anzi, è considerata frutto dell’usurpazione e dello sfruttamento delle plebi contadine. L’eroismo omerico cede il passo al lavoro e alla giustizia. In questo contesto acquista forza particolare la lode della misura e della modestia. La vita non è un’agevole passeggiata, perché gli dei hanno celato agli uomini ciò che potrebbe renderli felici. Grazie al lavoro, però, l’uomo può rimediare alle asprezze della vita, forgiando il mondo con le sue mani : 'lavoro non è vergogna, ozio è vergogna' (O. G. 311); ' aggiungi lavoro a lavoro' (382).
A Mimnermo (VII sec. a. C.) la vita appare sostanzialmente dolorosa e l’unico piacere è quello che viene dall’eros. Perciò, la felicità coincide con la giovinezza: 'Per poco tempo, come un sogno dura la preziosa giovinezza e subito incombe sul capo la penosa e deforme vecchiaia, odiosa e disprezzata, che assedia l’uomo da ogni parte, gli danneggia occhi e mente, rendendolo irriconoscibile'. Si tratta di una concezione amara dell’esistenza, dove l’eros si identifica con la soddisfazione fisica di un attimo, su cui incombe inevitabile la vecchiaia, l’angoscia del decadimento fisico e psichico. ' Che vita mai, che gioia c’è più/ se non mi è daccanto Afrodite…/ venga la morte, se un giorno mi sarà negato/ affetto e piacere squisito d’amore: fiori di giovinezza, ingordamente cercati,/ per gli uomini e per le donne …/ Quanta pena ha dato un dio alla vecchiaia'. Infatti, 'al modo delle foglie che nel tempo/ fiorito della primavera nascono/ e ai raggi del sole rapide crescono, noi simili a quelle per un attimo/ abbiamo diletto del fiore dell’età/ ignorando il bene e il male per dono dei Celesti'.
Pure Alceo e Saffo, nell’ambito della lirica greca, inseguono la felicità attraverso il piacere del simposio l’uno [1], l’ebrezza dell’amore sensuale l’altra[2]. Ma si tratta pur sempre di una felicità occasionale, momentanea, non certo duratura, che coincide con la passione dionisiaca o afrodisiaca. Tale piacere senza freni e inibizioni non crea una condizione di vita beata, quella che, per usare un termine dantesco, fa trasumanar, nel senso di superare i limiti sensoriali dell’uomo, anzi si svolge completamente nella sfera dei sensi: ' O mia Afrodite … ti supplico, non forzare l’anima mia con affanni né con dolore … liberami dai tormenti, / avvenga ciò che la mia anima vuole./ Aiutami, Afrodite'.
La felicità e l’affermarsi della ricerca filosofica
La ricerca della felicità attraverso il logos e non attraverso i sensi comincia con Socrate (469-399 a. C.). Il filosofo greco considera la felicità oggetto del sapere, sinonimo di virtù. La virtù e la felicità si possono raggiungere attraverso la conoscenza, cioè attraverso la ragione, che svolge quindi una funzione etica e gnoseologica e libera dalle false certezze. L’uomo che conosce il Bene, nel suo valore universale, lo segue, perché l’anima nel bene trova la sua massima felicità, la più completa soddisfazione (eudemonismo)[3].
Platone, discepolo di Socrate, segue il pensiero del maestro: ' l’uomo che si è applicato allo studio della scienza e alla ricerca della verità, se la raggiunge, è sopra tutti felice, perché in grado di elaborare pensieri immortali e divini"(Timeo 90b-c). La felicità intesa da Socrate e Platone rappresenta il fine ultimo dell’azione morale e virtuosa. Siamo nell’ambito dell’eudemonismo, diverso dall’edonismo, che pone la felicità nell’edoné, cioè nella sensazione effimera del piacere. La felicità è armonia e questa deriva dalla giustizia. L’educazione e il comunismo sono i due sistemi che garantiscono la stabilità dello Stato. La prima è rivolta a tutti i giovani a spese dell’erario pubblico, attraverso un’opportuna selezione meritocratica. Il comunismo crea lo Stato ideale, sopprimendo radicalmente la ricchezza individuale, vietando ai governanti di possedere beni e di avere famiglia. Se lo Stato presenta un ordine buono e giusto, anche l’uomo può divenire buono.
Ma, per sapere che cosa appaghi l’uomo, bisogna sapere che cosa è l’uomo. Platone, ispirandosi ai miti orfici, identifica l’essere umano con una realtà spirituale, l’anima, eterogenea rispetto al corpo. I desideri del corpo sono, quindi, ben diversi dai desideri dell’anima. Questa, essendo immortale, aspira al Bene in sé, immateriale ed eterno, e trova in esso la sua felicità: "le persone felici sono felici perché posseggono il bene"(Simposio 205a) e sentono il corpo come un ostacolo alla propria vera realizzazione. Da ciò la diffidenza nei confronti dei piaceri sensibili, che legano l’anima al corpo e le impediscono di elevarsi al mondo spirituale. La vera felicità è nell’aldilà. L’anima, con la morte, si libera dalla prigione corporea. E’ questa la prospettiva prevalente nel Fedone: "fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato ciò che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità"(66b). Se la vera vita è quella dell’aldilà, ciò implica un distacco dal mondo sensibile e dalla storia terrena.
Ma, distacco non significa disimpegno: al contrario, per prepararsi alla vita dell’aldilà bisogna che l’uomo metta ordine dentro di sé, per mettere ordine nel mondo in cui vive. Da qui l’idea di creare un modello di Stato ideale, perché l’uomo non può essere giusto e felice se lo Stato non è giusto e felice. L’uomo ideale è il re-filosofo: "l’uomo migliore o più giusto è il più felice, e questi è il più regale, e re di se stesso"(Rep IX 580c). Platone ritiene che la giustizia in sé è il bene supremo per l’anima, e va praticata a qualunque costo.
Una visione aristocratica
L’ideale del filosofo regale non si adatta però, secondo Platone, a tutti gli uomini ma solo ad un’élite. Se il filosofo deve farsi carico del governo nell’interesse della collettività, la massa, incapace di elevarsi alla contemplazione e di partecipare alla gestione del potere, ha solo il compito di obbedire. La vera felicità, quella della contemplazione, è riservata alla minoranza dei governanti-filosofi. Una condizione di inferiorità non può risultare certo gradita ai più; per farla accettare Platone pensa, perciò, che i governanti possano ricorrere anche alla ‘nobile menzogna’: "voi cittadini siete tutti fratelli, ma la divinità, mentre vi plasmava, ai governanti mescolò dell’oro, ai guerrieri argento, ferro e bronzo agli agricoltori e agli altri artigiani"(Rep III 415a). In effetti Platone non ha molta stima degli uomini così come sono: nel Fedone si diverte ad immaginare che gli uomini sensuali assumeranno, reincarnandosi, la forma di asini, i violenti e collerici di lupi, i buoni borghesi di api o formiche…(cfr. 81e-82b). Si capisce, quindi, che la massa incapace di usare la ragione debba essere governata anche con l’inganno: "se c’è qualcuno che ha diritto di dire il falso, questi sono i governanti, per ingannare nemici o concittadini nell’interesse dello stato"(Rep III 389b).
‘Utili menzogne’ e ‘parole incantatrici’ appaiono mezzi necessari "per far compiere a tutti tutte le cose giuste, non con la forza ma spontaneamente"(Le leggi II 663e). A tal fine ha un valore insostituibile la tradizione religiosa, e perciò Platone vorrebbe rafforzare l’autorità di Delfi: "le norme che riguardano la religione in tutti gli aspetti si traggano dall’oracolo di Delfi e si usino dopo aver disposto degli interpreti ufficiali di queste"(Le leggi VI 759c). Ciò non significa che Platone "credesse nella effettiva ispirazione della Pizia; mi sembra che verso Delfi il suo atteggiamento fosse piuttosto quello che certi settori politici del mondo cattolico dei giorni nostri mantengono nei confronti del Vaticano: egli vedeva Delfi come una grande potenza conservatrice, cui doveva essere affidato il compito di stabilizzare la tradizione religiosa greca, tenendo a freno sia il dilagare del materialismo, sia lo sviluppo di deviazioni all’interno della tradizione stessa"(E. R. DODDS, I Greci e l’irrazionale, Firenze 1986, p 252, pp. 273-274). Se qualcuno, poi, osa mettere in discussione le verità su cui si fonda lo Stato deve essere punito, anche con la morte, da un Consiglio notturno, "dotato della pienezza della virtù"(Le leggi XII 962d), cui è affidata la custodia dell’ortodossia e che anticipa i Tribunali dell’Inquisizione e i processi del ’900 contro gli intellettuali deviazionisti. Il quadro, per tanti versi esaltante, della felicità del re-filosofo non è dunque privo di ombre!
Senza fare ricorso al mondo della trascendenza, Aristotele considera la felicità il frutto di una buona amministrazione di sé e delle proprie passioni, il che aiuta l’individuo a realizzare le sue potenzialità; perciò per l’uomo, che è animale razionale, il bene consiste nella soddisfazione delle proprie aspirazioni con l’aiuto della ragione. Ciò procura la felicità (eudemonismo), cui contribuiscono anche i beni materiali, la salute, gli onori, la ricchezza e anche il piacere sensoriale.
Ad Aristippo di Cirene, discepolo di Socrate, viene attribuita la dottrina dell’edonismo, che identifica il bene con il piacere, convinto che la felicità consista nella ricerca del piacere temperato dalla ragione: l’uomo deve controllare il piacere in modo da possederlo e non essere posseduto. È ottima cosa non astenersi dal piacere, ma non lasciarsene dominare.
Tuttavia, l’edonismo, con una notevole dose di superficialità, viene identificato con il pensiero di Epicuro (341-270 a. C.). Seguace dell’atomista Democrito nella concezione della natura, Epicuro istituì ad Atene un importante centro culturale, chiamato giardino. A differenza dell’edonista, che cerca la soddisfazione immediata e occasionale dei suoi desideri, per trarne la maggiore soddisfazione, Epicuro, pur non condannando il piacere, ha un concetto molto più elevato della felicità, che ogni uomo, vecchio o giovane, può raggiungere allontanando da sé il dolore fisico (aponia) e conquistando uno stato di atarassia, cioè di tranquillità e di libertà interiore, unita alla fermezza d’animo e al dominio delle passioni. Per il raggiungimento dell’aponia e dell’atarassia, Epicuro classifica i piaceri in tre grandi categorie:
"Naturali e necessari", come il mangiare moderatamente quando si ha fame, bere ragionevolmente quando si ha sete e riposare quando si è stanchi. Sono piaceri naturali e necessari tutti quelli legati alla conservazione della vita dell’individuo.
"Naturali ma non necessari" come: l’abbondanza, il lusso, case enormi oltre il necessario, cibi raffinati e tutte le variazioni superflue dei piaceri naturali.
"Non naturali e non necessari", come il successo, il potere, la gloria, la fama, nati dalle 'vane opinioni degli uomini'.
Gli unici piaceri che vanno soddisfatti sono quelli del primo gruppo perché, se gustati con misura, eliminano il dolore sia fisico sia spirituale. Si cade nell’errore, quindi, ogni qual volta viene definito 'epicureo' uno sfrenato edonista, che intende la vita solo come soddisfazione dei piaceri sensoriali senza alcun limite. Felice è colui che è 'contento', cioè 'contenuto' nei suoi desideri.
Soddisfare i piaceri naturali e necessari è molto importante per la felicità, mentre inseguire i piaceri naturali ma non necessari può richiedere un sacrificio eccessivo. Infine, i piaceri non naturali e non necessari sono nella stragrande maggioranza dei casi fonte di infelicità. Secondo Epicuro, quindi, bisogna ridurre i piaceri ad un primo nucleo essenziale, che possiamo procurarci da noi stessi: l’autarchia, cioè bastare a noi stessi, rappresenta la più grande ricchezza e felicità. Il pensatore epicureo cessa di essere il polités, impegnato nella vita civile e politica, tipico della concezione classica del pensiero greco da Platone ad Aristotele. Anzi Epicuro consiglia ai suoi discepoli di 'vivere nascosti', e di liberarsi 'dal carcere delle occupazioni quotidiane e della politica'. L’unico legame ammesso è quello dell’amicizia, perché essa non viene imposta e non limita l’intimità dell’individuo. 'Di tutte le cose che la sapienza procura per raggiungere la felicità, il bene supremo è l’acquisto dell’amicizia', che in un primo momento è legata all’utile che da essa possa derivare, ma in un secondo momento, quando l’amico si avverte come un altro se stesso, l’utile viene sublimato e l’amicizia diventa fonte di piacere. Epicuro ha dunque fornito agli uomini il quadruplice rimedio, il cosiddetto quadrifarmaco, per essere felici:
Non bisogna temere né gli dei né l’aldilà
Non bisogna avere paura della morte, perché al suo sopravvenire noi non sentiamo più nulla a seguito della dissoluzione degli atomi che compongono il corpo e l’anima
Il piacere, quello necessario e naturale, è a disposizione di tutti
Il male, quando è di breve durata e sopportabile non offusca le gioie dell’animo; diversamente conduce presto alla morte
Epicuro, mentre era tormentato dagli spasimi del male, in punto di morte scriveva ad un amico per l’estremo saluto, proclamando, coerentemente a come era vissuto, che la vita del saggio è dolce e felice. Epicuro ha così concepito una sorta di 'deontologia del piacere', un’etica che aiuti a trarre miglior profitto dall’esistenza. In questo senso l’atarassia confina con l’ascesi ed ha molto in comune con il nirvana dei Buddisti.
Ma una tale concezione della felicità, che si basa sull’assenza di turbamenti e richiede l’allontanamento dei piaceri non strettamente necessari, può bastare?
Il poeta latino Orazio amava definirsi un 'porco del gregge di Epicuro' e in tal senso non volle assumere incarichi pubblici né inseguire ambiziosi sogni di gloria che gli impedissero di vivere appartato, contento di legare la sua felicità al ne quid nimis come regola morale e alla poesia come l’unica arte da coltivare. Non esiste una felicità uguale per tutti e perciò oggettiva. 'Carpe diem' è il consiglio che Orazio dava alla sua Leuconoe, invitandola a godere la vita attimo per attimo e a non curarsi del futuro. Orazio legava la felicità ad un modus vivendi tutto immanente. Tuttavia, l’individualismo epicureo non può essere considerato la chiave della felicità. Lucrezio (99-55 a. C.), che si professò sacerdote di Epicuro, non raggiunse l’acme della felicità sotto la guida dei precetti del suo maestro, se il suo animo era frequentemente sconvolto da forme di allucinazione e la sua psiche turbata a tal punto da indurlo a darsi la morte con un poculum amatorium, se dobbiamo credere a quanto ci ha tramandato san Girolamo. È vero anche che Lucrezio intravvedeva nell’eros (Venere) non la momentanea soddisfazione dei sensi, bensì l’antidoto alle guerre civili (Marte), che da anni insanguinavano Roma, come si può leggere nell’invocazione a Venere del De rerum natura. Eros, quindi, come richiamo ad una pax tranquilla et placida, capace di sostituire la cultura della violenza imperante a Roma nel I° secolo a. C. .
Dopo secoli di lotta e di condanna del pensiero epicureo ad opera della Chiesa, esso riappare qua e là in coincidenza con la rinascita della cultura umanistico-rinascimentale. È presente nell’opera apparentemente burlesca di F. Rabelais (1494-1553), Gargantua e Pantagruel, in cui il dotto frate benedettino, mentre conduce una satira vivacissima contro la pedanteria scolastica e l’ipocrisia del clero, esalta di contro le gioie materiali ed intellettuali e la libertà dello spirito. Alla setta degli epicurei si potrebbero associare Luigi Pulci, autore del Morgante maggiore e Ludovico Ariosto che nelle Satire, oltre che nell’universo del suo poema, sembra attingere alla concezione esistenziale di un sincero epicureo. L’epicureismo fu combattuto aspramente dalla Chiesa cattolica, che ne svilì il messaggio etico, camuffandone i connotati e facendolo apparire come la filosofia che dava la stura a tutte le passioni, protesa all’inseguimento del piacere. Con questa accezione l’aggettivo epicureo si diffuse nello spazio e nel tempo. Ne è prova un nuovo ristorante aperto a Parigi nel 1977, che porta l’insegna 'L’Epicureo', sinonimo ormai di gaudente, buontempone, viveurs.
Al materialismo epicureo si oppose il pensiero degli Stoici. Lo Stoicismo o 'scuola del portico' (gr. Stoa) fu fondato ad Atene da Zenone di Cizio (334-262). Mentre per gli Epicurei gli dei non si occupano delle vicende umane, gli Stoici sostengono che tutti gli avvenimenti sono regolati dal Logos. Pertanto, la felicità si raggiunge vivendo secondo natura e, accettando con distacco e con rassegnazione la legge che regola il rinnovamento periodico del cosmo. 'Sustine et abstine': sopporta e astieniti, bisogna contentarsi e subire. La felicità per gli Stoici consiste nel distinguere le cose che dipendono da noi da quelle su cui non possiamo intervenire: ad impossibilia nemo tenetur. Ma, laddove lo Stoico possa agire, deve impegnarsi con ogni mezzo per raggiungere l’ideale che si è proposto. All’individualismo epicureo lo Stoicismo contrappone il dovere di esplicare tutta la libertà che il dio ci ha dato. La vita non è fuga dal sociale ma impegno nel sociale, perseguendo un duplice obiettivo. Migliorare se stessi e indirizzare la società sulla via della virtù. Come scrisse Cicerone nel V libro delle Tusculane, la saggezza è di per sé sufficiente per conseguire la felicità. Il suo pensiero, pertanto, si ricollega alla Stoa, è prende come bersaglio l’Epicureismo, come la filosofia che fa coincidere il sommo bene con il piacere. Si tratta di evidente slealtà intellettuale se, com’è vero, per gli epicurei il sommo bene, cioè la felicità, consisteva nell’assenza di ogni turbamento (apatheia). La ricezione dell’epicureismo tra i ceti colti ed elevati di Roma, nota Luciano Canfora, assunse subito le forme del tradizionale fraintendimento (Epicuro maestro di ‘piaceri’, e dunque di mollezza). Ma quello che Cicerone condannava del pensiero epicureo era soprattutto la professione del disimpegno sociale e politico dei giovani seguaci dell’insegnamento epicureo, che contrastava con l’ethos dei ceti dirigenti romani. Da qui la sua riprovazione verso i poeti neoteroi, i poeti nuovi che, incuranti della tradizione, non cantavano la gloria della patria, i valori del civis Romanus, il senso dell’officium e del negotium grazie ai quali nei secoli Roma era diventata caput mundi per la sua organizzazione politica, civile e culturale. Questi, al contrario, professavano un ostentato disimpegno dalla vita politica, preferendo trascorrere la vita nell’otium tra le raffinatezze di un’arte di gusto alessandrino, tra amori, simposi e belle donne. Catullo fu uno di questi bersagli dell’oratore romano. Il poeta veronese cantava l’amore, l’amicizia, analizzava i sentimenti trasferendoli nel mito con tono elegiaco, non partecipava alla corsa agli onori e poteva persino rivolgersi con tono pesantemente ironico al conquistatore delle Gallie e al principe del foro romano, quasi ad affermare il primato della poesia e dell’arte sulla politica. Se partecipò all’impresa militare del generale Caio Memmio in Bitinia, lo fece perché il suo sacculus cominciava a fare le ragnatele, svuotato dalla dispendiosa vita romana.
Uno spessore filosofico-meditativo di indirizzo stoico presenta il pensiero e la condotta di vita dell’unico vero filosofo della civiltà latina: Lucio Anneo Seneca (4 a. C.-65 d. C.). Il filosofo di Cordoba partecipò attivamente alla vita politica come maestro dell’imperatore Nerone, dal quale fu condannato al suicidio, che egli affrontò con stoica fermezza. Seneca avverte fortemente il senso del divino e il suo Dio assume tratti spirituali simili a quelli del messaggio cristiano che stava diffondendosi a Roma. 'Beatus nemo dici potest extra veritatem proiectus', afferma il filosofo. La felicità coincide con la ricerca della verità. Tuttavia, sottolinea Max Pohlenz, studioso del pensiero stoico, mentre per il greco bastava conoscere il bene per attuarlo, per Seneca non basta la conoscenza, occorre la 'volontà' : il 'volere' si distingue nettamente dal 'conoscere' e il volere il bene proprio e degli altri costituisce il fondamento della società, secondo uno spirito di fratellanza e d’amore. Alla conoscenza viene sostituita la 'coscienza' come forza spirituale e morale dell’uomo. 'Nessuno può essere felice senza sanità di spirito, né può essere sano di spirito colui che ricerca cose che gli nuoceranno, scambiandole per cose ottime. Pertanto, è felice chi è dotato di un retto giudizio; è felice chi è contento della sua sorte presente, qualunque essa sia, e ama la condizione in cui si trova' ( De vita beata, VI). Più avanti Seneca aggiunge: 'La virtù è cosa alta, eccelsa e regale, invitta ed infaticabile; il piacere è cosa umile e servile, debole e caduca, il cui posto e domicilio sono i bordelli e le taverne. La virtù tu la incontrerai nel tempio, nel foro, nella curia, eretta di fronte alle mura, pulverulenta, macchiata, con le mani callose; il piacere invece lo troverai più spesso latitante, nascosto tra le tenebre, nelle vicinanze dei bagni, presso le stufe sudatorie, nei locali sporchi che temono il controllo dell’edile… Il sommo bene è immortale … Il piacere (voluptas) viene preso a noia e dopo il primo impeto marcisce'(cit. VII). La felicità, quindi, si sviluppa per Seneca, come per Socrate e Platone, soprattutto in senso intellettuale, in virtù della cultura e della sensibilità dell’individuo.
Il Cristianesimo ereditò molto da Platone nella considerazione del corpo come prigione dell’anima, e dalla Stoa senecana per la fede nella presenza di un Dio in noi e per la concezione provvidenzialistica della storia, compreso il concetto di uguaglianza fra gli uomini. Ma, la diffusione del pensiero cristiano interruppe l’equilibrio tra corpo e anima, mondo terreno e mondo sovrannaturale. Il contemptus mundi implica il disprezzo di tutto ciò che appartiene alla sfera terrena, alle lusinghe del mondo e al piacere dei sensi. La vera e unica felicità consiste per il cristiano medievale nella fuga dalla terra e nella ricerca di Dio attraverso la rinuncia, la penitenza, il martirio. Francesco d’Assisi fu felice di rinunziare all’eredità dei suoi beni terreni e di praticare la povertà evangelica. Dante stesso sorella povertà, sposa di Francesco come 'ignota ricchezza … ben ferace' (Par. XI). Il tema della paupertas cum laetitia è alla base della regola francescana. Gli amanuensi fecero una drastica selezione dei classici latini e greci, trasferendo ai posteri solo le opere che ritenevano indispensabili all’arricchimento della spiritualità e utili alla vita civile, pur considerandone gli autori moralmente manchevoli delle virtù teologali, insegnate da Cristo. Non è un caso che Dante collochi nel Limbo i maggiori autori del mondo antico. Lo studio doveva mirare al raggiungimento della felicità, che per il Cristiano coincide con la visione mistica di Dio: Nulla est homini causa philosophandi nisi ut beatus sit ( Agostino, De civitate Dei XIX, 1.3).
Il rapporto tra la felicità, intesa come soddisfazione derivante dai beni materiali, e la ricchezza è stato studiato da Richard Easterlin, professore di economia presso l’università californiana di Southern. Lo studioso americano nel 1974 redasse il famoso paradosso che prende il suo nome, secondo cui, non solo la ricchezza non crea la felicità, ma più cresce la ricchezza, dopo una certa soglia, più la felicità si riduce. Infatti, l’uomo ricco ha una capacità di godere dei beni poco di più di quello povero, cui l’accomuna la precarietà dell’esistenza. In compenso, il povero ha minori preoccupazioni, vive più serenamente e non conosce l’ansia che affanna il ricco, il quale confesserà alla fine dei suoi giorni di avere inseguito la felicità senza raggiungerla. Easterlin mise in evidenza nella sua ricerca come la felicità, intesa come stato emozionale, dipenda in misura marginale dall’aumentare della ricchezza, prendendo in esame le seguenti relazioni tra:
reddito nazionale (PIL) e felicità: i Paesi più poveri non risultano essere significativamente meno felici di quelli più ricchi.
reddito individuale e felicità delle persone all’interno di un singolo Paese e in un preciso momento.
l’aumento del reddito e la felicità delle persone nel corso della loro vita.
Le conclusioni della ricerca di Easterlin sulla relazione tra l’economia e la felicità mettono in crisi l’impostazione economica dei paesi industrializzati, orientata verso la crescita espressa in PIL. Da qui si deduce che una ciotola di riso, che rappresenta un bisogno primario, può fare la felicità di un abitante del terzo mondo come l’acquisto di una Ferrari (bisogno voluttuario) può generare momentanea felicità nel capitalista di un Paese ricco. Già Cicerone nelle sue Tusculanae disputationes (l.V, 61-62) aveva messo in evidenza la falsa relazione tra potere, ricchezza e felicità, riferendo l’aneddoto della Spada di Damocle, appreso dall’opera a noi non pervenuta dello storico Timeo di Taormina (356-260 a. C.).
Il diritto alla felicità in età moderna
Questo diritto è riconosciuto ad ogni individuo e sancito dalle Costituzioni di tradizione illuministica e liberale, ai cui principi si richiama la Costituzione americana: la felicità è una conquista personale, legata al successo sociale ed economico e finalizzata al soddisfacimento dei propri desideri e delle proprie ambizioni, secondo il principio dell’autodeterminazione individuale. Il liberalismo riduce al massimo l’intervento dello Stato nella sfera individuale. Tale limitazione trova autorevole riscontro nella riflessione di Immanuel Kant: 'Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo, ma ognuno può ricercare la sua felicita per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla liberta degli altri di tendere allo stesso scopo'( E. KANT, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto (a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Torino, 1956, p. 255).
In età romantica, la felicità è vista come un’aspirazione impossibile, una ricerca continua e disperata. La felicità non esiste, è vano ogni tentativo di conquistarla. Secondo Arthur Schopenhauer tutta la realtà è la manifestazione di un unico principio irrazionale: la Volontà infinita ed universale, che si manifesta come istinto di autoconservazione. Tale forza genera il bisogno, e il bisogno il dolore. La Volontà si attua attraverso infiniti desideri, ciascuno dei quali finché non è appagato comporta uno stato di infelicità. Ma appena un desiderio è soddisfatto sorgono altri infiniti desideri, per cui l’infelicità è inesauribile ed eterna. Ma, se l’uomo non è mosso da alcun desiderio cade nella noia che è più terribile del dolore: la vita è, quindi, un pendolo che oscilla fra il dolore e la noia. Anche l’amore è un inganno, perché la Volontà di vivere della specie si serve dell’amore per perpetuare la specie umana. Dinanzi a tanto pessimismo perché Schopenhauer rifiuta il suicidio? Perché il suicidio riguarda solo il singolo individuo mentre la forza della volontà continua lo stesso il suo percorso attraverso tutti gli altri individui.
Tuttavia, il filosofo indica quattro vie d’uscita dal dolore: l’arte, la giustizia, la compassione e l’ascesi. L’arte dà una gioia estetica, perché ci fa dimenticare, anche se per breve tempo, la volontà di vivere mentre contempliamo in maniera disinteressata l’idea dell’oggetto. La giustizia ci aiuta a superare l’egoismo e ci aiuta a essere imparziali. La compassione ci aiuta a sentirci vicini agli altri uomini, in quanto le nostre sofferenze sono anche le loro. Da qui nascono la simpatia ('sentire comune') e l’altruismo. Infine, con l’ascesi l’individuo sostituisce la volontà di vivere con la noluntas, cioè la 'non-Volontà', che consente l’accesso al Nirvana. Con la 'noluntas' l’uomo acquista la sua libertà.
Il De Sanctis nel dialogo Leopardi e Schopenhauer, che diede alle stampe nel 1858, due anni prima che il filosofo tedesco morisse e vent’anni dopo la morte del poeta di Recanati, scrisse:
« Leopardi e Schopenhauer sono una cosa. Quasi nello stesso tempo l’uno creava la metafisica e l’altro la poesia del dolore. Leopardi vedeva il mondo così, e non sapeva il perché. [...] Il perché l’ha trovato Schopenhauer con la scoperta del Wille. »
A Schopenhauer piacque vedersi accostato a Leopardi, che considerava un «fratello spirituale italiano».
L’indagine filosofica di Leopardi parte dalla teoria del piacere (Zibaldone, 165-172, 1820).
Per Leopardi la felicità è il piacere; la vita dell’uomo è una continua corsa verso la conquista della felicità. Il poeta, seguace del pensiero illuministico-sensistico, rifiuta ogni spiritualismo filosofico e religioso. Non si tratta di inseguire 'questo o quel piacere, che risulta finito e circoscritto, bensì di un piacere che non ha limiti né per durata perché … non finisce se non coll’esistenza … né per estensione perché sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere … e l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppure concepire, perché non si può formare idea chiara di una cosa ch’ella desidera illimitata'. Solo attraverso 'la facoltà immaginativa l’uomo può figurarsi dei piaceri che non esistono'. Perciò, conclude il poeta, 'non è maraviglia: 1. che la speranza sia sempre maggiore del bene; 2. Che la felicità umana non possa consistere se non nell’immaginazione e nelle illusioni'. Queste note filosofiche, scritte nel 1820, il poeta le aveva liricamente tradotte nel suo Idillio L’infinito, l’anno precedente (1819) e le fissava negli appunti dello Zibaldone. L’animo umano 's’immagina quello che non vede, che quell’albero , quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario'.
La diagnosi di Schopenhauer sul valore della vita viene ripresa dal filosofo tedesco Friedrich Nietzsche: la vita è dolore, crudeltà, errore, è dominata dal caso, non fornisce alcuna garanzia ai valori umani. Di fronte a questa visione pessimistica dell’esistenza, due sono le possibilità di scelta: rinunziare a vivere o rifugiarsi nel nirvana attraverso una vita ascetica, o ritenere che il senso della vita non stia fuori dall’esistenza, ma nell’essere stesso, in ciò che Nietzsche chiama il divenire 'dionisiaco' delle cose. L’atteggiamento dionisiaco corrisponde all’esaltazione entusiastica della vita in ogni attimo, realizzando in tal modo 'la felicità del circolo'.
Nietzsche, in tal modo, ripropone una concezione pre-cristiana del mondo, presente nella Grecia presocratica e nelle più antiche civiltà indiane, la quale presuppone una visione ciclica del tempo, in opposizione a quella rettilinea del pensiero cristiano, in cui ognuno momento ha senso solo in funzione degli altri. La dottrina cristiana ha come conseguenza la mancanza di felicità, poiché nessun momento vissuto ha in se stesso una pienezza autosufficiente di significato.
Il tipo di uomo capace di vivere come se tutto dovesse ritornare può essere solo un oltre-uomo in
grado di vivere la vita come un gioco creativo e appagante. Così vissero i Greci prima di Socrate e di Platone, che combatterono lo spirito dionisiaco, avviando il popolo greco verso la decadenza. Dioniso è il simbolo dell’affermazione integrale della vita, che trasforma il dolore in gioia, respingendo come indegni dell’uomo tutti i valori fondati sulla rinunzia e tutte le virtù che mortificano l’energia vitale. Alla morale cristiana, considerata la morale degli schiavi, perché improntata ai valori anti-vitali dell’abnegazione, dell’obbedienza e del sacrificio, contrappone la morale del superuomo, che si stacca dal gregge per assaporare l’essenza più vera della vita, privilegiando il corpo sullo spirito e anteponendo l’orgoglio all’umiltà, la sessualità alla castità. Se gli istinti e le passioni non si scaricano all’esterno, afferma N., si rivolgono all’interno, creando l’uomo tormentato proprio della religione cristiana, che vive tutto come peccato e senso di colpa. Il filosofo condanna quindi la morale cristiana, mentre rivela profondo interesse per Cristo, che considera 'un santo anarchico', che lottò fino alla morte contro il potere costituito. 'La Chiesa è esattamente ciò contro cui Gesù ha predicato … la parola Cristianesimo è un equivoco; in fondo è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce'. La terra cessa di essere il temporaneo esilio dell’uomo, ma la sua dimora gioiosa. Come pure è negata l’esistenza di Dio, inventato dagli uomini per fronteggiare il volto caotico della realtà e rassicurare se stessi e i loro figli che il mondo è dominato da una Provvidenza, da un logos che ha disposto ogni cosa in armonia. Ma per reggere la morte di Dio, che provoca un senso di vertigine e di smarrimento, occorre che l’uomo stesso si faccia Dio trasformandosi in superuomo.
Prima di approdare al modello del superuomo, Gabriele D’Annunzio visse la fase dell’estetismo. L’esteta, Andrea Sperelli, protagonista del primo romanzo del D’Annunzio, Il piacere, è ispirato dall’unico principio del bello, mira a modellare la propria vita come un’opera d’arte e rifugge tutto ciò che è comune, borghese e democratico: 'Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione, una certa tradizione familiare di eletta cultura, d’eleganza e di arte'. Sennonché, il piacere che prova l’esteta attraverso la sublimazione dei bisogni erotici e degli impulsi sensuali si rivela una menzogna, molto lontana dalla felicità.
Per concludere
Un saggio sufi, asceta e mistico musulmano, ricevette la visita di un gruppo di pellegrini. Ognuno chiedeva di essere aiutato a risolvere il suo problema esistenziale e a trovare la felicità. Erano ansiosi, litigavano l’un l’altro e ognuno pretendeva di essere ascoltato per primo, perché sosteneva che il suo carico di infelicità era sicuramente più grave di quello degli altri.
Si generò, pertanto, una grande confusione tra alterchi e litigi, finché il saggio non impose a tutti il silenzio e ordinò loro di disporsi in cerchio seduti e di attendere che lui tornasse. Intimoriti, fecero come era stato ordinato.
Dopo poco, il saggio tornò, distribuì a ciascuno carta e penna e in mezzo al cerchio sistemò una piccola cesta di bambù. Chiese, quindi, a ciascuno di scrivere sul foglio il problema più importante che lo assillava. Poi, il foglietto piegato in quattro parti veniva riposto nella cesta. Quando l’operazione fu completata, il saggio iniziò a mescolare i foglietti e, con tranquillità, invitò ciascuno a scegliere a caso un foglietto dalla cesta. Letto il problema, chi lo riteneva meno assillante di quello che lo tormentava, lo facesse proprio. Altrimenti, accettasse il fardello d’infelicità che lo aveva spinto a venire e rimettesse il foglietto nella cesta.
Ciascuno, leggendo i problemi degli altri, rimase terrorizzato e decise che era meglio tenersi il proprio problema. Tutti giunsero, infatti, alla conclusione che il loro peggior problema non era poi così insopportabile quanto il problema di un altro.
In pochi istanti, tutti rimisero il foglietto nella cesta, felici di riprendersi la propria infelicità. Anzi sul viso di ciascuno si stampò presto un sorriso di gratitudine verso il saggio sufi e si congedarono felici della propria condizione.
Antonino Tobia
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[1] 'beviamo: perché attendiamo i lumi?/ il giorno è lungo quanto un dito. Prendi, mio caro, le grandi coppe cesellate/ ricolme del vino che Zeus donò agli uomini, quale oblio dei tormenti … ' Alceo, 98 Diehl
[2] Alcuni affermano che uno stuolo di cavalieri o di fanti sia lo spettacolo più bello da vedere su questa nera terra, altri una flotta di navi. Per me la felicità è data dalla persona che si ama … Saffo, 27 a - Diehl
[3] Nessuno, credendo di poter fare meglio di come agisce, continua a fare male quello che fa. Lasciarsi vincere dalle passioni non è altro che ignoranza … Nessuno di sua volontà va verso il male. Non è nella natura umana il volere andare incontro a quello che si crede male in cambio del bene. Platone, Protagora.
Inserito il 08 Gennaio 2013 nella categoria Relazioni svolte
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