La poesia dell'Odissea è essenzialmente il canto dell'aedo, che si propone di rendere perpetua la gloria degli eroi, ma anche di affascinare gli ascoltatori
1.L’ Odissea è il secondo poema omerico, sebbene già alcuni filologi alessandrini respingessero l’attribuzione ad Omero dell’Odissea. Comunque, fin dai tempi più antichi, la grandezza di Omero è stata considerata inarrivabile, come il poeta superiore a tutti gli altri, 'ineguagliato nella lingua e nel pensiero' (Aristotele), colui che ha insegnato ai poeti l’autentica arte dell’illusione, mantenendosi sullo sfondo e lasciando che i suoi personaggi si rivelassero da sé. Tra le testimonianze antiche su Omero, si trovano notizie curiose nel Certamen Homeri et Hesiodi, un’operetta databile intorno al II secolo d. C., dato che vi è citato l’imperatore Adriano. La nota interessante è che l’autore considera contemporanei Omero ed Esiodo e ci informa che quasi tutte le città greche e le colonie si contendevano il merito di aver dato i natali di Omero. Primi fra tutti, gli abitanti di Smirne affermavano che Omero era nato da Melete, un fiume della loro regione, e dalla ninfa Creteide. Il suo primo nome era stato Melesigene, ma divenuto cieco, ebbe il nuovo nome di Omero, appellativo che a Smirne si attribuiva ai ciechi. Gli abitanti di Colofone sostenevano, di contro, che Omero fosse stato un maestro elementare e che la sua prima opera fosse stata il Margite, un poema comico, di cui restano pochi versi. Margite, il protagonista, è un buono a nulla, che sapeva tante cose, ma tutte male. Qualcuno considera l’opera la parodia dell’Odissea. C’è, poi, chi afferma che gli fu padre Telemaco, il figlio di Ulisse e madre una donna di Itaca, venduta schiava dai Fenici, oppure la figlia di Nestore. In questo caso, Omero avrebbe celebrato nell’Odissea le lodi di suo nonno. L’autore dell’opera Del Sublime, noto come Pseudo-Longino, della metà del I d. C., considera l’Odissea nient’altro che l’epilogo dell’Iliade: l’Iliade fu scritta quando la forza creatrice di Omero era al culmine; al contrari, nell’Odissea, scritta nella vecchiaia, prevale l’elemento narrativo su quello drammatico e la poesia non conserva la tensione dei grandi canti dell’Iliade, sebbene ancora compaiano i riflussi dell’antica grandezza anche in quelle divagazioni favolose e incredibili.
Fin dalla loro composizione, i due poemi, l’Iliade e l’Odissea, furono letti prima in Grecia e poi in tutta Europa. I Romani conobbero l’Odissea grazie a Livio Andronico, un greco originario di Taranto, portato a Roma come prigioniero di guerra, quando la sua città fu conquistata dai Romani (272 a.C.). Fu precettore dei figli di M. Livio Salinatore, da cui prese il nome dopo che fu affrancato. L’Odissea, tradotta in versi saturni, antico metro italico, divenne un testo scolastico, in uso per oltre due secoli. Della traduzione di Livio Andronico restano solo 46 versi. La prima edizione a stampa di Omero fu curata a Firenze nel 1488 dall’ateniese Calcondila, studioso immigrato, che insegnò greco in Italia. L’Odissea, come l’Iliade, è un poema epico diviso in 24 libri. Questa ripartizione è probabile che risalga ad una versione ateniese del testo, dove ciascun libro è indicato con le 24 lettere dell’alfabeto greco. Il testo moderno dell’Odissea è stato redatto dai filologi alessandrini dal III secolo a.C. in poi (Zenodoto, Aristofane di Bisanzio e soprattutto Aristarco di Samotracia, che curò un’edizione critica di Omero). La versione più famosa in lingua italiana è quella di Ippolito Pindemonte, anche se oggi si può leggere in edizioni meno legate al gusto neoclassico-preromantico, tra cui l’edizione curata da Mario Giammarco.
La poesia omerica può essere considerata solo un’invenzione fantastica? La risposta unanime degli studiosi è no. Gli scavi archeologici, intrapresi da Schliemann sulla collina di Hissarlik in Anatolia (1870), hanno individuato la possibile città di Priamo nel settimo strato sui nove emersi dagli scavi e sono state riscontrate molte coincidenze fra i ritrovamenti archeologici e le notizie che ci fornisce Omero. L’evento della guerra di Troia è databile fra il 1250 e il 1200 a. C., come si ricava da Erodoto, ma Duride di Samo colloca lo svolgimento della guerra indietro di circa un secolo, intorno al 1344 a. C. . In sintesi, non può essere messo in discussione lo sfondo storico dei poemi omerici.
L’Odissea, ancor più dell’Iliade, offre elementi utili a comprendere la poetica di Omero. La poesia dell’Odissea è essenzialmente il canto dell’aedo, che si propone di rendere perpetua la fama delle imprese e la gloria degli eroi, ma allo stesso tempo di dilettare e di affascinare gli ascoltatori. Nel poema Omero introduce la personalità di due aedi: Demodoco alla corte di Alcinoo, che canta l’amore di Ares e Afrodite, Femio nella reggia di Ulisse, che canta, suo malgrado, durante i banchetti dei Proci. Gli aedi improvvisavano temi contemporanei, affidati alla trasmissione orale, accompagnandosi con la cetra. Anche Ulisse svolge la funzione di aedo, quando nella reggia di Alcinoo narra le proprie avventure. In questo senso, Ulisse è la 'controfigura del poeta stesso'[1].
L’Odissea inizia, come l’Iliade, con l’invocazione alla Musa. Il poeta chiede l’aiuto divino mentre canta le imprese vissute dall’intrepido Ulisse, eroe dal multiforme ingegno, durante il suo avventuroso viaggio di ritorno ad Itaca. L’invocazione, tuttavia, presenta un tono più dimesso e più intimo rispetto a quello dell’Iliade: non più cantami (a’eide) o diva, bensì 'Musa … dimmi (énnepe)', come se il canto cedesse il posto alla narrazione e lo strepito delle armi e la solennità epica abbassassero i toni, per dar vita all’elogio della ragione e dell’intelligenza, le nuove doti cui aspirava l’ uomo greco.
1. L’argomento dell’Odissea
Il poema si apre con il concilio degli dei dell’Olimpo, in cui si discute del ritorno in patria di Ulisse, l’eroe 'che città vide molte, e delle genti/ l’indole conobbe; che sovr’esso il mare/ molti dentro del cor sofferse affanni …'. Nella gran reggia dell’olimpio Zeus, tutti gli dei concordano che ormai è tempo che cessino le peregrinazioni dell’eroe d’Itaca, causate da Poseidone. Il dio del mare era avverso al Laerziade e lo perseguitava furiosamente per mare, da quando l’eroe greco aveva accecato il ciclope Polifemo, suo figlio. Anche Helios, il Sole era stato offeso dai compagni di Ulisse, che avevano banchettato nell’isola di Trinacria con le vacche sacre al dio. Una terribile tempesta aveva vendicato l’oltraggio: tutti i compagni di Ulisse in essa erano periti, tranne l’eroe, che non aveva assaggiato le carni degli animali sacri. A differenza dell’Iliade, nell’Odissea gli dei non parteggiano per nessuno. Non ci sono schieramenti che condizionano le sorti della guerra tra due popoli. Il rapporto ora è tra la singola divinità e il singolo uomo nel bene o nel male. Se Poseidone ed Helios hanno preteso la punizione delle offese ricevute, la dea della sapienza, Atena, protegge Ulisse e si adopera perché ritorni sano e salvo nella sua Itaca. Sono già trascorsi dieci anni dalla caduta di Troia, tutti i condottieri achei sopravvissuti sono ritornati nelle loro patrie, tranne Ulisse, che da sette anni si trova, trattenuto dalla bella dea Calipso, nell’isola di Ogigia, collocata da Omero nell’estremo ovest del Mediterraneo. Penelope, moglie di Ulisse, spera sempre che un giorno o l’altro il suo sposo ritorni ed è riuscita a rimandare la scelta di un secondo matrimonio fra i numerosi proci, principi pretendenti dell’Isola, col pretesto di dover finire di tessere un sudario per il vecchio suocero Laerte. Ma il lavoro di tessitura non procede, perché di notte Penelope disfa ciò che ha tessuto durante il giorno. Scoperto l’inganno, i pretendenti si sono insediati nel palazzo reale, nell’attesa che la regina si decida a scegliere come sposo uno di loro. Nella speranza di avere notizie del padre, intanto, Telemaco si è recato a Pilo, dal vecchio Nestore e a Sparta, da Menelao, mentre i proci cercano di impedirgli il ritorno ad Itaca, tendendogli un’imboscata. Ormai Zeus, sollecitato da Atena, è ben disposto a concedere ad Ulisse il ritorno in patria. Ordina quindi ad Ermes di recarsi nell’isola di Ogigia, per imporre alla ninfa Calipso di lasciar partire l’eroe. Sebbene rattristata, la ninfa si rassegna e comunica all’uomo, che avrebbe voluto sposare e rendere immortale, che da quel momento è libero di lasciare l’isola. Ulisse si fabbrica una zattera e vi naviga per diciassette giorni. Al diciottesimo giorno gli appare l’isola dei Feaci, la Schéria. Ma una tempesta, sollevata ancora una volta da Poseidone, distrugge la zattera e Ulisse, dopo essere stato in balia delle onde per due giorni, riesce a salvarsi grazie alla fascia immortale, prestatagli dalla bella dea marina, Ino. Abbandonato dai flutti sulla spiaggia di Scheria, per l’intervento di Atena, incontra Nausicaa, la figlia del re dei Feaci Alcinoo. La dea, infatti, sotto le sembianze della sua più cara amica vien in sogno a Nausicaa, facendole sperare che presto avrebbe incontrato l’uomo da sposare. Memore del sogno, Nausicaa, affascinata anche dall’aspetto bello e maestoso che Atena aveva conferito all’eroe, gli consiglia di seguirla a distanza, mentre lei fa ritorno al palazzo reale con le ancelle, e di presentarsi al re Alcinoo, suo padre. L’eroe, avvolto in una nube che lo rende invisibile, entra nel palazzo e, dissoltasi la nube tra lo stupore generale dei commensali, senza indugio corre ai piedi della regina come supplice. Il saggio Alcinoo accoglie con molta ospitalità il naufrago, che rivela la sua identità e narra le proprie sventure a cominciare dalla partenza da Troia. In ordine cronologico, Ulisse racconta il saccheggio della citta dei Cìconi, sulla costa meridionale della Tracia; la sosta nel paese dei Lotofagi; l’approdo nell’isola dei Ciclopi e l’incontro con Polifemo; il soggiorno presso Eolo, il dio dei venti, che gli fa dono dell’otre in cu sono rinchiusi i venti tempestosi; la terribile disavventura nel paese dei Lestrigoni, feroci giganti che distruggono undici delle dodici navi di Ulisse, e quindi l’approdo all’isola Eea, dimora della maga Circe, che muta i suoi compagni in porci. Nel libro X Ulisse continua il suo racconto: dopo un anno la maga Circe, dai cui incantesimi si era salvato grazie ad un’erba che gli era stata data dal dio Ermes, scende nell’oltretomba per consultare l’ombra dell’oracolo Tiresia. Qui l’eroe incontra le anime di nobili guerrieri come Agamennone, Achille, Aiace e tra le figure femminili riconosce Leda, madre di Castore e Polluce, Giocasta, moglie di Edipo, Fedra, figlia di Minosse, sposa di Teseo, Arianna, sorella di Fedra. Infine, da Anticlea, sua madre, riceve notizie riguardanti i suoi familiari, il vecchio padre Laerte, Penelope e il figlio Telemaco. Il racconto di Ulisse affascina gli ascoltatori e, sebbene la notte avanzi, tutti gli chiedono di continuare. Il racconto, quindi, procede: lasciate le rive dell’Oceano, la nave fa rotta verso l’isola di Circe, dove Ulisse dà sepoltura al corpo insepolto del suo compagno Elpenore, la cui ombra aveva incontrato nell’Ade e, prima di partire, viene informato da Circe sulle disavventure che ancora lo attendono: le Sirene, Scilla e Cariddi, gli armenti del dio Sole nell’isola di Trinacria, il naufragio e la perdita di tutti i suoi compagni e il fortunoso approdo nell’isola di Ogigia, dove è accolto amorevolmente dalla ninfa Calipso. A questo punto il racconto di Ulisse si ricollega con l’inizio del libro I del poema. Al termine del suo racconto, Ulisse viene accompagnato ad Itaca da una nave dei Feaci, la quale al ritorno viene mutata dall’irato Poseidone in uno scoglio. Travestito da anziano mendicante, Ulisse incontra Eumeo, il fedele guardiano dei porci, dal quale viene informato dell’insolenza dei proci, che bivaccano allegramente nella sua reggia. Quando Telemaco torna sano e salvo da Sparta, scampato all’agguato, Ulisse gli rivela la sua identità, quindi si reca alla reggia, dove viene riconosciuto dal vecchio cane Argo e dall’anziana nutrice Euriclea. Penelope comunica alla fedele Euriclea la sua decisione di sposare colui che il giorno successivo avesse teso l’arco di Ulisse e tirato una freccia attraverso dodici scuri allineate. Il giorno dopo, soltanto Ulisse riesce a tendere l’arco. Quindi con l’aiuto di Telemaco dà inizio alla strage dei proci e alla condanna delle schiave infedeli. Penelope si convince che quel mendicante è suo marito solo quando Ulisse rivela di conoscere la particolare costruzione del loro letto nuziale.-------------------------------------------------------------------------------------------
1. La donna , l’amore, la divinità
Il I libro dell’Odissea si apre con il concilio degli dei. Secondo Erodoto (Storie,2, 53), Omero prima ed Esiodo dopo nella sua Teogonia diedero i nomi agli dei, dividendo gli onori e le prerogative ed indicando il loro aspetto. 'In realtà l’opinione di Erodoto attribuisce ai due poeti un ruolo formatore dell’impianto mitico-religioso greco che pare eccessivo, ma non si può certo mettere in dubbio il valore paradigmatico assunto dalla codificazione epica, entro una cultura la cui religione non possiede testi sacri ispirati né alcuna rivelazione e che invece riconosce ai poeti il ruolo di teologi e sistematori dell’educazione e delle credenze religiose'[2]. Si può aggiungere con Lo Schiavo che la religione, così come è presente nella vita dell’uomo omerico, sia già sulla via di quel razionalismo, che la filosofia greca elaborerà successivamente. È insomma dal mythos che scaturisce il logos, che all’inizio comincia ad esprimersi in modo confuso, e nella costruzione mitica si realizza la prima inconsapevole forma di organizzazione dell’esperienza[3] .
Se nell’Iliade gli dei erano schierati su fronti opposti, partecipando alle imprese militari, nell’Odissea tutta la vicenda ruota attorno ad un solo eroe, Ulisse, che ha dalla sua parte Atena, la 'diva / cui tinge gli occhi un’azzurrina luce'. È lei ad ottenere dal padre Zeus che il dio Ermes si rechi dalla ninfa Calipso per imporle di lasciar partire Ulisse. Ed è ancora lei che, preso l’aspetto di Mente, re dei Tafi, si reca ad Itaca per assicurare Telemaco che suo padre è vivo e che presto ritornerà in patria. Anzi, con affetto materno consiglia al giovane di mettersi in viaggio per Pilo, patria di Nestore, e Sparta, patria di Menelao, per attingere notizie su suo padre, ma soprattutto per farsi esperto del mondo. Il viaggio dovrà essere per Telemaco una forma di iniziazione all’età adulta e un mezzo perché venga riconosciuta la sua identità di principe legittimo.
Quando Ermes comunicò alla ninfa Calipso l’ordine di Zeus di lasciar ripartire Ulisse, la dea provò una sofferenza e un’umiliazione profonde. Da sette anni tratteneva nella sua dimora l’eroe greco, ma non era riuscita a legarlo a sé neppure con la promessa che lo avrebbe reso immortale se avesse acconsentito a dividere con lei un’esistenza eterna, non toccata dalla vecchiaia:
'Sol dal suo regno e dalla casta donna/ rimanea lungi Ulisse: il ritenea/ nel cavo sen di solitarie grotte/ la bella venerabile Calipso/ che unirsi a lui di maritali nodi/ bramava, pur ninfa quantunque e diva' . (I, 20-25, I. Pindemonte)
Nel suo dolore, Calipso (la Ninfa nascosta) rivela sentimenti umani, ma sa che non può sottrarsi al volere del padre degli dei:
' Crudeli siete, voi dei, gelosi al di sopra degli altri,/ voi che invidiate alle dee di unirsi in amore palese/ con uomini, se qualora suo sposo fa l’uomo che ama … / Ma, pure, io lo salvai ch’era solo, alla deriva/ su una chiglia; ché Zeus colpendo con vivido fulmine/ spezzò la sua nave veloce in mezzo al livido mare./ Allora perirono tutti gli altri valenti compagni,/ lui qui portandolo il vento e le onde spinsero a riva./ L’amavo io, lo nutrivo, dicevo che l’avrei reso/ immortale ed immune per sempre dalla vecchiaia./ … ma benevolmente lo consiglierò, senza nulla tacere,/ perché sano e salvo arrivi alla sua terra natia'. (V, 118-144, passim, Mario Giammarco)
Col cuore infranto, quindi, si recò da Ulisse, per informarlo del messaggio di Zeus.
'… Ordunque seduto/ lo trovò sulla riva: non erano mai i suoi occhi/ asciutti di pianto, gli si consumava la dolce vita/ nel sospirare il ritorno, e più non gli piaceva la ninfa./ Certo la notte dormiva con lei, magari per forza,/ nelle grotte profonde, svogliato con lei che voleva;/ ma il giorno sugli scogli sedendo oppure sul lido,/ lacerandosi il cuore tra le lacrime, gemiti e affanni, era lì sempre a scrutare piangendo il mare infecondo'. (V, 150-158, M. G.)
Ulisse, sorpreso dal generoso atteggiamento della dea, crede che si tratti d’una insidia. Ma, rassicurato dal suo giuramento, con lei si avviò nella dimora divina e qui sedettero a mensa. Quando poi furono paghi di cibo e di bevande, la splendida dea prese a parlare:
' O Laerziade divino, molto sagace Odisseo,/ così dunque alla casa, alla cara terra natia/ vuoi ora subito andare? Va’, sii felice comunque,/ ma se sapessi nell’animo tuo quanti affanni è destino/ che tu sopporti, prima che arrivi alla patria terra,/ qui rimanendo con me questa casa abiteresti/ e saresti immortale, pur desiderando vedere/ la tua sposa, per cui tutti i giorni sempre sospiri./ Eppure mi vanto di non essere a lei non inferiore/ nel corpo e nella figura, perché non sembra possibile/ che con le immortali competan le donne in aspetto e bellezza'./ Ed a lei rispondendo parlò l’accorto Odisseo: / 'Possente dea, non sdegnarti per questo con me: so anch’io/ assai bene che a te inferiore è la saggia Penelope/ in bellezza e statura, a vedersi con te a confronto:/ essa infatti è mortale, immortale tu senza vecchiaia;/ ma pure così, io voglio e sospiro giorno per giorno/ di arrivare a casa e vedere il dì del ritorno./ Se poi qualche dio mi farà naufragare nel livido mare,/ sopporterò, perché cuore avvezzo ai dolori ho nel petto:/ soffrii molti mali già prima e molti travagli sostenni/ tra i flutti e la guerra: stia pure con quelli anche questo'./ Ciò disse, e intanto il sole s’immerse e venne la notte./ Ritornati poi nei recessi dell’antro spazioso/ goderono amandosi, l’uno all’altra restando vicini'. (V, 203-227, M. G)
E fu l’ultima notte. Ora è finalmente giunto il giorno tanto atteso e sperato. Calipso continuerà a vivere immortale nella sua isola solitaria, l’eroe greco è deciso ad intraprendere la via del mare sulla zattera che in quattro giorni è riuscito a costruirsi. Calipso non ha cessato di amarlo e, oltre a dargli opportuni consigli sulla navigazione, lo provvede di cibi e bevande.
' Il quarto giorno era quello, e tutto egli avea finito;/ nel quinto la dea Calipso dall’isola l’accomiatava/ dopo averlo vestito di vesti odorose e lavato./ Gli mise in barca la dea un otre di vino scuro,/ un altro grande di acqua e provviste in un sacco di pelle,/ e vi ponea pure molte gradite vivande./ E un vento suscitò favorevole e mite; e il divino/ Odisseo, di ciò lieto, al vento distese la vela'.
Dopo la sua lunga relazione amorosa con la dea Calipso, l’eroe greco non avrà altre distrazioni del genere prima del suo ritorno ad Itaca, ma il ricordo della maliarda Circe è ancora vivo nella sua memoria e può rievocarlo durante il racconto delle sue straordinarie avventure nella reggia di Alcinoo. La dea era una potente maga e viveva nella favolosa isola di Eea, che in seguito i Romani identificarono con il promontorio del Circeo sulle coste del Lazio. Circe appartiene alla saga degli Argonauti, che precede gli avvenimenti narrati da Omero. La dea è, infatti, figlia del Sole, sorella di Eeta, re della Colchide, padre di Medea. L’isola Eea, secondo alcuni studi condotti da K. Mauli su l’Odissea e gli Argonauti, era localizzata nel Mar Nero e solo dopo Omero l’isola di Circe fu collocata in Occidente. Omero umanizza questo singolare personaggio, ridimensionandone gli attributi e i connotati di maga. Anche lei appare una donna innamorata e vinta dall’ amore restituisce i compagni di Ulisse alla loro forma umana. La dea si avvale della sua arte magica solo a scopo di difesa, non fidandosi degli uomini, che trasforma in porci, forse con qualche allusione al comportamento di taluni uomini nei confronti delle donne. Ma, presto la donna ha il sopravvento sulla maga, vinta dall’audacia e dalla prestanza di Ulisse, che non disdegnerà di trascorrere un anno insieme con l’avvenente dea. E forse l’eroe greco si sarebbe fermato più a lungo se fosse stato lui solo in quell’isola, come gli capiterà più tardi di fermarsi ben sette anni nell’isola di Ogigia, in compagnia di Calipso. Sono, infatti i compagni che, dopo un anno intero trascorso tra le delizie di quella divina dimora, gli ricordano la patria lontana e il suo dovere di capo. Il primo incontro dei compagni di Ulisse con la dea è alquanto rassicurante, anche perché Circe si presenta nelle vesti di una nobile signora, impegnata nel ruolo ch’era riconosciuto alle donne: 'Canterellava con leggiadra voce,/ ed un’ampia tessea, lucida, fina,/ meravigliosa, immortal tela …'. Circe invita i nuovi arrivati mostrando cortese ospitalità: ' … La dea li pose/ sovra splendidi seggi; e lor mescea/ il Pramnio vino con rappreso latte,/ bianca farina e mel recente; e un succo/ giungevasi esizial, perché con questo/ della patria l’obblio ciascun bevesse./ Preso e votato dai meschini il nappo,/ Circe batteali d’una verga, e in vile/ stalla chiudeali: avean di porco testa,/ corpo, setole, voce; ma lo spirto/ serbavan dentro, qual da prima, integro'. ( X, 287-313 I. P.)
Ancora una volta sarà l’intervento di Ermes a salvare il suo protetto dalle arti magiche della perfida maga, mettendolo in guardia. Quindi, dà ad Ulisse un’erba salutare, chiamata moly dai numi, che lo rende immune ai filtri della maga e lo ammaestra sul contegno da usare con la dea : ' Tutte io ti dirò le astuzie funeste di Circe./ Farà un intruglio, poi verserà dei filtri nel cibo./Ma neanche così ammaliarti potrà, perché lo impedisce/ il buon rimedio che voglio darti, spiegandoti tutto./ Quando ti toccherà con la verga lunghissima Circe,/ tu allora, la spada aguzza tirata su lungo la coscia,/ scagliati contro di lei, come bramando ammazzarla:/ t’inviterà spaventata a giacerti nel talamo suo;/ tu d’una dea allora il letto non rifiutare,/ perché ti sciolga i compagni e di te stesso abbia cura;/ ma tu falle giurare col gran giuramento dei numi/ che non ordirà contro te alcun altro perfido inganno,/ perché non ti renda, dopo spogliato, vile e impotente '. (X, 289-301 M. G.)
Come si può notare, nella mitologia la vita sessuale è intensa: dee, semidee e donne decidono il destino degli Stati e degli uomini con il loro fascino e i loro intrighi. Ma, come sottolinea lo studioso francese Morali-Daninos, ' nella Grecia conosciuta attraverso la storia, le donne sono invece tutt’al più madri ammirevoli, nell’ascetica e autoritaria Sparta, o custodi del focolare, nella dissoluta e democratica Atene' [4].
Le donne in Omero godono di una posizione sociale e di notevole libertà, poiché partecipano persino ai banchetti a corte. Esse dirigono anche la maggior parte delle attività domestiche, benché in una posizione di subalternità rispetto al maschio, sposo o figlio, cui spetta la direzione della casa. Secondo Eva Cantarella, le avventure di Ulisse con i personaggi femminili, che lo trattengono per lunghi periodi tra le loro braccia, indicano l’esistenza di una divisione netta e invalicabile tra due categorie di donne: da un lato le donne oneste (le mogli e le donne destinate a diventare mogli: le figlie e le sorelle del capo della casa); dall’altro le seduttrici, donne libere, autonome al punto da vivere da sole, belle e invitanti, ma mortalmente pericolose [5]. La polis codificherà successivamente tale distinzione, riconoscendo alle etere una certa tutela legale e tanta rispettabilità da essere amanti riconosciute di intellettuali e uomini politici. Si pensi ad Aspasia, compagna di Pericle, a Frine, la cui bellezza ispirò Apelle e Prassitele, Laide, amante di Diogene il Cinico.
In un saggio su Il mito di Circe di Maurizio Bettini e Cristiana Franco è posto il problema se la maga Circe, che viveva nella sua isola di Eea circondata da sole ninfe, non prefigurasse l’esistenza di una società matriarcale dominata dal culto della dea Madre, antecedente all’arrivo degli Indoeuropei. Si sarebbe trattato, quindi, di un tempo in cui le donne nel Mediterraneo godevano di condizioni sociali certamente superiori a quelle imposte successivamente dalla cultura maschilista. In questo quadro s’inserirebbe anche l’ipotesi di un vate al femminile, autrice dell’Odissea, avanzata da Tolomeo Chenno o Efestione, erudito alessandrino del 1° sec. d. C., e ripresa da Samuel Butler, che attribuisce a Nausicaa la stesura del poema omerico.
Circe, alla fine, soddisfatta completamente delle performances amorose di Ulisse, si rivela generosa; sicché, quando l’eroe si decide a salpare e le chiede licenza di partire, lei non lo trattiene, anzi gli consiglia di recarsi nell’Ade per interrogare l’indovino Tiresia sul modo di ritornare in patria.
Tuttavia, prima che Ulisse approdi nella sua Itaca, Omero ritiene che egli debba sottoporsi ad un lavacro etico attraverso l’incontro con la purezza verginale di Nausicaa, un passaggio necessario che allontani dalla sua mente le tante esperienze erotiche vissute e lo avvii al casto pensiero dell’unione coniugale.
Ulisse, spossato ma salvo grazie alla fascia immortale offertagli dalla dea marina Ino, raggiunge a nuoto la foce di un fiume della terra dei Feaci e, trovato un rifugio nel bosco vicino, s’immerge in un sonno profondo. Nella spiaggia vicina s’era recata Nausicaa di buon mattino, dove con le sue ancelle aveva provveduto a lavare e a sciorinare al sole il suo corredo di nozze, che Atena in sogno le aveva fatto credere imminenti. Nell’attesa che i panni si asciugassero, le fanciulle piacevolmente occupavano il tempo giocando con la palla. Ulisse, svegliato improvvisamente da un grido acuto emesso dalle ancelle di Nausicaa, che per l’intervento di Atena aveva fallito il lancio, si avvolgeva attorno al corpo un ramo denso di foglie, usciva dal cespuglio e si presentava simile ad un leone che scende dai monti alle fanciulle dalle belle chiome. Atterrite dalla comparsa improvvisa di quell’uomo nudo, sporco di salsedine e selvaggio nell’apparenza, le ancelle fuggirono qua e là per il lido. Solo la figlia di Alcinoo rimaneva, perché Atena le aveva tolto ogni paura. A questo punto la scena si capovolge. È Ulisse in grande imbarazzo, affascinato dalla bellezza e dall’ardire della fanciulla, che era rimasta ferma davanti a lui. L’eroe era incerto se avvicinarsi a lei ed abbracciarle le ginocchia come supplice, oppure rimanere distante e rivolgerle dolci parole. Quest’ultimo gli parve il consiglio migliore e così le si rivolse:
'… Ti supplico, o potente,/ in ginocchio. Sei tu forse dea o mortale?/ Se alcuna delle dee tu sei del vasto cielo/ per la bellezza del volto e l’alta statura/ e l’armonia di forme, tu mi sembri Artemide/ figlia del sommo Zeus: tanto le somigli./ Ma se mortale tu sei che vive in terra,/ tre volte beato il padre e la nobile madre,/ e beati tre volte i fratelli. Certo il loro cuore/ è tenero di gioia per te, freschissimo stelo,/ quando muovi alla danza. Ma più d’ogni altro,/ felice nel cuore chi supera i rivali/ con doni di nozze e ti conduce con sé nella casa,/ poi che i miei occhi non videro mai/ creatura mortale, né uomo né donna,/ simile a te, e stupore mi vince a guardarti. … / ma tu, o potente, abbi pietà: dopo tanti dolori,/ tu sei la prima che incontro e non conosco alcuno/ di quelli che abitano il luogo e la sua terra./ Indicami la città e dammi qualcosa per coprirmi,/ se mai, venendo qui, avevi una tela da involgere i panni./ E ti concedano gli dei quanto desidera il tuo cuore:/ uno sposo e una casa e leale concordia,/ perché non c’è bene più forte e più valido/ quando con armonia d’intenti l’uomo e la donna/ reggono una casa. Ne hanno invidia i malvagi,/ e gioia chi li ama; ma più loro sono felici'. (VI, 149-185, S. Quasimodo) . Ulisse si rivela un fine parlatore e sa scegliere le parole più suadenti per conquistare la fiducia e l’ammirazione della giovane donna. Ne esalta la bellezza fisica, la paragona ad una dea, Artemide, e allo stesso tempo la descrive nella sua grazia di danzatrice, le fa sognare, poi, il giorno delle nozze e la gioia di una famiglia tutta sua. Manara Valgimigli, che ha considerato la preghiera di Ulisse la cosa più bella del bellissimo canto, aggiunge che le parole del figlio di Laerte 'sono tutte intonate alla musica che canta nel cuore di Nausicaa; egli parla come se già di Nausicaa conoscesse l’animo e il sogno … Odisseo ha davanti a sé la fanciulla, così quieta, così pura e chiara; e la guarda; guarda questa parthénos admés, questa verginità intatta; e la vede armata soltanto del suo candore, intrepida della sua purezza che non teme macchia; ed è preso egli stesso da tremore e pudore …'[6]. Le parole di Ulisse commuovono la principessa che, lusingata dalle parole dell’eroe, ordina alle ancelle di avvicinarsi e di dare all’ospite un manto per coprirsi, cibo, bevande e un’ampolla d’oro con limpido olio con cui spalmarsi dopo il bagno. Intanto, la sua verginale fantasia volava in alto e, ammirando le fattezze fisiche del figlio di Laerte, che Atena aveva reso maestoso nella statura e affascinante nei lineamenti, sussurrava alle ancelle dalle candide braccia: … a me prima sembrava un uomo comune, ma ora/ somiglia agli dei che hanno dimora nel cielo infinito./ Oh, se potesse un uomo così essere detto mio sposo,/ qui rimanendo, e a lui così piacesse restarvi!'. (VI, 241-245, M. Giammarco) L’ammirazione per l’eroe era diventata speranza che quello straniero potesse essere lo sposo accennato in sogno da Atena. Ma il sogno dura poco, quando Ulisse rivela la sua identità ed espone il desiderio di ritornare in patria, dove lo attendono la cara consorte, il giovane figlio e il vecchio padre.
Se Circe può far sorgere qualche dubbio sull’esistenza di un antico matriarcato mediterraneo, il comportamento di Penelope, quale risulta dall’Odissea, lo esclude. Penelope è una donna fedele al marito, votata all’amore verso il figlio e alla cura della casa, decisa nell’amministrazione dei suoi diritti e non tanto ingenua da non riuscire a tenere a bada per venti anni le avances dei proci. Un modello di donna risoluta e ferma nei suoi propositi, lontana ancora dal modello stereotipato di donna, in tutto dipendente dal maschio, quale la società greca dal VII secolo in poi avrebbe imposto. Sempre, tuttavia, costretta a stare un passo indietro rispetto al parente maschio, sia sposo, sia figlio. Sicché Telemaco, che ormai aspira ad essere considerato adulto e a gestire l’amministrazione del potere, può ordinare alla madre di tornare nelle sue stanze, da dove era scesa per ascoltare il mesto canto dell’aedo Femio, che al suono della cetra intratteneva i proci e celebrava il ritorno degli eroi greci in patria dopo la distruzione di Troia. Penelope era stata rattristata dal canto e aveva pregato il vate di interromperlo. Così il figlio alla madre: ' … Or tu risali/ nelle tue stanze, ed ai lavori tuoi,/ spola e conocchia, intendi; e alle fantesche commetti, o madre, travagliar di forza./ Il favellar tra gli uomini assembrati/ cura è dell’uomo, e in questi alberghi mia/ più che d’ogni altro, però ch’io qui reggo'. (I, 460-467 I. P.)
Ulisse e Penelope furono assunti dalla tradizione a modello di perfezione coniugale. Penelope rappresenta il modello della moglie ideale, bella, onesta, legata alla famiglia, brava tessitrice, rispettosa del suocero Laerte, per il quale tesse il sudario che dovrà avvolgerlo da morto, madre premurosa, abile signora della sua casa, attenta a difendere il suo giuramento di fedeltà allo sposo dalle prepotenze dei centootto pretendenti che affollano la sua reggia. Penelope, però, può agire solo nell’ombra, protetta dalle tenebre della notte. Alla vita avventurosa del marito oppone la sua inazione del tessere e del disfare senza tempo, lontana dalle ragioni degli uomini, tuttavia serena nell’attesa, perché riesce a vivere con se stessa [7]. Anche Ulisse è presentato e sentito come un buon marito, almeno secondo la morale del tempo. Ai mariti greci, infatti, era riconosciuta ampia libertà; era consentito sposarsi e tenere contemporaneamente una concubina a casa e intrattenere relazioni extraconiugali. La moglie doveva assicurare la prole al marito; la concubina ne assicurava il piacere, viveva nella stessa casa della moglie legittima e aveva anche l’obbligo di mantenersi fedele, se voleva che i suoi figli godessero di diritti quasi pari a quelli dei figli legittimi. La legittimazione della concubina è accennata nell’Odissea e ripresa sia nell’ Agamennone di Eschilo, (l’eroe greco ritorna da Troia, portando con sé la schiava-concubina Cassandra, che dovrà essere compagna del suo letto) sia nell’Andromaca di Euripide, allorché Neottolemo, figlio di Achille, costringe la moglie Ermione ad accettare sotto lo stesso tetto la schiava Andromaca come sua legittima concubina, che gli dà dei figli a differenza della sterile sua sposa. Non si trattava, tuttavia, di poligamia, che in Grecia non era generalmente praticata, come lo era invece nel regno macedone sotto Filippo II, padre di Alessandro Magno, che ebbe sette mogli. L’erotismo femminile aveva ostacolato Ulisse nel suo viaggio di ritorno. Prima Circe aveva attirato l’eroe nel proprio letto con dolci seduzioni unicamente per privarlo della sua identità maschile, se questi non fosse stato preavvertito da Ermes e consigliato di avanzare con la spada sguainata. Questa minaccia apre la strada ad un incantamento erotico, che rischia di far dimenticare a Ulisse il suo ritorno in patria [8]. Successivamente Calipso che lo trattiene per sette lunghi anni, anche quando l’eroe non mostra più interesse erotico per la bella dea, ma è costretto a soddisfarne le continue voglie stancamente. Ulisse ormai ha esaurito buona parte della sua carica erotica attraverso esperienze che non sono concesse a nessun mortale. Da qui, l’incontro rigeneratore con la purezza verginale di Nausicaa, che gli fa sentire più forte la nostalgia della sua famiglia. Ulisse raggiunge la sua Itaca ricco di esperienze ma ancora avido di sapere. Del resto, una nuova Odissea lo attende. E così, dopo avere riportato l’ordine nella sua reggia, confessa alla moglie che i suoi travagli non sono finiti, come ha appreso nell’Ade dall’ombra dell’indovino Tiresia. Penelope, la moglie devota e paziente, che pensava di potere finalmente dormire col suo sposo nell’antico letto e riprendere la consuetudine coniugale, non può opporsi al destino che il Fato ha stabilito per il suo eroe, convinta che i suoi diritti coniugali non possano interferire con la volontà dei Celesti. Solo vuol conoscere quale sarà la nuova meta del suo viaggiare. E Ulisse con qualche reticenza risponde: ' Perché con tanta premura, o misera, vuoi ch’io parli?/ Ebbene te lo dirò, non voglio nasconderti nulla./ Lieto non ne sarà il tuo cuore; né certo io stesso/ me ne rallegro, perché m’imponeva ch’io vada per molte/ città mortali stringendo in mano un agile remo,/ fin quando giunga tra uomini che non conoscono il mare/ e non mangiano cibo che non sia mescolato col sale;/ ignorano addirittura le navi guance miniate/ e i maneggevoli remi che sono ali alle navi./ E questo per chiaro indizio mi disse, né a te lo nascondo./ Quando con me incontrandosi un altro viandante mi dica/ che reggo un ventilabro appoggiato alla spalla gloriosa,/ allora, sì, mi ordinò che piantato a terra quel remo,/ fatti bei sacrifici a Poseidone sovrano,/ un toro, un ariete e un verro assalitore di scrofe,/ a casa io debba tornare ed offrire sacre ecatombi/ agli dei immortali abitanti nel cielo infinito,/ a tutti per ordine, e a me già lontano dal mare la morte/ verrà talmente dolce che mi spegnerà già consunto,/ dopo un’agiata vecchiezza; e intorno a me felici/ saranno le genti. Mi disse che questo si compirà tutto'. (XXIII, 264-284 M. G.) Sembra che i grammatici alessandrini, Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia, ponessero il termine dell’Odissea al verso 296 del XXIII canto, con la vittoria di Ulisse sui proci e l’abbraccio dei due coniugi, dopo che Penelope aveva avuto la prova certa dell’identità dello sposo. È probabile, quindi, che un altro aedo abbia voluto inserire questo epilogo per giustificare l’inizio di una nuova Odissea: all’eroe greco il cantore attribuisce il ruolo di civilizzatore delle genti, che, esperto dei vizi umani e del valore, pone le fondamenta di una nuova civiltà, che non richiede l’uso del remo, bensì del ventilabro, lo strumento che nell’arte contadina serve a separare la pola dal frumento, che è come dire la civiltà dalla barbarie.
Eva Cantarella ha voluto sottolineare certe ambiguità del comportamento di Penelope. Omero qua e là annota che la moglie di Ulisse amava farsi corteggiare e induceva i suoi pretendenti a sperare, ricorrendo a messaggi segreti e accettando i ricchi doni che a gara i proci nei primi tempi le facevano a scopo di corteggiamento. Ma dopo tanti anni questa fase si era conclusa ed essi non volevano attendere oltre e avevano deciso di dilapidare i beni della reggia. Era fatale per una donna sola prendere una decisione dopo tanti anni di rinvio. Né il ricorso all’astuzia (metis) poteva rinviare più a lungo la sua scelta. Lo stesso Telemaco si rendeva conto della difficoltà in cui sua madre si trovava e non credeva più nella sua determinazione di rifiutare qualsiasi pretendente. Ma chi può condannare Penelope? In realtà, la fedeltà di Penelope ogni giorno era messa a dura prova da tanti bei giovani, cento otto, che spasimavano per lei, ai quali si scioglieva il cuore nel petto a vederla e si accendeva ogni voltando un forte desiderio sessuale. Se dopo venti anni non aveva conosciuto uomo, era anche perché temeva il giudizio della sua gente, alla quale appariva divina proprio in funzione della sua testimonianza di fedeltà. Forse anche Ulisse avrà avuto durante la sua lunga assenza qualche piccolo sospetto sulla fedeltà della consorte, accentuato dall’incontro nell’Ade con Agamennone, l’eroe greco tradito e assassinato dalla moglie Clitennestra al suo ritorno dalla guerra di Troia. Agamennone certo non ha buon motivo di parlar bene delle mogli, ma in fondo esprime quelli che erano e in parte restano i pregiudizi sulle donne: non essere dolce con la tua donna – gli consiglia- ; non confidarle ogni parola che sai; di’ solo una parte di ciò che sai e una parte tienila nascosta; la donna è un essere infido; rivelati a lei per ultima quando sarai a Itaca; la donna è sempre inaffidabile. Ulisse non dimenticherà i consigli dell’Atride e sarà realmente Penelope l’ultima persona a conoscere la sua vera identità, ma solo dopo che egli aveva fatto strage dei proci insieme col figlio Telemaco. Anche la donna non si fida dell’uomo e Penelope, tra le altre sue virtù, non difetta di metis. La presenza del forestiero-mendicante la turba, perché pensa che da lui possa avere notizie dello sposo, ma c’è un qualcosa in più che la spinge a sentirlo vicino, quasi un confidente se, prima che abbia inizio la gara decisiva delle nozze, chiede l’interpretazione del sogno premonitore che ha fatto, e dal quale riceve conforto e assicurazione di un imminente ritorno del marito. L’avere proposto la gara dell’arco non è stato un atto di debolezza di Penelope, bensì un ulteriore dimostrazione della sua astuzia. Ella sapeva bene che nessuno dei suoi pretendenti sarebbe stato capace di tendere l’arco di Ulisse e di scagliare la freccia che avrebbe dovuto attraversare gli anelli di dodici scuri. Pertanto, sarebbe stato un nuovo stratagemma dilatorio della sua scelta e avrebbe concesso ulteriore tempo alla sua speranza del ritorno di Ulisse, che il suo cuore di donna e di moglie innamorata presentiva. Penelope, quindi, resta un modello di virtù e tale Omero ha voluto che restasse nell’immaginario dei posteri, superiore a tutte le donne che nei due poemi il lettore o meglio l’ascoltatore ha potuto conoscere.
27.03.2012 Antonino Tobia
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[1] F. Montanari, Introduzione a Omero, Sansoni, Firenze 1990 p.107
[2] F. Montanari, op. cit. p. 82
[3] Cfr. A. Lo Schiavo, Omero filosofo, Le Monnier, Firenze 1983, 244-245 passim
[4] A. Morali-Daninos, Storia della sessualità, Tascabili Economici Newton, 1994, p.16
[5] Cfr: E. Cantarella, Itaca, Feltrinelli, Milano 2009 p.15
[6] M. Valgimigli, Il canto di Nausicaa, Principato, Milano, 1940
[7] Cfr. A. Cavarero, Penelope, in Nonostante Platone, Roma, 1990, pp.13-32
[8] Cfr. Froma I. Zeitlin, Eros in Noi e i Greci 1, Einaudi Torino, 1996 p. 393
Inserito il 03 Aprile 2012 nella categoria Relazioni svolte
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