Ha relazionato la dott.ssa Elisabetta Briguglio, esperta in Scienza della comunicazione
Relatore: dott.ssa Elisabetta Briguglio - Esperta in scienze della comunicazione
Senza una forte identità non ci può essere vero dialogo con le altre culture
Prima parte: migrazioni a confronto
Lavorando alla sede nazionale dell’ANFE a Roma, di cui sono la Capo Segreteria Nazionale, ho potuto studiare la storia dell’emigrazione italiana dall’inizio dalla fine dell’800 alla seconda metà del ‘900 e mi rendo conto che le migrazioni di ieri non erano poi tanto diverse da quelle di oggi, che vedono l’Italia trasformata da Paese di emigrazione a Paese anche di immigrazione.
Di seguito tratterò l’argomento con brevi flash e riflessioni, a partire dalle quali si potranno in seguito approfondire vari argomenti connessi al fenomeno migratorio.
STORIA
La prima fase dell’emigrazione ha dominato fino alla metà degli anni ’80 dell’Ottocento ed era contraddistinta dal movimento e dal trasferimento delle famiglie intere: chi decideva di lasciare la propria terra portava con sé moglie e figli, e con essi intendeva iniziare la nuova vita. Si è verificato così un grande travaso di popolazione dall’Europa alle Americhe. Questo ha causato problemi non semplici di integrazione: chi arrivava, aveva cultura e a volte religione diverse rispetto a coloro che già abitavano il continente americano.
La seconda fase segna il periodo successivo, che ha visto muoversi solitamente uomini tra i 15 e i 45 anni; questi, solo in un secondo tempo, quando erano sicuri che la sistemazione trovata riusciva a garantire loro un salario regolare, si facevano raggiungere dalla famiglia (un po’ come il ricongiungimento familiare degli immigrati di oggi in Italia). Più precisamente tra il 1870 e il 1903, lasciarono l’Europa ben 21 (o 24 dipende dalle fonti) milioni di persone delle quali la metà si stanziò negli Stati Uniti e l’altra metà si diresse nell’America Latina, nel Canada, nell’Australia, nella Nuova Zelanda e nel Sud Africa.
Ma come arrivavano nel nuovo continente?
IMBARCAZIONI
Le navi che trasportavano gli emigranti non erano attrezzate per questo genere di viaggi. Erano imbarcazioni a impiego misto (merci e uomini): partivano dall’America o dall’Australia cariche di prodotti da vendere in Europa e ritornavano cariche di uomini.
A fare le spese di questo adattamento erano gli emigranti che venivano ammassati sulle navi in condizioni disumane. 'La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, erano stanchi e pieni di sonno. Quasi tutti portavano una seggiola pieghevole sotto il braccio, sacche e valigie d’ogni forma in mano o sul capo, bracciate di materassi e di coperte; molti erano scalzi e portavano le scarpe appese al collo'. Elemento ricorrente in tutte le narrazioni, siano esse cinematografiche (come il film, prodotto anche dall’ANFE Delegazione Regionale Sicilia, Nuovo mondo di Crialese) sia letterarie (come 'Vita' della Mazzucco) è proprio quello dello scarpe.
Quando partivano, gli emigranti, che erano sempre in numero troppo elevato rispetto alla capienza del piroscafo, venivano mandati in terza classe, su navi vecchie e malandate dove anche ponti e stive erano sovraffollate e le condizioni igieniche disastrose. Tutto questo quando non venivano gettati a mare, ieri come oggi, oggi nel Mediterraneo ieri nell’Oceano. Accadeva dunque che scoppiassero delle epidemie e che alcune persone morissero per malattie, fame o soffocamento. Specialmente nei viaggi verso il Sud America, si assisteva al doloroso spettacolo dei passeggeri che si serravano l’uno all’altro tanto le navi erano sovraffollate.
Mangiavano sul sudicio pavimento o in piedi, facendo sforzi continui per conservare l’equilibrio col rollio del bastimento e non versare la minestra.
Loro, i sopravvissuti di oggi, vengono rinchiusi nei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione.
E le loro imbarcazioni fanno questa fine…
Una volta giunti in Paesi come l’Argentina, gli emigranti dovevano passare un periodo negli Alberghi degli immigrati gestiti dallo Stato o nei Conventili in mano ai private. Tra questi l’Hotel della Rotonda in Argentina (fine 1800), un enorme baraccone di legno, dove si stava stipati come sardine insieme ai pidocchi e alla puzza.
Era una costruzione di legno a forma di poligono di 16 lati. Aveva questa forma perché avevano usato come base per la sua costruzione lo scheletro di una rotonda di ferro usata per Panorama di Retiro (il moderno cinema a 360 gradi), che era una specie di cinema. Questa costruzione di tre piani era la prima cosa che vedevano gli immigranti dalla nave.
Ieri come oggi, oggi troviamo l’Hotel house a Porto Recanati, meglio noto come 'Babel hotel' di cui racconta un libro edito dalla Infinito con il supporto dell’A.N.F.E.: 480 appartamenti, 3.000 persone, 35 etnie diverse, per lo più maghrebini, bengalesi, pakistani, senegalesi. Delinquenza - Un tempo erano gli italiani quelli dalla 'mano nera' in America… e dalle facce che giravano, come dar loro torto di lasciarsi andare alle prime impressioni…
Ma magari erano semplici migranti anche loro, disperati e in cerca di fortuna, e - ieri come oggi -spesso accusati di delinquenza e microcriminalità a piede libero…o almeno questa è l’unica cosa che i mass media esaltano degli immigrati di oggi e forse anche ieri…Ma non è sempre così. Il problema è purtroppo la verità si fa spesso attendere. Chissà se tra qualche anno, nei Paesi di provenienza degli immigrati in Italia di oggi, si trasmetteranno le interviste a coloro che sono riusciti a fare la famosa fortuna, come facciamo noi
Certo è che anche allora le discriminazioni erano tante, anche a livello istituzionale, come racconta un funzionario dell’ambasciata italiana in Australia che scrive:
"Nel ’53 un calabrese ad Adelaide fece l’atto di richiamo per sua sorella residente a Caulonia. L’uomo inviò tutta la documentazione necessaria. La sorella andò al colloquio a Roma, ma l’impiegato australiano respinse la domanda. Il fratello fece ricorso più di una volta. Infine fu comunicato dal Ministero australiano che "i motivi per cui la domanda inoltrata da Sua sorella fu respinta non Le possono essere rivelati".
Oggi negli archivi si può consultare la documentazione inviata al Ministero dall’addetto a Roma: "Di apparenza decisamente non caucasica. Colore della pelle, posizione degli occhi, tipo di naso, zigomi alti, mascella larga, tipo e colore dei capelli costituiscono la base di questa conclusione. Respingere"
Ma vediamo cosa succedeva quando non si veniva per l’appunto respinti.
All’arrivo negli Stati Uniti gli emigranti venivano sottoposti a controlli legali effettuati nel Servizio Immigrazione di Ellis Island, alla foce del fiume Hudson nella baia di New York, dove venivano trasportati in gruppi generalmente di trenta persone.
Lì si verificava lo stato di salute di ognuno (gli uomini erano costretti a letteralmente 'calarsi le braghe' davanti a una sfilza di medici, perdendo così da subito la propria dignità), l’eventuale presenza di malattie, turbe mentali e si stabiliva l’idoneità ad essere ammessi negli Stati Uniti. Tra il 1982 e il 1920 passarono per Ellis Island 16 milioni di persone, da 5.000 a 10.000 al giorno.
Proprio a causa della subitanea perdita della dignità, dell’incertezza e della trepidazione delle ore trascorse in attesa del responso di idoneità, quel luogo si guadagnò il nome di "Isola delle lacrime".
Così a Lampedusa…dove forse è più opportune parlare di un’isola di 'lacrime e sangue' per i numerosi fatti di cronaca...
IL LAVORO – I manovali ieri come oggi
Per quanto riguarda il mercato del lavoro alcune professioni nei Paesi esteri erano monopolizzate dalla presenza italiana: più della metà di tutti i muratori immigrati negli Stati uniti erano italiani.
Le sarte e le cucitrici italiane avevano poche rivali e i barbieri italiani trovavano lavoro con una facilità impressionante e anche camerieri e cuochi furono subito apprezzati.
La manodopera italiana che andava all’estero tra il 1878 e il 1910 aveva dunque una scarsa qualificazione professionale, era costituita soprattutto da contadini, pastori o addetti in genere al lavoro dei campi e da braccianti o giornalieri.
Ieri come oggi: la manovalanza dei campi e delle stalle delle campagne italiane è quasi interamente composta da immigrati e anzi talvolta sono opportunamente ricercati dai datori di lavoro perché particolarmente bravi nel trattare certi animali, come gli indiani per le mucche. Comunicazione e immigrazione: il dialogo dell’integrazione Tra gli immigrati va ricordato poi il ruolo assunto da attori e registi che contribuirono a fornire un senso di identità culturale (di cui parliamo dopo) e a trasmettere ai più giovani il patrimonio di conoscenze e di valori del paese di origine. Tra gli attori e i registi dell’epoca compare un gran numero di italo americani: da Tina Modotti a Rodolfo Valentino, Frank Capra, Frank Sinatra, Gregory La Cava. A tal proposito sentirete parlare a breve di un film sulla storia del jazz che affonda le proprie radici nell’emigrazione italiana, con autori come Tony Scott, grazie ad un film sostenuto dall’ANFE.
Il cinema ha consentito così di raggiungere due importanti obiettivi: conoscere la terra dei propri padri e ritrovare il senso della propria identità culturale che rischiava divenire soffocata dai costumi americani.
Sono circa 60 milioni i cittadini italiani o di origine italiana sparsi per il mondo, figli di un fenomeno migratorio di proporzioni bibliche. L’Italia, non a caso, è infatti l’unico Paese al mondo ad avere istituito un ministero apposito.
Il nuovo fenomeno migratorio italiano, infatti, riguarda soprattutto giovani, laureati, ricercatori e professionisti che non trovano spazi o sbocchi lavorativi adeguati nel nostro Paese. La cosiddetta fuga dei cervelli…
Seconda parte: la forza dell’identità
Ma veniamo a noi e ai migranti di corto raggio, come me e Tito Marrone, che dalla Sicilia ci siamo spostati a Roma e lì abbiamo provato a dare un senso al nostro lavoro. Lui ci è riuscito (gli avete intestato pure un’università!) io ve lo farò sapere…!
Sia che la migrazione sia quella di ieri o di oggi, sia che ci si sposti di 100km o di migliaia di km (con l’oceano di mezzo!) l’unica cosa che ci si porta sempre dietro, sia che si parta con la valigia di cartone che con il baule di YSL, io credo che sia il proprio sé, la propria identità…
La cultura cambia (ormai si dice sempre 'italo-americani' e non 'italiani emigrati in America' ), la famiglia cresce e si divide, le abitudini mutano in base al contesto ma in tutta questa migrazione fisica e mentale c’è una cosa che resta incardinata nella persona ed è la sua identità. Qualcuno parla di 'il legame con la terra' ma credo che si riferisca in realtà al legame con se stessi, infatti se ci fate caso la radice di 'Uomo' è la stessa di 'Hummus'=terra. È per questo che il dialogo per l’integrazione tra persone di diversa etnìa, di diversa 'specie' si fonda il più delle volte sui meccanismi di conferma dell’identità.
È solo da una piena coscienza della propria identità culturale, consapevole delle 'contaminazioni' che hanno contribuito alla sua stessa formazione, che si può avviare un dialogo costruttivo tra gruppi che sono 'ambasciatori' di culture differenti.
È chiaro che la posizione di partenza dev’essere quella della consapevolezza di sé, sapere da dove si viene per capire dove andare, che è poi il requisito principale della memoria, della conoscenza di sé e dei propri valori, non intesi come assoluti ma come frutto di un processo storico, personale e di contesto, di cui siamo parte e prodotto inevitabilmente. Un po’ quello che succede in Sicilia, dove quando ci viene presentato qualcuno la prima domanda silenziosa è 'Chistu a cu appartene' (Questo a chi appartiene).
Terza parte: la comunicazione e il dialogo
Conoscere se stessi è fondamentale anche per comunicare in maniera efficace: la nostra percezione della realtà e degli altri dipende in gran parte dalla nostra identità. Conoscere se stessi diventa dunque fondamentale per conoscere le proprie percezioni, i propri pregiudizi e attitudini verso gli altri, in quanto l’identità personale esiste solo in relazione e confronto con gli altri.
In secondo luogo è necessario accettare le proprie emozioni come mezzo di conoscenza, poiché il più delle volte è affezionarsi a qualcuno o a qualcosa che ci porta verso la comprensione e la relativizzazione delle proprie certezze!
Infine, terzo requisito di apertura è la 'tolleranza' (termine che non amo ma sempre più spesso) dell’ambiguità, che va di pari passo con il contenimento dell’ansia di fronte al nuovo e al diverso, con la capacità di rinviare il giudizio a una fase più avanzata di conoscenza e comprensione.
Per questo è necessario, in primo luogo, conoscere i nostri valori culturali e cercare di accantonarli. Su ogni individuo agiscono delle influenze di tipo culturale, sociale e psicologico che Gudykunst & Kim chiamano 'filtri concettuali'.
Tali filtri ci fanno interpretare ogni nuova esperienza in base a quelle passate e ci consentono così di vedere solo quello che siamo abituati a vedere. Ne deriva, dunque, una visione distorta e stereotipata della persona che abbiamo di fronte, tante volte riconosciuto come un invasore.
Sono di ritorno adesso da Bruxelles dove con l’ANFE Sicilia abbiamo presentato un progetto per il riconoscimento del Diritto di cittadinanza ai giovani di seconda generazione, e non solo. Anche lì, durante il convegno di presentazione che abbiamo organizzato al Parlamento europeo, uno degli aspetti trattati rigurda sempre la fatidica domanda 'viene prima l’uovo o la gallina?': prima la legge e dunque l’integrazione culturale o prima l’integrazione culturale (accettazione della cultura del Paese di accoglienza) .Ma intanto i giovani di 2°generazione, come fanno a sentirsi italiani se non lo sono di diritto??
Persino lo stesso Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, pochi giorni fa ha fatto una grande cerimonia per loro al Quirinale 'Nuovi cittadini italiani' dichiarando che anche loro sono una risorsa primaria per il nostro Paese.
Ciò che è emerso dal convegno ANFE a Bruxelles è che comunque il cuore dell’Unione Europea è proprio questo: cittadinanza per tutti, unita al riconoscimento delle diversità culturali che si spinge fino all’intransigente tutela delle minoranze etniche all’interno dei singoli Stati. I futuri cittadini delle società multiculturali apparteranno contemporaneamente a più comunità: quella etnica, quella religiosa, quella territoriale, quella lavorativa, ecc. che non potranno essere sciolte in un’identità comune, ma bisognerà farle convivere attraverso modelli di relazione funzionali non conflittuali.
Il grande antropologo olandese Geert Hofstede, padre degli studi interculturali in Europa, ci ricorda che esistono culture orientate al passato 'è giusto perché si è sempre fatto così' e culture orientate al futuro 'è giusto perché mi permette di raggiungere un obiettivo'.
La prevalenza di un elemento rispetto all’altro non facilita dunque il dialogo interculturale in questa prospettiva.
Ma le speranze si costruiscono su memorie diverse che diventano comuni; sull’accettazione di storie distinte e separate ma non lesive dell’identità altrui; sulla comprensione delle ragioni che ci hanno fatto diversi nel tempo e che ci obbligano a essere oggi più uguali.
D’altro canto la concezione dell’identità culturale di un popolo come qualcosa di puro e originario viene smentita dalla nostra stessa vita quotidiana in cui azioni, abitudini e oggetti di cui ci serviamo rivelano incontri e scambi antichi dovuti al permanente nomadismo dell’umanità sul nostro pianeta.
Se solo fossimo più consapevoli di queste realtà e del fatto che noi stessi, con le nostre tradizioni e le nostre identità, siamo il prodotto di un incessante movimento storico di migrazioni, fusioni e contaminazioni (la Sicilia più che mai) saremmo forse più sereni e fiduciosi nell’affrontare i complessi problemi del nostro tempo.
Detto questo, resta la tesi di fondo che è la permanenza di una propria identità - che non cambia per latitudine o longitudine - che fa da punto di riferimento fisso per noi, nella nostra mobilità quotidiana, sia essa fisica che virtuale sul web.
Il ruolo della comunicazione nei processi di integrazione parte dal presupposto che senza una forte identità non ci può essere un vero dialogo tra culture. La Comunicazione è un meccanismo a due vie, interazione e feedback, essa è condivisione di significati, di punti di vista per affrontare problematiche comuni.
Nel processo comunicativo – di cui accenno solo brevemente poiché ci vorrebbe un seminario a parte su questo - assumono rilevanza significativa non solo i contenuti (le informazioni), ma anche il sistema di valori, i pregiudizi, i vissuti personali, gli stili comunicativi dei soggetti interagenti, come si vede nella figura.
Ma la paura è sempre quella, dell’inquinamento del proprio 'buon sangue' dell’identità delle nostre comunità locali, che portano a xenofobia e familismo.
Personalmente non credo sia tanto una questione di orgoglio identitario, quanto la richiesta che all’accoglienza corrisponda un’accettazione delle nostre regole di convivenza.
È dunque necessario lo sviluppo di un vero e proprio Piano di comunicazione, capace di indirizzare ed orientare le best practices dell’integrazione e in grado di dare un segnale univoco dell’azione di promozione della propria cultura. Bisogna intraprendere iniziative importanti capaci di dare in termini di comunicazione il segno e il senso di un’identità che si afferma attraverso la cultura. Anche perché, il fatto di parlare una stessa lingua, tante volte, non significa capirsi…
Vi porto, a tal proposito, alcuni esempi di come uno stesso termine possa assumere significati molto diversi, ad esempio tra popoli di religione cristiana e popoli di religione islamica, due religioni più vicine di quanto pensiamo, come ci dice il comune 'culto' della Madonna.
[I musulmani venerano Maria e credono nella sua eccellenza e verginità, testimoniata nella Sura XIX del Corano (un intero capitolo a lei dedicato), senza però considerarla Madre di Dio perché Gesù è per loro solo un profeta. Di fatto nel Corano la figura di Maria (Maryam) è preminente su tutte le altre figure femminili e viene ricordata più volte. Su un totale di 114 sure e 6236 versetti di cui risulta composto il Corano, Maria figura in 70 versetti e in 13 sure; è anche l’unica donna citata nel Corano con un nome proprio. I musulmani la chiamano anche Sayyida, che vuol dire "Signora, Padrona" che corrisponde pressappoco al termine cristiano "Madonna".
Sura XIX del Corano: (versetti 16-22)
Ricorda Maria nel Libro, quando si allontanò dalla sua famiglia, in un luogo ad oriente.
Tese una cortina tra sé e gli altri. Le inviammo il Nostro Spirito, che assunse le sembianze di un uomo perfetto. Disse [Maria]: « Mi rifugio contro di te presso il Compassionevole, se sei [di Lui] timorato! ». Rispose: «Non sono altro che un messaggero del tuo Signore, per darti un figlio puro». Disse: «Come potrei avere un figlio, ché mai un uomo mi ha toccata e non sono certo una libertina?». Rispose:«è così. Il tuo Signore ha detto: " Ciò è facile per Me? Faremo di lui un segno per le genti e una misericordia da parte Nostra. È cosa stabilita"».
Lo concepì e, in quello stato, si ritirò in un luogo lontano.]
Ma torniamo agli esempi di cui sopra. Vediamo come tre valori fondamentali quali Comunità, Legge e Democrazia sono presenti in entrambe le culture ma in maniera sostanzialmente diversa.
- Per noi la Comunità è un concetto legato agli Stati nazionali sorti in Europa dopo il Rinascimento: da qui è nato il concetto di sovranità nazionale, in qualche modo assimilabile al concetto di proprietà private. L’Islam ha invece creato una civiltà basata sul concetto della umma, l’universale Comunità dei credenti, svincolata dal rapporto con il territorio di uno Stato.
- Il concetto di Legge occidentale è essenzialmente contrattualistico: la legge è un accordo tra cittadini consapevoli consenzienti, un 'contratto sociale' e come tale soggetta al cambiamento quando cambiano le volontà dei contraenti (tipicamente nostra è l’espressione 'fatta la legge trovato l’inganno').
Per l’Islam invece esiste una perfetta identità tra la nozione di legge contenuta nel Corano, e la volontà di Dio rivelata dal Profeta: dunque una immutabilità che si può soltanto interpretare e amministrare con correttezza e con impegno personale.
Il più grande impegno per i musulmani non è infatti quello di formare maggioranze politiche che elaborino leggi, come avviene nelle democrazie occidentali, ma di trovare la corretta interpretazione della legge già rivelata e di scegliere leader che siano amministratori e giudici giusti della legge originaria e immutabile.
- Infine per la Democrazia, cito un fatto storico del 1799, durante la Campagna d’Egitto dove sconfisse i mamelucchi, Napoleone chiese a Champollion, uno dei grandi archeologi studiosi che lo seguivano, di tradurre in arabo il famoso slogan francese 'Libertà, eguaglianza, fraternità' ed egli non riuscì a trovare un termine arabo per tradurre la parola 'Libertà' con la stessa intensità di significato che ha per noi. C’è anche da dire che i musulmani hanno sempre dato più importanza al concetto di giustizia che a quello di libertà…il che lo trovo indicativo…sia per loro che per noi…
Uno studioso musulmano tunisino, Muhammad Talbi, qualche anno fa ha commentato che mentre per gli occidentali la Democrazia è un fine in sé, per i musulmani è un mezzo per raggiungere la supremazia della legge attraverso il consenso.
Conclusioni
Acquisite queste nozioni, forse è il caso di cambiare prospettiva per quanto mi riguarda, e passare dal dibattito astratto alla collaborazione quotidiana, pragmatica, sulle singole realizzazioni personali e di gruppo nei più doversi settori (educazione, giornalismo, architettura, salute). La migliore intesa, quella più duratura, sarà trovata da ognuno di noi, individualmente, pragmaticamente e quotidianamente.
Qualcuno potrebbe dire che c’è sempre il rischio di perdere o modificare la propria identità? Quando ben radicata, il rischio non c’è, perché l’identità non è un accessorio ma parte di noi. Per questo mi auguro che ognuno di noi abbia un po’ dei suddetti principi che forse sono intraducibili– almeno a detta dello studioso che era con Napoleone – ma che restano pur sempre universali…ognuno a suo modo.
Credo che l’esigenza oggi sia quella di gettare un ponte tra due sponde, intese come migrazione tra due continenti, tra due terre e dunque due identità e culture, ma anche un ponte tra due generazioni (come tra un padre e un figlio) tra due saperi (tra un prete e un rabbino, tra uno sciamano e un muftì), un ponte tra la sponda meditativa e quella dell’azione, un ponte tra due volontà…
Perché come per il ponte sullo stretto di Messina, vale la regola che non serve gettare ponti laddove non ci sono le infrastrutture che conducono ad essi!
Personalmente preferisco pensare ad un ponte tra le due sponde di uno stesso fiume: prima o poi si sfocerà tutti nello stesso mare. Elisabetta Briguglio
Inserito il 23 Novembre 2011 nella categoria Relazioni svolte
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