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Il punto sulla situazione europea con riferimento particolare all'Italia

Aurelio Pappalardo, esperto di problemi sociali ed economici dell'U.E., ha illustrato le questioni europee in ordine alla crisi e all'Eurofobia attuale

Relatore: Avv. Aurelio Pappalardo - europeista

Il punto sulla situazione dell'Unione Europea (UE) con particolare riferimento all'Italia

Si riporta qui di seguito la relazione dell'avv. Aurelio Pappalardo

Premessa: il tema che ho il piacere di esaminare con Voi stasera – in maniera necessariamente sintetica, data l’ampiezza e la varietà degli argomenti che esso sottende – è suddiviso in tre parti, seguite da una breve conclusione:
I. Il contesto politico dell’UE, nel quale si svolgeranno le imminenti elezioni europee.
II. Aspetti critici dell’Eurozona, con particolare riferimento agli squilibri interni, ed aspetti positivi
III. Il dibattito in corso sulla moneta unica.
IV. Conclusione

Immagine riferita a: Il punto sulla situazione europea con riferimento particolare all'ItaliaPer quanto riguarda la situazione particolare del nostro Paese, mi sembra preferibile parlarne man mano, in ciascuno dei tre punti, data la stretta connessione fra i temi italiani e quelli europei.


I. Il contesto politico europeo, alla vigilia delle elezioni del Parlamento Europeo (PE) e del rinnovo della Commissione.

1. Fra poche settimane si terranno le elezioni europee, che forniranno certamente indicazioni sugli umori di una parte dei cittadini sia sullo stato dell’UE, sia, come sempre accade in caso di elezioni, sulla situazione politica interna.
2. Quanto rappresentative tali elezioni saranno dipenderà, naturalmente, dal tasso di partecipazione (molti predicono un’elevata astensione).
3. Comunque, l’evento è di notevole rilievo e va seguito con attenzione.
4. La caratteristica generale dominante è costituita, a mio avviso, da grande instabilità, che potrà influenzare – anche sensibilmente – le scelte di almeno una parte dell’elettorato.  Non ricordo elezioni europee nelle quali le tendenze separatiste e antieuropeiste siano state forti come oggi.

Gli esempi più significativi:
a) in Spagna, è in corso una profonda crisi di fiducia nei confronti della monarchia, che rischia di scuotere l’unità del Paese; contemporaneamente – e quasi certamente in collegamento con tale tendenza – si accentua il movimento separatista catalano;
b) in Francia, agli eventi personali relativi alla posizione del presidente della Repubblica, si è aggiunto il tracollo della sinistra nelle recenti elezioni amministrative, che ha avuto due manifestazioni, rilevanti ai fini della nostra riflessione, e fra loro collegate: (a) le severe critiche dell’operato del governo per la grave situazione dell’occupazione hanno favorito (b) il rafforzamento della destra lepenista, tendenzialmente xenofoba e antieuropeista;
c) nel Regno Unito è imminente (settembre 2014) la tenuta del referendum che potrebbe segnare il distacco della Scozia; quanto agli antieuropeisti – più elegantemente denominati 'euroscettici' – sempre più forti, nei mesi scorsi hanno provocato un dibattito nel quale è stata apertamente ventilata l’uscita del Paese (con o senza Scozia) dall’UE;
d) in Belgio, da decenni dilaniato dal latente conflitto fra la comunità di lingua francese e quella fiamminga, le elezioni nazionali si terranno contemporaneamente a quelle europee e costituiranno un’interessante cartina tornasole, specie per l’evoluzione di forze politiche estremiste ed antieuropeiste, affini a quelle lepeniste in Francia;
e) sulla situazione politica interna italiana non mi pronuncio, perché la conoscete meglio di me: mi limito a osservare, dato che sto parlando di instabilità, che sia la destra che la sinistra appaiono divise; quanto alle forze politiche euroscettiche, o apertamente antieuropeiste, non mancano certamente (e avrò occasione di ritornare fra breve sul punto);
f) continuando la carrellata geografica, da Ovest verso Est, e uscendo, ma di poco, dai confini dell’UE, arriviamo a Kiev, dove, fra referendum separatista della Crimea e tentativi frustrati di avvicinarsi all’UE, abbiamo una ricca messe di esempi, quanto a tendenze separatiste e a instabilità;
g) infine, vorrei ricordare che, in molti dei Paesi membri dell’UE di cui non ho parlato (Austria, Paesi Bassi, Ungheria, la stessa Germania, etc.) sono spuntati negli ultimi anni, come funghi in autunno, partiti e movimenti politici o d’opinione, più o meno estremisti e nostalgici, più o meno xenofobi, più o meno antieuropeisti;
h) controcorrente, rispetto ai punti fin qui evidenziati, si situa la Germania, che costituisce invece un impressionante esempio di stabilità. La cancelliera Merkel, vinte brillantemente le elezioni nello scorso autunno, esercita il suo terzo mandato; Destra e Sinistra sembrano soddisfatti di collaborare e l’economia scoppia di salute.  E questo mi conduce al secondo punto della nostra chiacchierata.

 


II. Aspetti critici dell’Eurozona, con particolare riferimento agli squilibri interni, ed aspetti positivi

1. L’Eurozona nel suo insieme (dico subito che la Germania costituisce la principale, clamorosa eccezione) soffre oggi di un principio (forse – speriamo – solo di un rischio) di deflazione.
La deflazione è il contrario dell’inflazione.
Poiché tutti, anche molti giovani, certamente ricordano (o almeno sanno) che l’inflazione – l’aumento generale dei prezzi – è una piaga che erode i risparmi e provoca povertà, si potrebbe credere che il contrario sia una situazione auspicabile. Il contrario di un male è, si può pensare, un bene. Ma non è così; o, almeno, non è sempre così.  L’obesità – se mi permettete il confronto – è certamente un male; ma l’anoressia pure.  La verità, come spesso accade nella vita è che in medio stat virtus.  Il contrario dell’inflazione non è l’assenza di aumento dei prezzi, bensì un aumento ragionevole: la disinflazione.
In estrema sintesi: la deflazione, cioè la diminuzione del livello generale dei prezzi, è provocata dalla debolezza della domanda di beni e servizi.  In presenza di deflazione, i consumatori e le imprese tendono a rimandare a più tardi l’acquisto di beni e servizi non essenziali (sperando di poterli acquistare più tardi a condizioni ancora più favorevoli).  Questo può dar inizio alla spirale deflazionistica: le imprese, di fronte ad una siffatta aspettativa da parte dei consumatori, cercano di vendere beni e servizi a prezzi più bassi del normale, ottenendo, inevitabilmente, minori ricavi; per farvi fronte, cercano di ridurre i costi: licenziando, quando possono, o acquistando meno da altre imprese (per esempio dai fornitori di materie prime), le quali, a loro volta, vedono diminuire i ricavi, e così via. Il risultato è la diminuzione della domanda aggregata di beni, fonte di diminuzione degli investimenti, quindi della produzione e, in ultima analisi, della ricchezza.  Un altro risultato è di far aumentare la disoccupazione.
Nell’Eurozona il fenomeno si sta, apparentemente, verificando per effetto:
a) della crisi, da cui non siamo ancora usciti, con l’aggravante
b) della cura di austerità che abbiamo subìto, a cominciare dall’aumento delle imposte;
c) dell’assenza (in Italia) Indelle riforme e del calo della produttività.

2. La Banca centrale europea (BCE), con Draghi in testa, intende reagire sta cercando di reagire, in particolare con 'un ampio programma di acquisto di titoli pubblici e privati' (sono parole di Draghi, di pochi giorni fa).  Il punto è delicato, perché l’opposizione dura della Germania ha provocato una discesa in campo della Corte Costituzionale tedesca (davanti alla quale 35.000 ricorrenti tedeschi hanno fatto valere che la BCE sta violando le norme del Tratto UE), la quale ha però preferito chiedere la pronuncia pregiudiziale della Corte di dell’UE (che non si è ancora espressa in merito). Spero di avere il tempo di chiarire il punto.  Aspetti giuridici a parte, sta di fatto che la Germania non vuole sentire parlare di misure suscettibili di riportare un po’ d’inflazione.

3. A questo punto va menzionato il problema dello squilibrio fra la Germania, da un canto (e, con essa, ma in minor misura, pochi altri Paesi del Nord Europa) e vari Paesi del Sud, fra cui l’Italia.
La Germania ha oggi un grande surplus commerciale corrente: esporta verso i Paesi dell’UE assai più di quanto compri. Si calcola che, dal 2007, il surplus è stabilmente intorno al 6% del PIL (prodotto interno lord o= il valore complessivo dei beni e servizi prodotti in un dato periodo, di solito l’anno).  La scarsa crescita della domanda tedesca e l’eccessiva dipendenza dalle esportazioni ostacolano il riequilibrio rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona.
A tal punto, che la Commissione europea è intervenuta, ricordando al governo tedesco che i meccanismi dell’UE si oppongono a tutti gli squilibri: non solo quelli provocato dagli Stati che hanno i conti fuori controllo ma anche da quelli che peccano per opposte ragioni.
Il problema, mentre vi parlo, è oggetto di esame a Bruxelles e fra Bruxelles e Berlino. (Ma mi chiedo se la Commissione europea avrà la forza politica di imporre alla Germania un’inversione di rotta, o anche solo una modifica).

4. Un aspetto importante, che è al centro di vive polemiche – e che tocca il capitolo successivo della mia esposizione – concerne l’euro. Se la Germania esporta tanto (sia in seno all’Eurozona che fuori), ciò non dipende solo dalla indiscussa qualità dei suoi prodotti, ma anche dalla relativa debolezza del 'suo' euro.
Mi spiego. L’euro è la moneta unica e quindi, si potrebbe pensare, è uguale ovunque. Ma non è così. La forza dell’economia tedesca è oggi tale che la moneta in circolazione in Germania (l’ 'euro tedesco') è, di fatto, svalutato rispetto alla moneta di prima (il marco).  Ciò significa che la Germania può praticare, per le sue esportazioni, prezzi minori di molti altri Paesi dell’Eurozona.
Per la maggior parte degli altri Paesi, invece, l’euro è (troppo) forte (quasi 1,40 rispetto al dollaro, moneta universale di riferimento). Come è ben noto, chi esporta fatturando in moneta forte, ha difficoltà a conquistare mercati.
Di qui le accuse di egoismo alla Germania, la quale, si dice, ha fatto e fa crescere il suo PIL e la sua industria a scapito degli altri Paesi dell’Eurozona. E si aggiunge che, mentre la produttività delle imprese tedesche aumentava fortemente, gli stipendi non seguivano la stessa tendenza: in altri termini, la Germania (questo è il fondo della critica) ha frenato e frena la domanda interna, a danno delle esportazioni (verso la Germania) dei beni e servizi degli altri Paesi dell’Eurozona.
Ma la Germania risponde: non è colpa nostra, se siamo più produttivi e più competitivi degli altri. Noi le riforme le abbiamo fatte. Perché dobbiamo accollarci gli errori o le negligenze degli altri?
E qui, come subito potete intuire, s’inserisce il doloroso discorso sui ritardi di alcuni Paesi – fra cui, devo precisarlo?, il nostro – nell’adozione delle famose riforme, a cominciare dal taglio della spesa pubblica e dall’eliminazione degli ostacoli burocratici (che, per dirne solo una, sono all’origine dei gravissimi ritardi nel pagamento dei debiti da parte della pubblica amministrazione alle imprese).

5. Nell’Eurozona non ci sono, per fortuna, solo aspetti critici, o litigi. Devo ricordare almeno (sperando, anche qui, di avere il tempo di fornire qualche dettaglio, il recente completamento dell’unione bancaria, un meccanismo di sorveglianza, predisposto a tutela delle banche dei Paesi dell’Eurozona).

E veniamo all’infuocato dibattito sull’euro.


III.  Il dibattito in corso sulla moneta unica.

1. Come ho avuto l’occasione di ricordare in uno dei precedenti incontri, l’euro è nato male.
Si può certamente rimproverare ai padri fondatori di avere bruciato le tappe: un’unione monetaria non sta saldamente in piedi da sola, cioè in assenza di una vera unione politica ed economica. Come a suo tempo ha insegnato Milton Freedman, un’area valutaria comune funziona bene solo se al suo interno c’è flessibilità sociale e fiscale (per dirne solo una: mobilità di mano d’opera), onde evitare rigidità.  Non che i padri fondatori non ne fossero coscienti: solo che sperarono – o, se preferite scommisero – che, creata la moneta unica, s’innescasse un 'processo virtuoso' di accelerazione dell’integrazione europea. I fatti, purtroppo, non hanno dato loro ragione.  E si è quindi rivelata fondata, in tempo di crisi, la critica di aver messo il carro davanti ai buoi. In attesa dell’Unione Politica (della quale, se avremo il tempo, parleremo più avanti) l’euro ha realizzato solo a metà il compito di stabilizzatore che gli era affidato. L’esempio, che ho citato prima, dello squilibrio nei confronti della Germania, e dell’euro tedesco debole, ne costituisce un’illustrazione eloquente.

2. Ad aggravare la situazione si sono aggiunte le rigidità proprie del sistema di coordinamento e di vincoli (a cominciare dalla famosa soglia del 3% nel rapporto deficit/PIL).
In periodi di difficoltà, e a maggior ragione di gravissima crisi come quella che abbiamo conosciuto, le regole di coordinamento (compreso il cd fiscal compact), di per sé utili, funzionano come una camicia di forza.

3. E allora? Uscire dall’euro? Recuperare sovranità monetaria e, grazie ad essa, la capacità di migliorare i nostri conti?
Personalmente, non lo credo.
Avendo esaminato la questione con tutta la possibile attenzione (e nei miei limiti di non economista) trovo convincente sia la tesi secondo cui i costi di uscita sarebbero più elevati degli attuali inconvenienti, sia quella secondo cui non è affatto sicuro che il recupero della sovranità monetaria garantirebbe un mondo migliore.
In sintesi, con particolare riferimento all’Italia:
a) prima dell’unione monetaria, le ripetute svalutazioni avevano provocato un aumento dell’inflazione oltre il 20%, senza consentire, in compenso, un durevole aumento di produttività della nostra economia;
b) anche i tassi d’interesse erano saliti, con pregiudizio delle famiglie (mutui) e delle imprese (costo del credito);
c) certo, avremmo di nuovo l’autonomia monetaria: ma il guadagno di competitività, conseguito nel breve periodo, sarebbe prima o poi annullato dalla spirale svalutazione-inflazione (come accadde negli anni ‘70/’80);
d) la nuova lira, destinata svalutarsi nei confronti dell’euro, sarebbe un fattore di svalutazione dei risparmi, oggi denominati in euro;
e) per analoghe ragioni, la svalutazione della nuova moneta farebbe aumentare il valore dei debiti verso l’estero,
f) … e non sono affatto certo che la lista si fermi qui.


Qual è allora la strada seguire? Le strade, a mio avviso (ed è l’avviso di molti), sono due, parallele e di eguale importanza.
Una consiste nell’adottare le riforme strutturali – economiche, istituzionali, sociali – che consentano di ridare produttività e competitività al Paese.
L’altra consiste nel battersi, nelle sedi adeguate, per ottenere modifiche dei meccanismi europei che appaiano, alla prova dei fatti, inadeguati.

 


IV. Conclusione
Sarebbe ingiusto, oltre che fuorviante, concentrare l’attenzione sui numerosi aspetti negativi della costruzione europea – errori, insufficienze, inadeguatezze – dimenticandone i molti aspetti positivi.
Sarebbe soprattutto pericoloso fare dell’Europa un alibi per stendere un velo sulle responsabilità nazionali: un siffatto atteggiamento rischia di servire da pretesto per non far ordine a casa propria.
L’Europa, lo si dice spesso, e a ragione, è una costruzione incompiuta.  Certo. Io però sono convinto che dalle difficoltà, che si sono acuite a causa della recessione che abbiamo conosciuto, si debbano trarre insegnamenti per cercare di migliorarla, non argomenti per cercare di demolirla.

 

 

 


 

Autore Prof-Greco

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Inserito il 07 Maggio 2014 nella categoria Relazioni svolte