Il carattere teologico-filosofico della terza Cantica della Divina Commedia è stato messo in luce dal prof. Antonino Tobia, profondo conoscitore della poesia dantesca.
Relatore: Prof. Antonino Tobia - Letterato
Removere viventes in hac vita de statu miseriae et perducere ad statum felicitatis (dalla epistola a Cangrande della Scala)
Il termine paradiso è di origine persiana, pairidaeza, e indicava propriamente un luogo recintato, un giardino, un luogo ameno, immerso in un’atmosfera di gioia e di serenità. Dal vocabolo iraniano derivano il termine greco paràdeisos e l’ebraico pardes, che indica un parco. Gli ebrei usano , invece, il termine gan per indicare il giardino, che nella Genesi è il Paradiso terrestre, dove fu posta da Dio la prima coppia umana e dove era stato collocato dal Creatore l’albero della scienza del bene e del male, l’albero della vita e quanto potesse essere a beneficio dell’uomo. Gan ‘ eden in ebraico corrisponde al ‘Giardino di delizie’. Pertanto, il termine eden non è sinonimo di paradiso terrestre ma di gioia, di felicità e di pace. Ma dov’era questo giardino di delizie? Il luogo non è stato mai identificato, sebbene la letteratura apocrifa ebraica abbia dato diverse indicazioni. La tradizione neotestamentaria seppe andare oltre ed identificare il paradiso terrestre con la condizione finale di felicità di tutti i giusti. Al buon ladrone Gesù promette il Paradiso celeste non quello terrestre (Luca 23, 43). Dante ricorda nel II canto dell’Inferno che prima di lui S. Paolo ebbe il privilegio di visitare il Paradiso, il luogo promesso alle anime beate, identificato come il regno dei cieli, dove gli spiriti beati vivono insieme con gli angeli e i santi. E ancor prima Enea 'de l’alma Roma e di suo impero/ ne l’empireo ciel per padre eletto' fu degno del privilegio divino del viaggio nell’oltretomba, anche se per fini diversi: S. Paolo per trarre stimolo e conforto alla sua fede, Enea per proseguire nella sua impresa terrena alla luce del progetto provvidenziale del destino di Roma. Secondo sant’Agostino, prima di salire in Paradiso, le anime dei santi trascorrerebbero la loro vita beata in cielo e da qui salirebbero in Paradiso solo dopo la resurrezione dei corpi, alla fine dei tempi, quando Gesù verrà per instaurare il regno di Dio (parusia). I teologi medievali, tra cui Pier Lombardo, S. Bonaventura da Bagnoregio, San Tommaso d’Aquino vanno oltre la distinzione agostiniana, sostenendo l’esistenza di un luogo unico, infinito, sede di Dio, in cui tutti i beati con diversa gradualità gioiscono della visione di Dio. Questa sede è l’Empireo (empyrios = ardente), 'luce intellettual piena d’amore'. Dante segue la tradizione scolastica, ma non tralascia di trattare anche del paradiso terrestre, che colloca sulla cima della montagna del Purgatorio. In tal modo, non tiene conto del racconto della Genesi, ma accetta quanto scrive Ezechiele, il terzo dei grandi profeti dell’Antico Testamento, che pone il giardino dell’Eden sopra un monte tutto scintillante di gemme. Molti popoli come gli Ebrei, gli Indiani, i Greci, gli Arabi, attribuivano ai monti più alti il carattere del sacro, venerandoli come la sede scelta dalla divinità. Il Sinai per gli Ebrei, il monte Ararat su cui dopo il diluvio universale si adagiò l’arca di Noè, l’Olimpo per i Greci si levavano oltre la regione dei venti, dove lo sguardo umano non poteva penetrare. La descrizione del Paradiso terrestre è funzionale all’Alighieri, in quanto gli consente di incontrarsi con Beatrice che lo accompagnerà attraverso i cieli del paradiso celeste. Il giardino delle delizie non è mai turbato dalle condizioni atmosferiche che conosce la Terra, il cielo spande una luce sette volte più chiara del nostro giorno, non vi scendono mai le tenebre né la notte, si respira un’aria dolcissima e 'senza mutamento', è immune dalla morte e dalle malattie, 'fatto per proprio dell’umana specie'. Se pensiamo al valore ascensionale dell’itinerario dantesco in senso morale, l’esperienza del paradiso terrestre, dove lascia la guida di Virgilio, per seguire quella luminosa di Beatrice, consente al poeta actor di essere pronto a vivere la più alta e la più ardua delle esperienze che possa capitare ad un uomo ancora dotato della sua corporeità. Occorrevano per vivere tale esperienza particolari condizioni: Dante attraverso il percorso infernale aveva conosciuto gli orrori del male, si era liberato del grave fardello dei suoi peccati scalando le sette cornici della montagna del Purgatorio e ora nel paradiso terrestre, attraverso il lavacro nei due fiumi che lo attraversano, il Letè e l’Eunoè, dimentica il male commesso mentre può richiamare alla memoria il bene compiuto. Tra le questioni più oziose circa le fonti cui Dante poté ispirarsi per il concepimento del suo viaggio ultraterreno, c’è chi ricorda il Libro delle tre scritture di Bonvesin da la Riva, la nera (Inferno), la rossa (la penitenza), la dorata (Paradiso); il De Babilonia civitate infernali e il De Jerusalem celesti di Giacomino da Verona, anch’egli, come Bonvesin, un frate del XIII secolo, che si esprime con forte realismo per fini etico-pragmatici, con l’intento di colpire l’immaginazione grossolana del suo pubblico, cui minaccia pene terribili per i malvagi e promette gioie indescrivibili ai giusti. C’è chi ricorda il Somnium Scipionis di Cicerone, in cui Scipione Emiliano racconta che gli era venuto in sogno il nonno, Scipione l’Africano, il quale gli aveva descritto una sorta di paradiso celeste, sede degli uomini virtuosi, collocato nella Via Lattea. Questo paradiso pagano è formato, nella descrizione dell’Africano, da tante sfere celesti, che nel loro movimento rotatorio producono una dolce armonia. C’è, infine, chi sostiene che la fonte principale di Dante, per descrivere il suo itinerario mentis in Deum, sia stato il viaggio ultraterreno di Maometto, laddove la tradizione islamica ritiene che il Profeta, per diretto intervento divino, sia sceso negli Inferi e poi elevato alle sfere celesti, fino al cospetto di Allah: 'Lode a Colui che ha rapito il suo servo di notte, trasferendolo dalla Moschea Sacra alla Moschea Remota' (primo versetto della sura XVII del Corano). Se anche è probabile che Dante e i poeti dello Stil Novo si siano dedicati al culto della Sophia Perennis, dove la donna appariva come epifania del sacro, una pura astrazione filosofica, nella Commedia Dante supera l’esperienza dei Fedeli d’Amore e transita da ogni forma di iniziazione esoterica alla veridicità oggettiva del reale . I personaggi più importanti che lo guidano nel suo itinerario spirituale sono tratti dalla storia: Virgilio, Catone, Beatrice, San Bernardo, seppure abbiano un significato allegorico, mai annullano la loro fisionomia individuale. Secondo l’interpretazione figurale del Medioevo, ripresa Erich Auerbach, essi sono in continua correlazione con la dimensione dell’eterno: i personaggi che Dante incontra hanno vissuto sulla terra un’esistenza provvisoria e imperfetta, e solo nell’aldilà diventano figurae impletae, raggiungono cioè la loro realizzazione completa. Dante vuole che il lettore attribuisca alla sua opera il valore di una esperienza realmente vissuta e non la consideri una 'bella menzogna'. Il poeta vuole che il suo 'poema sacro', a cui 'ha posto mano e cielo e terra' (Par., XXV, vv.1-2) sia letto al modo in cui si leggono i fatti narrati nella Bibbia, dove prevale l’allegoria in factis dei teologi su quella in verbis dei poeti. Al di là di ogni ricerca filologica o esoterica, l’opera di Dante va considerata per la straordinaria capacità lirica, immaginativa, narrativa e linguistica, da cui è nato un capolavoro su cui l’umanità intera può rispecchiarsi nei suoi difetti, nelle sue passioni, nelle sue debolezze come pure nella speranza che deve guidare ciascuno ad uscire dalle tenebre dell’ignoranza per iniziarsi verso la luce della verità e della grazia. La cantica del Paradiso era stata completata da Dante alla data della sua morte fra il 13 e il 14 settembre del 1321 a Ravenna. Eppure i figli non riuscivano a trovare gli ultimi tredici canti. La leggenda vuole che sia stato il figlio Iacopo a trovarli otto mesi dopo custoditi in una nicchia dietro una tenda. Il Paradiso è dedicato all’amico Cangrande della Scala, signore di Verona, al quale il poeta indirizzò all’inizio del 1315 una famosa lettera, anche se alcuni dubitano sulla sua autenticità, che contiene indicazioni preziose circa la lettura del poema riguardanti: il soggetto, la pluralità dei sensi, il titolo, la finalità dell’opera. Dante sperava di ricevere la laurea di poeta grazie alla cantica del Paradiso, ma ne rimase deluso: O divina virtù se mi ti presti/ tanto, che l’ombra del beato regno,/segnata nel mio capo, io manifesti,/ venir vedra’mi al tuo diletto legno,/ e coronarmi, allor, di quelle foglie,/ che la materia e tu mi farai degno' (Par,. I, vv.22-25) . Ma, scrive il Carducci, 'levata a pena la mano degli ultimi versi del Paradiso, l’anima dell’Alighieri, quasi non avesse più altro a fare co ‘l mondo, fu … raccolta in grembo di Beatrice; cotest’anima rade volte o non mai era stata consolata da quelle apparenze sensibili di gloria che pur lusingano anche i più gravi.. A lui non donativi né beneficii, ma gli misurarono il pane che sapeva di sale, e questo talor gli mancò: né principi gli mossero incontro su le porte delle città né popolani lo accolsero in camere messe a porpora e oro, ma in vece apparì vile agli occhi di molti: non lo visitarono i grandi, ritti in piedi co ‘l capo scoverto e rispettosamente inchinati dinanzi a lui seduto, ma per diletto gli aizzarono a dosso i motteggi de’ loro buffoni. Né cavaliere né dottore né laureato, ma cittadino fuoriuscito del comune di Firenze ….. Antonino Tobia
Inserito il 08 Febbraio 2011 nella categoria Relazioni svolte
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