La dotta relazione di Antonino Tobia ha evidenziato, non soltanto la lenta evoluzione del latino volgare, ma anche la più commovente espressione dell'amore di San Francesco verso tutto il Creato.
Relatore: Prof. Antonino Tobia
Dopo la caduta dell’Impero romano, la lingua latina continuò ad essere l’unico mezzo di comunicazione scritta nell’Europa occidentale. Gradualmente, a distanza di alcuni secoli, la lingua parlata, cioè, il volgare cominciò ad essere usato nella comunicazione scritta, su un piano di innovazione e di imitazione del latino. L’uso del volgare fece venir meno l’unità linguistica della lingua latina, generando modi e forme diverse di espressione, a seconda degli usi, dei costumi, delle condizioni politiche e culturali di chi scriveva in volgare. Si accentuò, in tal modo, la frattura fra lingua parlata e lingua scritta, con il risultato che da una parte si ebbe una pluralità di dialetti nelle diverse regioni; dall’altra si assistette ad uno sforzo di conservazione della lingua latina, che continuò ad essere impiegata nella produzione colta da filosofi, teologi, eruditi. Il Cristianesimo apportò un notevole contributo nelle modificazioni della lingua latina sul piano lessicale e grammaticale. La diffusione della nuova religione risente linguisticamente dell’influenza della lingua greca, che a Roma era parlata dai primi cristiani che provenivano dall’Oriente greco, e soprattutto dell’accoglienza del nuovo credo da parte delle plebi urbane, che diedero vita ad un latino volgarizzato. Ai padri della Chiesa non dispiaceva che il latino dei cristiani assumesse una sua caratterizzazione : 'Habent enim christiani lingua sua, qua utantur' (Agostino 354-430). D’altronde, sottolineava il filosofo di Tagaste, il successore indicato da Cristo non fu un oratore né un senatore, ma un umile pescatore, ed era meglio essere rimproverati dai grammatici, che non essere capiti dal popolo. Quindi la Chiesa cercava di diffondere il suo apostolato con un rinnovamento integrale della vita spirituale e materiale, seguito da notevoli innovazioni linguistiche. Così il termine virtus assunse un significato diverso rispetto a quello della civiltà latina, molto vicino all’ areté dei greci. La virtù cristiana acquistava una valenza tutta etico-religiosa, corrispondente alle virtù cardinali (sapienza, fortezza, giustizia, temperanza), che venivano riconosciute anche da Dante agli stessi pagani, e alle teologali (fede, speranza, carità), in dote solo ai cristiani. Con fides non si indicò più solo la fedeltà, la parola data, l’impegno preso, ma esclusivamente la fede in Dio. Captivus assunse il significato di captivus diaboli, prigioniero del diavolo e perciò malvagio, peccatore, di contro al precedente prigioniero di guerra.
Anche il verbo tradere, nel latino classico 'consegnare', venne collegato dai cristiani al tradimento di Giuda, che consegnò Cristo nelle mani dei sommi sacerdoti. Così pure il vocabolo salus non indicò più solo la salute fisica, bensì la salvezza eterna promessa dal sacrificio di Cristo. I romani, poi, definivano pagani i borghesi, i civili, in opposizione ai militari. Così i cristiani si considerarono diversi dai pagani, anch’essi soldati, ma di Cristo. Con la diffusione del Cristianesimo ben presto i pagani furono identificati con i gentiles, cioè con coloro che non appartenevano al popolo di Dio, ma ad altre gentes. Il termine pagano più tardi finì con l’essere riferito agli abitanti dei villaggi (pagi), la cui conversione al Cristianesimo avvenne in epoca posteriore alla conversione degli abitanti delle città.Venendo a mancare l’unità politica dell’Impero romano, si assistette alla frattura della lingua parlata e scritta, che generò quella che i linguisti chiamano diglossia: l’uso del volgare per la lingua parlata, l’impiego del latino, con le variazioni e i volgarismi assorbiti nel tempo, per la lingua scritta. Durante il Medioevo, la Chiesa affrontò il problema della lingua come strumento di comunicazione con le masse e quello culturale in funzione dei rapporti con la tradizione pagana. S. Girolamo, S. Agostino, i teologi, i grandi papi e i vescovi, i prelati, che volevano comunicare il messaggio cristiano alle masse incolte, si rendevano conto che la tradizione classica non poteva essere da loro ignorata, anche se lo studio dei classici in qualche padre della Chiesa provocava incubi. Ma, allo stesso tempo, si ponevano l’obiettivo precipuo di farsi capire da tutti i fedeli. Se, infatti, la messa veniva celebrata in lingua latina, mantenendo il mistero del rigido formulario liturgico incomprensibile ai più, il commento del Vangelo e i sermoni avveniva nella lingua del popolo, quella della quotidianità, 'ut qui nescit legere, lingua vestra sit codex', scriveva papa Gregorio Magno (535-604) al vescovo di Efeso, Rufino. E a Sereno, vescovo di Marsiglia, che non era favorevole alla venerazione delle immagini sacre, faceva notare che 'idcirco enim pictura in ecclesiis adhibetur, ut hi qui litteras nesciunt saltem in parietibus videndo legant, quae legere in codicibus non valent'.Da una parte, quindi, la Chiesa si poneva come la più importante fonte di educazione delle masse, utilizzando la lingua volgare e le arti figurative, pittura, scultura, architettura, per la diffusione del nuovo Verbo; dall’altra si preoccupava di conservare il patrimonio culturale della civiltà latina, innestandolo nella giovane cultura cristiana. Lo studio dei libri profani, suggeriva Gregorio Magno, doveva essere congiunto allo studio delle Sacre Scritture, per conseguire una più penetrante intelligenza della parola divina, senza farsi scrupolo di ammirare l’opera e la lingua dei classici latini. Essere ciceronianus non voleva dire essere meno christianus.In Italia l’uso scritto del volgare apparve più tardi che altrove, suggerito dalle circostanze della vita quotidiana: si trattava di documenti giuridici, atti notarili, inventari, lasciti, dove era necessario definire strumenti di lavoro, suppellettili, animali, confini di terre e case. Se nelle grandi abbazie benedettine si coltivavano le arti liberali e la cultura classica, nelle stesse la regola del lavoro imponeva l’uso di una lingua rispondente ai bisogni reali della civiltà contadina, della cui organizzazione agraria il monastero era il centro.Il più antico documento in cui si coglie la mescolanza fra latino e volgare è il placito capuano del marzo 960, conservato nell’Abbazia di Montecassino: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti'. Si tratta della dichiarazione di un testimone in un atto giudiziario, in cui il giudice della città di Capua, chiamato a decidere sulla proprietà di certe terre, oggetto della contesa tra l’abate del monastero di Montecassino e il nobile Rodelgrimo d’Aquino, ricorre all’istituto dell’usucapione, a difesa degli interessi dei benedettini, dopo avere ascoltato e verbalizzato il giuramento del teste, riportato nella lingua di chi lo pronunciava, mentre il verbale del processo era redatto in latino.L’uso del volgare finì con l’interessare la poesia religiosa, i canti di lode e le preghiere a Dio per l’esigenza dei fedeli di esprimere i propri sentimenti. La poesia religiosa scrisse le prime pagine della letteratura italiana nel XII secolo, quando già da un secolo in Provenza fioriva l’elegante lirica dei trovatori in lingua d’oc.La poesia religiosa in Italia nacque nel XIII secolo in Umbria, a seguito dei vari movimenti religiosi di massa, come i flagellanti di Raniero Fasani, che sfilavano in processione percuotendosi in atto di espiazione dei peccati. Questi spiriti asceti, mal tollerati dalla Chiesa, quando non perseguitati, intonavano canti corali in volgare, che si trasmettevano oralmente da città in città, dando origine alla lauda, forma originale e collettiva di preghiera, che costituì il primo nucleo della sacra rappresentazione, illustrata grottescamente nel suo Mistero buffo da Dario Fo.Così riferisce il frate francescano Salimbene da Parma nella sua Cronaca in latino, pervenutaci autografa: Ambulabant nomine in salvatione. Et componebant laudes divinas ad honorem Dei et beate Virginis, quas cantabant, dum se verberando incederent. Questi canti venivano raccolti e messi per iscritto nei laudari, e conservati dalle singole confraternite.In questo clima di ascetismo spirituale cresce il primo grande autore di poesia religiosa del ‘200, Francesco d’Assisi (1182-1226).Il suo Cantico di Frate Sole o Laudes creaturarum, oltre ad essere apprezzato per il profondo sentimento religioso che lo pervade, in maniera tutta nuova rispetto al clima delle confraternite medievali dei flagellanti, è riconosciuto come il primo testo di poesia in volgare della letteratura italiana.Francesco nacque alla fine del XIII secolo ad Assisi in un’agiata famiglia borghese. Il padre, Pietro Bernardone, commerciava in tessuti e spesso si recava in Francia, per partecipare alle fiere e stabilire contatti con altri commercianti che lì giungevano da ogni parte d’Europa. Francesco nacque proprio mentre il padre era lontano. La madre, donna Pica, francese d’origine, chiamò il neonato Giovanni, ma il padre al suo ritorno volle che suo figlio si chiamasse Francesco, 'il francesino' e ciò per sottolineare l’amore che lo legava alla moglie e alla terra di Francia. Francesco crebbe negli agi di una famiglia benestante, che ne curò il corpo e la mente, sebbene il suo primo biografo, il frate francescano Tommaso da Celano (1200-1265) sostenga che dai genitori ricevette fin dall’infanzia una cattiva educazione, ispirata alle vanità del mondo. Francesco studiò con mediocre successo il latino, ma brillava nella conoscenza del francese e nel canto. Si tramanda che avesse una bella voce e suscitasse l’ammirazione dei suoi coetanei quando cantava le antiche leggende del ciclo bretone o testi lirici provenzali, che aveva appreso dalla madre. L’amore per il canto, anche dopo la conversione, fu coltivato con la gioia di chi si definiva un giullare di Dio. Giovane ricco e bello, non mancava di organizzare feste e balli, spendendo oltremisura. Il padre sognava per il figlio una brillante carriera militare che gli consentisse di essere insignito del titolo di cavaliere, al fine di nobilitare le sue origini borghesi. Bonaventura da Bagnoregio (1218-1274), considerato il biografo ufficiale di Francesco, nella sua Leggenda maggiore, annota con meno severità di fra’ Tommaso che Francesco 'benché fosse incline ai piaceri, non seguì gli istinti sfrenati dei sensi e, benché vivesse tra mercanti e fosse intento ai guadagni, non ripose la sua speranza nel denaro e nei tesori'. Gli anni in cui Francesco si avviava a partecipare alla vita pubblica di Assisi erano segnati da seri turbamenti politici e profondi cambiamenti sociali. Le città dell’Italia centro settentrionale lottavano contro il potere imperiale e papale, per acquistare una loro autonomia politica e amministrativa, libere dai condizionamenti feudali. La città di Assisi nel 1198, ventidue anni dopo la famosa battaglia di Legnano (1176), in cui l’imperatore Federico Barbarossa era stato sconfitto dai Comuni, insorse contro i rappresentanti del potere imperiale, dei nobili e dell’alto clero, desiderosa di gestire il potere politico accanto a quello economico. Le famiglie nobili furono costrette a rifugiarsi a Perugia, città rivale di Assisi. Ma appena due anni dopo, Perugia, sostenuta economicamente e militarmente dai fuorusciti assisiati, tra i quali il padre della futura santa Chiara, dichiarò guerra ad Assisi. Francesco così ebbe il battesimo delle armi, sperando di ricoprirsi di gloria. Invece, le truppe della sua città furono sconfitte e molti soldati caddero prigionieri. Francesco fu rinchiuso per un anno nel carcere di Perugia. Questa triste esperienza, che si concluse con una forte somma di riscatto, lo aveva provato più nel corpo che nello spirito. Il sogno di diventare un nobile cavaliere era ancora nei suoi progetti di giovane ricco e borghese. Decise quindi di unirsi ad un drappello di soldati che si recava in Puglia a combattere a fianco delle milizie pontificie. Però, durante la marcia fu assalito dalla febbre e costretto a rientrare a piedi da Spoleto ad Assisi. Il sogno di diventare un grande cavaliere questa volta era tramontato miseramente. Francesco tentò di riprendere la vita di giovane gaudente, ma la sua voglia di vivere non trovava più soddisfazione nei piaceri della vita mondana. Al contrario amava la solitudine della campagna, il silenzio dei boschi, i luoghi meno frequentati. Tommaso da Celano racconta che Francesco si recò in pellegrinaggio a Roma per trovare una risposta al suo nuovo stato d’animo. Qui giunto, si privò di tutti i denari che aveva portato con sé per umiliarsi a chiedere l’elemosina. L’itinerario spirituale di Francesco era iniziato e due esperienze, in particolare, segnarono definitivamente la sua palingenesi interiore ed esistenziale: l’atto scandaloso del bacio al lebbroso a Gubbio nel 1206 e l’episodio della ricostruzione della piccola chiesa di San Damiano, nella periferia di Assisi, dove egli si raccoglieva in preghiera, prostrandosi davanti all’immagine del Crocifisso. Qui si narra che Francesco udì la voce proveniente da quella sacra immagine dipinta su tela, che si conserva nella basilica di Santa Chiara ad Assisi: Vade Francisce, repara domum meam quae labitur. Il giovane obbedì e si diede da fare per la riparazione di questa e di altre chiese che giacevano in condizioni precarie, ricavando il denaro dalla vendita dei tessuti migliori che il padre, assente, custodiva nei suoi magazzini. Solo più tardi comprese che a lui era stato assegnato il compito ben più arduo di riedificare la Chiesa di Cristo, attraverso la costruzione del tempio della sua coscienza . Quando Pietro Bernardone ritornò ad Assisi e si accorse che il figlio aveva saccheggiato buona parte dei suoi beni per la ricostruzione di alcune chiese e per aiutare i poveri, tentò in un primo momento di farlo rinsavire con le punizioni, tenendolo chiuso a casa, poi, vista inutile ogni minaccia, lo denunciò al governo cittadino. Francesco dovette però presentarsi dinanzi al tribunale ecclesiastico, perché aveva commesso un furto per la ricostruzione della chiesa di S. Damiano. Era la primavera del 1206. Davanti al vescovo si spogliò dei suoi abiti e nudo si rivolse al padre dicendo: 'Finora ho chiamato te, mio padre sulla terra, d’ora in poi potrò dire Padre nostro che sei nei cieli'. Da questo momento Francesco divenne il Poverello d’Assisi, lo sposo di Madonna Povertà. Così Dante: ' per tal donna, giovinetto, in guerra/ del padre corse, a cui, come a la morte,/ la porta del piacer nessun disserra;/ e dinanzi a la sua spirital corte/ et coram patre le si fece unito;/ poscia di dì in dì l’amò più forte' (Par. XI, 58-63). L’Alighieri affida il panegirico di S. Francesco a S. Tommaso domenicano, che elogia le mistiche nozze di Francesco e la Povertà, scelta di vita che avvicina la vita del santo a Cristo. Ad imitazione del figlio di Dio, Francesco, sol oriens, alter Christus, concluse la sua esistenza terrena, portando le stigmate. Fu questo il terzo 'sigillo' divino, seguito all’approvazione verbale del suo ordine mendicante da parte del papa Innocenzo III e di Onorio III con regolare bolla papale (1223). S. Bonaventura racconta che quando Francesco si recò a Roma per esporre il suo progetto di vita di mendicante, Innocenzo III non volle riceverlo e diede ordine che il poverello d’Assisi venisse allontanato. Durante la notte, però, il papa ebbe un incubo, come se la basilica lateranense stesse crollando e venisse sorretta dalle spalle di un homo pauperculus, modicus et despectus. Svegliatosi profondamente turbato, accolse Francesco, mostrò di apprezzare l’opera del fraticello, che gli appariva lontana dai movimenti ereticali pauperistici del tempo e gli concesse verbalmente di predicare la parola di Dio. Dante nel canto XI del Paradiso, tessendo l’apologia del santo di Assisi, non accenna ai miracoli del frate. A differenza degli agiografi, l’Alighieri sottolinea che la grandezza di Francesco consiste nell’avere tracciato un nuovo percorso spirituale per il risanamento morale della Chiesa, che nel XIII secolo vacillava paurosamente. Alla barca di Cristo urgeva un abile timoniere che la riconducesse lungo il solco segnato dal Vangelo. L’appello alla povertà rappresentava l’ancora di salvezza contro la secolarizzazione: Oh ignota ricchezza! Oh ben ferace! (v.82). La scelta della povertà come compagna di vita conferisce paradossalmente forza e dignità regale al figlio di un semplice mercante, che sotto l’egida della sua fede osa presentarsi al cospetto del Sultano Malek al-Kamil, nipote del celebre Saladino, ingiustamente appellato 'feroce'. A Dante era giunta notizia della rettitudine del Sultano e, infatti, lo colloca nel Limbo tra coloro che non ebbero fede in Cristo. Anche il Boccaccio ne loda la probità e la tolleranza religiosa nella 3^ novella della Prima giornata del Decameron. Leggiamo in Bonaventura che Francesco desiderio martyrii fragrans, al tempo della V Crociata indetta da Onorio III (1219), s’imbarcò ad Ancona per l’Oriente con i Crociati ut Soldani Babyloniae posset adire presentiam. La partecipazione di Francesco alla Crociata fu animata da spirito missionario, più che dal desiderio di contribuirvi come supporto. Del resto già i numerosi frati dell’Ordine avevano intrapreso i loro viaggi per le varie regioni d’Europa per portarvi la parola di Cristo presente nell’esempio vivente di Francesco. Con un gruppo di dodici suoi confratelli visse accanto ai soldati dell’esercito cristiano, predicando invano l’amore, la pace e la tolleranza, indispettendo il legato pontificio, Pelagio Galvan, acceso di furore bellico. Il suo progetto di difendere la pace con la fede gli fallì nel campo cristiano. Perciò, si decise a far conoscere il messaggio di Cristo ai musulmani. A differenza delle tante dubbie leggende legate alla vita di Francesco, l’incontro con il Sultano è un episodio storico. Francesco, accompagnato da fra’ Illuminato, si diresse verso gli accampamenti saraceni e chiese di essere ricevuto dal Sultano.Il Sultano accolse favorevolmente Francesco e lo invitò a trattenersi nella sua corte, consentendogli di predicare per alcuni giorni alla sua gente. Lo storico contemporaneo di Francesco, il vescovo francese Jacques de Vitry, aggiunge che il Sultano si sarebbe raccomandato alle preghiere del frate con queste parole: 'Prega tu per me, affinché Dio mi riveli la religione che gli è più accetta' (Cfr. Orientalis et occidentalis historia). Francesco strinse con il Sultano una profonda amicizia, ma ebbe modo di trovare una profonda affinità tra la sua fede e l’islam: se muslim vuol dire sottomissione a Dio, anche l’aggettivo che egli aveva dato al suo ordine di Frati minori presupponeva la completa obbedienza al Creatore, in perfetta sintonia con lo stesso termine islam, che in lingua araba significa totale abbandono di sé alla volontà divina. I continui richiami alla preghiera dei fedeli musulmani gli fecero cogliere anche la differenza con la superficiale condotta religiosa dei crociati, per niente inclini all’osservanza dei precetti cristiani.Francesco non riuscì ad evitare lo scontro tra i due eserciti. La città di Damietta, in Egitto, alla foce del Nilo, fu conquistata dai cristiani in un’orgia di sangue. Il Sultano sfuggì al saccheggio, ma due anni dopo riuscì a riconquistare la città. Francesco, rattristato da tanta violenza, grazie ad un salvacondotto che il suo amico Al-Kamil gli aveva rilasciato, poté recarsi in Palestina per visitare i luoghi santi. In Terra Santa lo raggiunse la triste notizia che cinque suoi frati, che erano andati a predicare in Marocco, erano stati decapitati a Marrakesh. La missione di Francesco non ebbe i risultati sperati e perciò 'per trovare a conversione acerba/ troppo la gente e per non stare indarno,/ redissi al frutto dell’italica erba/ ; nel crudo sasso intra Tevero e Arno/ da Cristo prese l’ultimo sigillo,/ che le sue membra due anni portaro.' (Par., XI vv. 103-108). Nel monte della Verna Francesco ricevette le stimmate, che portò fino alla sua morte.La Porziuncola divenne la sede della fraternità francescana. Si tratta di una antichissima cappella nella vallata del Tevere, ai piedi di Assisi, ceduta nel 1211 dai benedettini a Francesco, che ne fece il centro del suo Ordine. Intorno ad essa fu costruita nel XVI secolo la basilica di santa Maria degli Angeli, che copre anche la Cappella del Transito dove il Santo spirò nel 1226. La Porziuncola è meta di pellegrinaggio il 2 agosto per il perdono di Assisi, indulgenza concessa da Onorio III nel 1216, appena eletto papa.Quattro anni prima, la notte della Domenica delle Palme del 1212 Chiara, figlia del conte Favarone Offreduccio, aveva abbandonato la casa paterna per correre alla Porziuncola, decisa ad abbracciare la regola della povertà predicata da Francesco. Il papa Innocenzo III prima di morire le concesse il 'privilegio della povertà', ufficializzando la nascita dell’ordine di Santa Chiara o delle Clarisse, la cui regola fu scritta da Francesco.Il Cantico di Frate Sole rappresenta non solo il primo componimento poetico di altissimo livello della letteratura italiana, ma anche la più toccante espressione dell’amore del Santo verso tutto il creato.
Inserito il 21 Aprile 2015 nella categoria Relazioni svolte
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