Nel grande Auditorium Parrocchiale 'Il Leccio' di via Madonna di Fatima, la Libera Università ha ripreso le attività culturali con una ricca e articolata relazione del nostro Presidente, prof. Antonino Tobia
Relatore: Prof. Antonino Tobia
Si riporta qui di seguito l’allocuzione di apertura delle attività con la relazione del prof. Antonino Tobia.
Cari amici della Libera Università, stare insieme questa sera è un privilegio, perché questo incontro ci consente di comunicare i nostri affetti con lo sguardo, col sorriso, con il piacere di ascoltare le nostre voci.
[b]La catastrofe della pandemia minaccia il mondo intero e come una spada di Damocle pende sul nostro umanesimo civile e sull’intero ecosistema culturale, che è fatto di poesia, musica, cinema, pittura e di tutte quelle muse che hanno consentito all’uomo di elevarsi culturalmente e spiritualmente. Il covidsi è rivelato una vera tragedia, nel senso aristotelico del termine. Nel teatro greco gli eroi del dramma erano vittime della invidia degli dei e la rappresentazione del male e del dolore doveva fungere da catarsi per gli spettatori. Nell’Ellade antica il singolo individuo era punito dalla divinità per la sua tracotanza. Oggi, l’alto consiglio di Giove colpisce la tracotanza dell’umanità intera, colpevole di muovere grave oltraggio alla natura, arrogante nel disprezzo delle leggi che governano il pianeta. 'E la gente peria', canta Omero, per colpa del sacrilegio commesso dall’ Atride Agamennone, la cui empietà ricadeva su tutti gli Achei, che combattevano sotto le mura di Ilio.[/b]
[b]Questa nuova pestilenza ha inibito la libertà d’azione di ciascuno, ponendo stretti limiti alla socialità, che è fatta di relazioni umane, di incontri e di confronti. Noi, amici della Libera Università, che dal 2007 abbiamo vissuto insieme mille esperienze di un’attività ricca di spunti culturali, sociali e umani, siamo convinti che bisogna resistere, accettareil cambiamento e ritornaread agire e programmare col medesimo atteggiamento di stima e di amicizia che ci ha condotto fino ad oggi.[/b]
[b]Cercheremo, quindi, di poter riprendere i nostri incontri culturali già da questa sera in questo magnifico auditorium della parrocchia Madonna di Fatima, ove la sensibilità umana e culturale del parroco, padre Nino, ci accoglie come amici della parola e sostenitori della sociabilità umana, che implica l’attitudine a vivere insieme. [/b]
[b]La nostra vita è un ponte sospeso tra due pilastri che si chiamano passato e futuro. Se viene a mancare il primo, il nostro presente diventa un cammino cieco. Se invece viene a mancare il secondo la nostra esistenza ci appare come una strada senza uscita. Ed è proprio la sensazione che abbiamo adesso: la pandemia ha fatto ammalare il tempo e ci nasconde il futuro. [/b]
[b]Così scriveva l’antropologo Marino Niola sulla pagina culturale di Repubblica venerdì 14 luglio 2020. [/b]
[b]Qual è l’effetto più devastante della malattia del tempo, che stiamo vivendo a livello mondiale? :l’impossibilità di comunicare fisicamente, di incontrarsi, di abbracciarsi, di stringersi le mani,di sentirsi partecipi della vita reale e non virtuale, quella che siamo costretti ad accettare nelle attuali condizioni. La comunicazione, dal verbo latino communicare, implica l’atto del mettere in comune, del coinvolgere, del trasmettere ad altri, di stabilire una relazione con la parola, con il gesto, con il silenzio.Abbiamo finora vissuto come chiusi in un labirinto, dove ogni via d’uscita appare ingannevole. Sarà possibile liberarsene, ne siamo convinti, solo se ci doteremo delle ali della nostra intelligenza e della consapevolezza dei nostri limiti.[/b]
[b]L’impossibilità di uscire da questa prigione senza pareti ci impedisce di esistere, dal latinoexsistere, che vuol significare venir fuori, sorgere, presentarsi, rivelarsi, quindi essere per sé e per gli altri. La felicità è reale solo quando è condivisa. (Lev Tolstoj – La felicità familiare). ...[/b]
[b]I social network oggi assumono un ruolo importante nell’atto del comunicare, sopperiscono in questi giorni di pandemia al bisogno di relazionarsi col mondo, fanno sentire meno soli, ma non sono capaci di farci vincere la solitudine, che genera vuoto, privazione, senso di isolamento, quando essa ci viene imposta.[/b]
[b]La comunicazione diretta in presenza coinvolge la sfera di tutti i cinque sensi nel rapporto io–altro, la vista, il tatto, l’udito e, se pensiamo alle effusioni sentimentali, anche l’olfatto e il gusto. Al contrario la comunicazione virtuale non va oltre i sensi della vista e dell’udito e non soddisfa il bisogno umano di eliminare le distanze che, con infelice definizione, sono state definite distanziamenti sociali.[/b]
[b]La misura della distanza sociale non solo rende il rapporto comunicativo freddo e impersonale, ma èscientificamente dimostrato che l’isolamento sociale ha gravi ripercussioni sull’umore e sulla salute, in quanto impone all’uomo di rinunciare al suo comportamento naturale.[/b]
[b]La solitudineè una condizione accettabile e positiva solo se è richiesta dall’individuo come antidoto allo stress accumulato durante la giornata, o se è scelta come spazio riservato alla propria creatività, all’espressione artistica, alla meditazione, all’otiumche ha consentito a Cicerone di comporre le sue opere più importanti lontano dai negotiae a tanti di noi permette di curare i propri hobby liberi da ogni interferenza esterna.Se, però, si è costretti alla solitudine,l’organismo, a detta della scienza medica, può subire gravi danni, con conseguenze cardiovascolari, ormonali, depressive, mentali.[/b]
[b]La solitudine è, quindi, una condizione bipolare di sofferenza e creatività. La sfera della solitudine può a volte essere senza luce, e diventare un incubo, ma può improvvisamente illuminare la parte più intima dell’individuo, aiutarlo ad ex-sistere, a rivelarsi, a trasfigurare e sublimare la realtà, 'con animo perturbato e commosso', per usare l’espressione vichiana.[/b]
[b]In questa seconda parte della mia relazione,mi sono proposto di superare l’atmosfera grave e grigia che finora ci ha schiacciati, per rivivere le diverse forme di solitudine che i poeti hanno affidato ai loro versi. La solitudine è stata la loro musa, ha svelato i loro stati d’animo, ha sublimato la loro angoscia, la cui eco giunge fino a noi.[/b]
[b] (Saffo VII-VI sec. a. C.)[/b]
[b]Tramontata è la luna
e le Pleiadi a mezzo della notte
anche giovinezza già dilegua,
e ora nel mio letto resto sola.
Scuote l’anima mia Eros,
come vento sul monte
che irrompe entro le querce;
e scioglie le membra e le agita,
dolce amara indomabile belva.
Ma a me non ape, non miele;
e soffro e desidero. [/b]
[b]La poetessa soffre intimamentela sua solitudine, e questa sua condizione dolorosa scaturisce dall’impossibilità di amare e di essere amata.[/b]
[b]Saffo, la poetessa di Lesbo esprime tutta la sua passione amorosa con parole dettate da uneros travolgente e insoddisfatto. E’ sola sul letto, senza il conforto dell’amore, si strugge e coglie, nel tramonto della luna, il declino della propria giovinezza. [/b]
[b]Il senso della solitudine, il paesaggio lunare, il lento dileguarsi della giovinezza diventeranno dei topoi poetici, cui si ispireranno poeti e artisti nei secoli a venire.[/b]
[b]Solo et pensoso[/b]
[b]( Francesco Petrarca 1304-1374)[/b]
[b]Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.[/b]
[b]Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:[/b]
[b]sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.[/b]
[b]Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
se ragionando con meco, et io co’llui.[/b]
[b]Di diversa natura è la solitudine che il Petrarca affida ai suoi endecasillabi. Egli, infatti, tenta di fuggire ogni contatto umano, sperando di ritrovare se stesso nelle piagge deserte e di non essere soggiogato dalla passione amorosa, che ognuno potrebbe leggere nei suoi atteggiamenti privi di allegrezza. La solitudine non gli è imposta, ma da lui quasi inseguita. Speranza impossibile e vana, perché non basta cambiare cielo per cambiare lo stato d’animo. Nel Canzoniere il poeta canta il suo amore per Laura, che lo costringe a vivere in una condizione di perenne dissidio spirituale e psicologico.La solitudine è ricercata, quindi, come antidoto all’inquietudine, al turbamento e all’angoscia che prova dentro il petto. Non c’è luogo solitario, aspro e selvaggio che possa assicurareun po’ di pace al suo spirito agitato.[/b]
[b]Il tema della solitudine è trattato dal poeta anche in prosa latina, nelDe vita solitaria, dove la solitudine è esaltata dal punto di vista etico, come condizione necessaria per attendere agli studi, lontano dalle ambizioni mondane. Il poeta riconosce che la solitudine moltiplica il tempo interiore e aiuta ad utilizzare nel modo migliore il tempo presente.[/b]
[b]È difficile trovare un sonetto così pieno di cose, e che con così poca ostentazione di passione sia più appassionato (F. De Sanctis)[/b]
[b]ll passero solitario
(Giacomo Leopardi 1798.1837)[/b]
[b]In su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de’ provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch’omai cede la sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell’aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni nostra vaghezza
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all’altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? Che di me stesso?
Ahi pentiromi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.[/b]
[b] E’ il canto della contemplazione solitaria, che ispirò ii poeta dei Piccoli idilli(1819-21). Non conosciamo di fatto la data di composizione di questo canto, che Leopardi inserì nell’edizione napoletana dei Canti (1835), a simbolo della sua solitudine esistenziale , imposta dal natio borgo selvaggio, che non gli consentiva di comunicare col mondo al di là della siepe. La struttura del Canto, comunque, richiama quella dei Grandi Idilli per la riflessione filosofico-meditativa che occupa la terza strofa.Nelle prime due strofe, il passero è l’interlocutore del poeta. Come l’uccello vive appartato in solitudine, evitando di partecipare agli spassi dei compagni, che salutano la primavera, facendo a gara insieme 'per lo libero ciel…mille giri', così il giovane poeta non cura ' 'sollazzo e riso, della novella età dolce famiglia, / e te german di giovinezza amore,/ sospiro acerbo de’ provetti giorni'. Il vivere appartato non si addice all’età giovanile, che segna la primavera dell’esistenza umana. Il poeta sente il bisogno di comunicare, ma il suo 'costume' glielo impedisce, resta chiuso nel suo studio tra le sudate carte, non prova in cuore la gioia di mirare ed essere mirato insieme con la gioventù del luogo.Egli sa, pure, che corre una fondamentale diversità tra il costume del passero e il suo modus vivendi. Una diversità che certo oppone l’uno all’altro. Il passero è guidato dal suo istinto naturale, che lo induce a cantare finché non muore il giorno, schivando la compagnia degli altri uccelli, senza provare alcuna tristezza. Al contrario, il poeta soffre la solitudine impostagli dal gretto ambiente in cui vive, che gli impedisce di godere dei suoi anni più belli. Trascorsa la primavera della vita, restano solo rimpianti, sconforto e l’amara nostalgia dell’età non goduta. [/b]
[b]La solitudine
(Trilussa 1873-1950)
Quand’ero ragazzino, mamma mia
me diceva: 'Ricordati fijolo,
quando te senti veramente solo
tu prova a recità ‘n’ Ave Maria
l’anima tua da sola spicca er volo
e se solleva, come pe’ maggia'.
Ormai so’ vecchio, er tempo m’è volato;
da un pezzo s’è addormita la vecchietta,
ma querconsijonun l’ho mai scordato.
Come me sento veramente solo
io prego la Madonna benedetta
e l’anima da sola pijaer volo![/b]
[b]Carlo Alberto Salustri, noto con l’anagramma di Trilussa, ancora oggi è ricordato come un grande poeta in dialetto romanesco (1871-1950). La sua satira fu assai popolare, perché era di immediata lettura e rispondeva ai canoni del buon senso comune. Di umili origini, rimase orfano all’età di tre anni. La madre tentò di fare studiare il figlio, senza successo. Carlo. dopo aver ripetuto la seconda e la terza elementare, abbandonò gli studi, ma cominciò ad appassionarsi di poesia dialettale sulla orme di Gioacchino Belli. Tra le tante poesie stampate sul Rugantino, rivista in dialetto romanesco fondata nel 1848, grazie alla concessione di Pio IX di una pur limitata libertà di stampa, riscossero un successo clamoroso le Stelle de Roma, una serie di circa trenta [/b][b]madrigali che omaggiavano alcune delle più belle fanciulle di Roma. Sul giornale Don Chischiotte Trilussa si rivelò mordace favolista, con la pubblicazione di dodici favole,dette rimodernate perché erano favole antiche con la morale nuova. Non prese la tessera del Fascismo, ma ebbe rapporti di serena convivenza col regime, non dichiarandosi mai antifascista, bensì non fascista. Il Presidente della Repubblica Luigi Einaudinominò Trilussa senatore a vitail 1º dicembre 1950, venti giorni prima che morisse.Spirito laico, acuto osservatore della realtà, trova nella poesia la sua dimensione umana, che non disdegna il valore della fede, soprattutto quando questa è alimento assorbito con il latte materno. [/b]
[b]Ed è subito sera
(Salvatore Quasimodo1901-1968)[/b]
[b]Ognuno sta solo
sul cuore della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.[/b]
[b]La solitudine è unita al tema dell’incomunicabilità, come pure alla precarietà della sfera sentimentale e affettiva che ognuno cerca di creare attorno a sé. Vivere vuol significare provare sentimenti, che illuminano la nostra esistenza ,trafiggendola a volte con dolore. Ma il raggio di sole che improvvisamente ci ferisce, con la medesima velocità tramonta.La poesia dà il titolo alla raccoltaomonima del 1942. Questi tre versi costituivano l’ultima strofadella poesia intitolata Solitudine.[/b]
[b]Salvatore Quasimodo, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1959, fu esponente di rilievo dell’ermetismo, da cui si distaccò dopo la Seconda guerra mondiale, ritornando al concetto di poeta vate, guida morale della sua gente, nobile esempio di poesia civile. Oltre al suo impareggiabile genio poetico, Quasimodo è tuttora apprezzato come abile traduttore di vari componimenti del mondo classico, avendo studiato privatamente il latino e il greco sotto la guida di monsignor Mariano Rampolla, che fu maestro anche di Giorgio La Pira e di mons. Montini, poi Paolo VI.[/b]
[b] Il messaggio epigrammatico di questo breve testo del poeta di Modica acquista toni altamente drammatici nei versi di Eugenio Montale.[/b]
[b]Spesso il male di vivere ho incontrato[/b]
[b]( Eugenio Montale 1896-1981)[/b]
[b]era il rivo strozzato che gorgoglia,[/b]
[b]era l’incartocciarsi della foglia[/b]
riarsa[b] [/b][b]2[/b][b], era il cavallo stramazzato[/b][b] 3.
Bene non seppi[b], fuori del prodigio[/b][b] 4
[b]che schiude la divina Indifferenza[/b][b] 5:
[b]era la statua nella sonnolenza[/b]
del meriggio[b], e la nuvola, e il falco alto levato.[/b]
[b]È il manifesto poetico della dolorosa concezione esistenziale montaliana, che richiama alla memoriail tema del ' male di vivere' del Canto notturno di un pastore errante dell’Asiadi Giacomo Leopardi.La lirica fa parte della raccolta 'Ossi di seppia.[/b]
[b]La prima quartina focalizza il malessere esistenziale, espresso attraverso correlativi oggettivi, che il poeta trae dalla realtà quotidiana: "il rivo", "la foglia", "il cavallo", elementi naturali colti nel momento della loro sofferenza e precarietà, simboli del male che grava su tutti gli esseri animati e inanimati. .
Nella seconda quartina, il poeta cerca un antidoto al male di vivere. Ma, è assente il titanismo romantico del poeta di Recanati, che accettava la lotta per l’esistenza e poneva a rimedio del male di vivere l’impegno eroico di una social catena umana contro la natura matrigna. Montale, invece, al "male di vivere" contrappone un silenzio drammatico, non leva alcuna voce di protesta e si rifugia nella'indifferenza", in una condizione di passiva accettazione che considera un dono del cielo e perciò divina. La stessa indifferenza è esemplificata con dei correlativi oggettivi come "la statua", "la nuvola" e il "falco", che ci richiamano alla memoria momenti della pittura metafisica di Giorgio De Chirico. Nel 1975 Eugenio Montale ricevette il premio Nobel, per aver interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni. [/b]
[b]Dopo avere esaminato il tema della solitudine, attraverso questa breve antologia di testi letterari,vorrei richiamare la mia e la vostra attenzione alle responsabilità che gravano su di noi nel rapporto con la biosfera, di cui siamo solo ospiti temporanei. Perciò mi avvalgo delle parole che concludono il romanzo la Coscienza di Zeno di Italo Svevo, pubblicato nel 1923. [/b]
[b]Con parole di profetica chiaroveggenza, lo scrittore triestino annotava:[/b]
[b]' La vita somiglia un poco alla malattia… ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure' … ' La vita attuale è inquinata alle radicie la causa di tale inquinamento è da ricercare proprio nella disumanità del progresso che ha indotto l’uomo a distruggere alberi, bestie e ad inquinare l’aria. Quanto più 'l’occhialuto uomo' crede di essere diventato 'più furbo' tanto più debole è diventato. Il progresso e la scienza, non più collegate alle reali esigenze dell’uomo, non possono non arrecare danni sempre più gravi, fino all’estrema 'catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni', che farà ritornare la terra 'alla forma di nebulosa' e ad errare 'nei cieli priva di parassiti e di malattie'.[/b]
[b]Dopo i milioni di morti provocati dal primo conflitto mondiale, definito da papa BenedettoXV una 'inutile strage' e a seguito della pandemia influenzale della Spagnola, che tra il 1918 e il 1920 uccise cinquanta milioni di persone nel mondo, Svevo non poteva più nutrire alcuna fiducia nell’uomo moderno, che gli appariva come un dio malefico, capace di distruggere e di distruggersi.[/b]
[b]Forse l’esperienza di questa pandemia ci farà cambiare in meglio, se finalmente avremo preso atto dei nostri limiti e delle nostre capacità, forse questa immane malattia planetaria ci farà apprezzare ancor più il valore dello stare insieme e il significato dell’amicizia, nel cui etimo è compreso il valore dell’amore. Forse questa condizione di precarietà ci ha aiutato a renderci conto che esiste solo il presente,e che si sta come d’autunno sugli alberi le foglie G. Ungaretti).[/b]
[b]Ma, finché ci possiamo contare, riunirci e comunicare dobbiamo fare nostre le parole che Antonio Gramsci, pur in condizioni estreme,ci ha lasciato nelle sue Lettere dal carcere: [/b]
[b]'Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi all’opera, ricominciando dall’inizio'. [/b][b]Prof. Antonino Tobia[/b]
Inserito il 22 Maggio 2021 nella categoria Relazioni svolte
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