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Giuditta, la vedova eroina, nelle versioni gentilesche

Un dettagliato e dotto contributo dello studioso d'arte, dott. Giuseppe Abbita sulle rappresentazioni pittoriche di Giuditta, la vedova eroina

Relatore: Dott. Giuseppe Abbita

A Gisella Pipitone D’Amico e a quanti Le vollero e Le vogliono bene.

DI PADRE IN FIGLIA. GIUDITTA, LA VEDOVA EROINA, NELLE VERSIONI GENTILESCHE

Giuditta era una giovane donna ebrea, vedova di un proprietario terriero, morto, improvvisamente, di insolazione. Quando Oloferne, generale di Nabucadonosor, cinge d’assedio la sua città, decide di aiutare i suoi abitanti congegnando un terribile piano. Smette le vesti vedovili, si lava, si copre di unguenti, si trucca, veste gli abiti più belli che ha. Quindi esce dalla città con la sua ancella e si presenta all’accampamento assiro, chiedendo di essere ammessa alla presenza di Oloferne. Le sentinelle, conquistate dal fascino della donna, cedono alla sua richiesta. Di fronte al terribile Oloferne, gli rivolge un discorso ambiguo, facendogli credere di avere un debole per gli assiri e che è disposta a concedersi a lui. Il vanitoso Oloferne resta soggiogato dalle parole di quella piccola donna indifesa, e imbandisce per lei un grandioso banchetto. Oloferne si illude di poter godere delle grazie della splendida ebrea, e si ritira nella sua tenda con la mente offuscata dai fumi dell’alcol abbondantemente bevuto. E’ giunta l’ora: Giuditta, in un baleno, afferra improvvisamente la scimitarra che Oloferne tiene ai piedi del letto e gli spicca il capo dal busto. La testa di Oloferne, esposta sulle torri della città, sarà sufficiente a mettere in fuga gli assalitori. La granguiglionesca scena sarà ripresa più volte, e narrata con forte realismo, dai grandi artisti di tutti i tempi: da Donatello a Botticelli, da Mantegna a Giorgione, da Tiziano a Michelangelo. Vorrei però soffermarmi a descrivervi le rappresentazioni che ne hanno fatto Orazio Gentileschi, amico e sodale del Caravaggio e, soprattutto, la figlia Artemisia, i quali avevano certamente a portata di mano, e di vista, l’impareggiabile modello del Merisi, oggi in Palazzo Barberini a Roma. Orazio ed Artemisia eseguirono numerosi dipinti su questo tema. Ne prenderò in considerazione solamente alcuni, i più conosciuti, per i quali l’attribuzione è certa, e che rappresentano, in certo qual modo, due modalità diverse di rappresentare l’episodio. Orazio dipinge almeno due versioni di 'Giuditta ed Oloferne': una prima versione nell’anno 1608, oggi alla Nasjonal galleriet di Oslo, e una più tardi, dopo il 1620, oggi al Wadsworth Atheneum Museum of Art di Hartford. Orazio Gentileschi, padre di Artemisia, rappresentò Giuditta con la sua ancella nel momento successivo all’uccisione, quando già la testa recisa di Oloferne si trova nella cesta, ancora non coperta dal panno bianco che penzola da quest’ultima. Sullo sfondo di un panneggio color verde scuro, sono in primo piano la bella Giuditta, abbigliata con un elegante vestito rosso carminio impreziosito da fini decori e con nella mano destra la spada con cui ha tagliato la testa del generale assiro, e la sua fidata ancella Abra. Quest’ultima è ritratta di spalle, indossa un abito color ocra, dalle maniche blu, ed ha il capo avvolto da un lungo turbante bianco, grezzo e sfrangiato, che le ricade sulla schiena; sul fianco sinistro regge con ambedue le mani la cesta con la testa di Oloferne. Le due donne stanno fuggendo e Giuditta si sente quasi in dovere di rincuorare l’ancella, posandole una mano sulla spalla.

Immagine riferita a: Giuditta, la vedova eroina, nelle versioni gentilesche

Il quadro manca tuttavia di tensione e di drammaticità: la scena rappresentata risulta non violenta agli occhi dello spettatore, poiché l’atto cruento è già stato compiuto. Il dipinto risale a cinque anni dopo il quadro di Caravaggio, tra il 1607 e il 1608 circa, ed è oggi conservato al Nasjonalmuseet for Kunst di Oslo. Orazio Gentileschi-Giuditta con la sua ancella- (1608 circa)-Oslo, Nasjonalmuseet Più tardi, nel 1613 circa, Artemisia riprenderà questa scena in un dipinto oggi al Palazzo Pitti. La scena è la stessa del dipinto di Oslo, ma qui è presente una maggiore tensione. Un debole fascio di luce illumina le due donne che appaiono più ravvicinate e ulteriormente in risalto rispetto dipinto di Orazio. Anche se il momento più drammatico è stato superato, è possibile cogliere ancora una certa tensione: Giuditta è soddisfatta del gesto appena compiuto e, consapevole dell’importanza del suo gesto, posa con orgoglio e in segno di vittoria la spada sulla sua spalla. L’effetto dell’insieme comporta un maggiore coinvolgimento emotivo rispetto al dipinto del padre. Da notare qui l’innovazione decorativa del fermaglio che trattiene una treccia di capelli e l’elsa della spada con il rilievo di un volto di una maschera urlante.Immagine riferita a: Giuditta, la vedova eroina, nelle versioni gentilesche Artemisia Gentileschi- Giuditta e la fantesca Abra- (1613)-Firenze-Palazzo Pitti Caravaggio intanto aveva già scompaginato gli schemi tradizionali. L’episodio biblico di Giuditta ed Oloferne, fino a quel momento era stato rappresentato nei momenti meno drammatici, e cioè nei momenti che precedono o che immediatamente seguono la decapitazione del generale assiro. Caravaggio invece sceglie, in maniera del tutto originale, di dipingere il momento clou, il momento più altamente drammatico, ricorrendo ad immagini crude e sanguinolente, in altre parole, raccapriccianti. Mentre la vecchia ancella dal volto grottesco, pronta ad accogliere la testa del generale in un panno che tiene tra le mani, guarda allibita e incredula la scena. Non vuole quasi credere ai suoi occhi: la timida fanciulla che ha visto nascere e crescere, la sua bambina è stata capace di osare tanto, di compiere un atto così coraggioso e cruento? E Giuditta, da parte sua, pur concentrata nello sforzo del momento cruciale, trova le energie per inarcare leggermente indietro il busto, come a ritrarsi, inorridita per il gesto che sta compiendo e, forse, con l’istintiva intenzione di non macchiare di sangue il candido corpetto. E quel genio del Caravaggio riesce a trasmettere a noi spettatori non solo lo sgomento dei protagonisti ma anche l’ultimo grido di Oloferne, strozzato in gola dalla spada di Giuditta. Immagine riferita a: Giuditta, la vedova eroina, nelle versioni gentilescheCaravaggio-Giuditta decapita Oloferne- (1602)-Roma- Palazzo Barberini Nel 1617 Artemisia ritornò sul tema di Giuditta e Oloferne con un dipinto decisamente crudo e violento, in cui è possibile cogliere l’influenza caravaggesca. L’ancella questa volta non è una semplice spettatrice, ma partecipa attivamente alla decapitazione, immobilizzando Oloferne. Al centro della scena vediamo pertanto un intreccio di braccia nude: le braccia del generale che tenta disperatamente di sottrarsi alla stretta mortale, le braccia muscolose dell’ancella, una massaia avvezza a scannare gli animali, e le braccia di Giuditta che, tenendo ferma per i capelli la testa del generale, affonda, con precisione chirurgica, la lama nella gola di Oloferne. La differenza di posizione sociale delle fanciulle è evidenziata dalla qualità dei loro abiti: quello di Giuditta, di colore blu, è un abito prezioso ed elegante; quello dell’ancella, di colore rosso, è il semplice abito di una popolana. Risalta, in questo dipinto, oggi conservato a Napoli presso il Museo di Capodimonte, la forza e la determinazione delle due fanciulle, che sono pienamente consapevoli dell’atto che stanno compiendo. Immagine riferita a: Giuditta, la vedova eroina, nelle versioni gentilescheArtemisia Gentileschi- Giuditta decapita Oloferne- (1617) Napoli-Capodimonte La scena è illuminata da una luce, forse una candela, proveniente dal lato sinistro, che mette in primo piano i protagonisti facendo scivolare in secondo piano i dettagli superflui. Questo dipinto di Artemisia, in cui l’artista fa una scelta di campo per una linea più drammatica e passionale, segna il distacco definitivo dallo stile di Orazio. Artemisia è ora una donna indipendente, non lavora più insieme a suo padre ed ha già lasciato Roma da qualche anno per trasferirsi a Firenze. Firenze, che rappresentò per lei un approdo felice: libera finalmente dalla cappa opprimente dei pregiudizi della città eterna, legati ad un crudele episodio della sua vita, ottiene, alla corte granducale, una educazione artistica e letteraria, si afferma come pittrice, ed entra a far parte, prima donna della storia, dell’Accademia di Arti e Disegno di Firenze.Immagine riferita a: Giuditta, la vedova eroina, nelle versioni gentilesche Artemisia Gentileschi-Giuditta decapita Oloferne-(1620) - Firenze-Uffizi Nel 1620, otto anni dopo la versione napoletana dell’opera, Artemisia replica il dipinto, oggi conservato agli Uffizi. Le dimensioni di questa versione sono davvero notevoli: parliamo di 2 metri per più di 1,60 metri. In questo dipinto l’impronta barocca si fa più evidente, specie per la maggiore teatralità e per la speciale cura dei dettagli: Artemisia sta già assimilando lo stile dei pittori fiorentini. Diversamente dal quadro napoletano Artemisia riprende la scena da un punto di vista più lontano, e ciò le permette di soffermarsi su un numero maggiore di maggiori dettagli; il materasso su cui dorme Oloferne, ad esempio, è molto più dettagliato rispetto a quello di Napoli. I colori degli abiti, tendenti al giallo, all’ocra, e al rosso scuro, conferiscono al dipinto, assieme ai toni morbidi degli incarnati, una calda ariosità. L’acconciatura di Giuditta è più elaborata e sul braccio sinistro spicca un bracciale con pietre verdi, mentre un morbido drappo rosso è posto sul corpo di Oloferne. Inoltre il generale assiro è raffigurato quasi per intero, e il sangue ha già macchiato in più parti il sontuoso corredo di lenzuola e coperte su cui giace. A questo dipinto è legata una storia di contratti non rispettati e la storia di una lunga amicizia. Il quadro era stato terminato a Roma, dove Artemisia era tornata dopo sette anni di permanenza a Firenze, e dove aveva potuto rinverdire il contatto con le opere caravaggesche. Era stata quindi spedita a Firenze, a Cosimo II de’ Medici, che gliela aveva commissionata. La rappresentazione fu però ritenuta troppo cruda e violenta e l’opera venne confinata in un angolo nascosto di Palazzo Pitti. Artemisia non fu pagata e riuscì soltanto molti anni dopo, e solo dopo la morte di Cosimo II, ad esigere il compenso dovuto per il suo lavoro, grazie all’aiuto ed alla mediazione del suo amico Galileo, con il quale aveva avuto buoni rapporti nella città di Firenze. Al termine di questi miei commenti gradirei dividere con voi alcune considerazioni conclusive. Negli ultimi decenni si è insistito, in maniera a mio parere artificiosa, sul fatto che l’attività artistica di Artemisia, ed in particolare i dipinti di Giuditta ed Oloferne, nelle versioni più violente che conosciamo, siano state in un certo senso ispirate dal brutale episodio di cui era stata vittima. Una donna che decapita un uomo è stata vista, in altre parole, come una sorta di rivincita pittorica delle sue sofferenze. Artemisia Gentileschi è stata, così, più di ogni altro artista, accostata al tema della violenza di genere, come rivendicazione della donna sui soprusi dell’uomo. Artemisia è diventata emblema delle rivendicazioni femministe e c’è addirittura chi vede nell’immagine di Giuditta un autoritratto della stessa Artemisia e nell’immagine di Oloferne quella di Agostino Tassi, il suo bestiale stupratore. Ma sarebbe oltremodo riduttivo accreditare Giuditta, alias Artemisia, solamente come vendicatrice, pittoricamente parlando, della violenza subita. Artemisia amava la pittura e non smise mai di dipingere. Probabilmente per lei l’arte fu anche uno sfogo emotivo ed è anche probabile che il tema di Giuditta ed Oloferne le permise di esorcizzare il momento della violenza subita. Ma Artemisia fu ben altro! Artemisia fu una grande artista ed una grande donna, una donna che scelse di essere artista in un’epoca dominata dagli uomini. Nel suo secolo alle donne che volevano dipingere era concessa tuttalpiù la rappresentazione di nature morte e quadretti di genere, temi ritenuti più consoni all’integrità morale di una fanciulla; lo studio anatomico era considerato addirittura disdicevole. Essa si rese indipendente e ottenne il successo solamente per le sue capacità artistiche e le sue scelte tematiche e pittoriche. Figlia d’arte, si emancipò precocemente dal padre al quale, sembra, era in grado di dare consigli e, nonostante l’indubbia dipendenza da Caravaggio, Artemisia ebbe pur sempre una sua autonomia inventiva ed interpretativa. Totalmente indipendente dal maschile, che dominava la vita delle donne dell’epoca, non c’è dubbio che la pittrice poté sentirsi la vera Giuditta del suo tempo, quell’eroina determinata e coraggiosa, unica donna tra tanti uomini imbelli, che osò sfidare e sconfiggere l’oppressore. Artista tenace, caparbia, con grandi capacità ed una personalissima originalità, fu in grado di tenere testa e di sovrastare i suoi colleghi pittori, e viene oggi annoverata, a buon diritto, nell’Olimpo degli immortali dell’Arte. Giuseppe Abbita

Autore Prof-Greco

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Inserito il 31 Marzo 2021 nella categoria Relazioni svolte