Si riporta qui di seguito la relazione del prof. A. Tobia alla fine della quale si è esibito il Coro della nostra Università.
Il viaggio nell’oltretomba di Dante Alighieri trova insigni esempi letterari nell’Odissea e nell’Eneide. Ulisse scende nell’Ade per ricevere dall’indovino Tiresia notizie sulla sua vita futura; Enea incontra nei Campi Elisi il padre Anchise che gli preannuncia il futuro destino indirizzato all’avvento della grandezza di Roma. Il viaggio, descritto nella Divina Commedia, assume, invece, un valore catartico, viene presentato come un itinerario purificatore, di iniziazione spirituale, che condurrà il viator all’eccezionale visione del mistero del divino. Durante il suo mistico itinerario, Dante incontra una moltitudine di personaggi realmente vissuti, che intervista per delinearne la personalità. Al contrario, la vita di Francesco d’Assisi viene presentata per interposta persona. Ne affida il panegirico ad uno dei padri più insigni della Chiesa, il frate dell’ordine domenicano, Tommaso d’Aquino, doctor angelicus, principale esponente della Scolastica, che Dante incontra nel cielo del Sole, nell’atmosfera divina degli spiriti sapienti. Un frate francescano celebrerà successivamente le lodi del fondatore dell’ordine domenicano, lo spagnolo Domenico di Guzman. In tal modo, Dante elimina ogni attrito teologico esistente tra i due ordini e ne compone in Cielo la loro divina missione, finalizzata al sostegno della Chiesa, pur con diverse modalità di intervento. Francesco e i suoi frati si avvalevano dell’esempio della loro radicale povertà e dell’amore fraterno per avvicinare la gente al messaggio di Cristo; i domenicani si prefiggevano di combattere le eresie con l’uso della parola e il ricorso alla ortodossia teologica. Ai domenicani papa Innocenzo III affidò, infatti, il compito di combattere le eresie e il governo dei tribunali dell’Inquisizione. In maniera concisa ed estremamente efficace, comunque, Dante stigmatizza la differenza tra i due Principi del Cristianesimo, con due endecasillabi: l’un fu tutto serafico in ardore/ l’altro per sapienza in terra fue/ di cherubica luce uno splendore. L’ardore serafico di Francesco testimonia il suo amore verso ogni creatura terrena, la natura nel suo complesso, considerata in tutte le sue manifestazioni, con la quale l’uomo deve vivere in una simbiosi di rispetto e di fratellanza. Francesco indica la fratellanza quale valore assoluto e allo stesso tempo sposa la povertà non come rinuncia al mondo esterno, bensì quale difesa dal materialismo e dall’edonismo. Con questo spirito d’amore e di fratellanza, il Santo si allontana dal contemptus mundi di Innocenzo III, come pure dalla soggezione dell’essere all’avere. Questa testimonianza di partecipazione fraterna alla vita del creato, che testimonia la comune appartenenza nel nome dell’Ente Supremo, rappresenta un deciso atto rivoluzionario nel tempo in cui catari, patarini, albigesi, seguaci di Gioacchino da Fiore e altre congregazioni pauperistiche predicavano la fine del mondo e criticavano col ricorso alla violenza gli eccessi temporali della Curia romana. Lontano da quanti flagellavano i loro corpi e radicalizzavano le loro proteste, Madonna povertà, negletta dopo la morte del primo sposo, Cristo, è scelta come sposa da Francesco. Questa mistica unione era foriera di una gioia interiore, e rivelava la perfetta autenticità dell’uomo, in quanto sostituiva l’essere all’avere e liberava la coscienza dalla servitù dei beni materiali e dall’alienante ambizione al potere, che avevano fatto deviare la Chiesa dal percorso da Cristo indicato. Così Dante; la provedenza, che governa il mondo…/ però che andasse ver’ lo suo diletto/ la sposa di colui che ad alte grida/ disposò lei col sangue benedetto,/ in sé sicura e anche a lui più fida,/ due principi ordinò in suo favore, / che quinci e quindi le fosser per guida. Francesco vuole che il suo messaggio di carità rimanga nell’alveo dell’ortodossia, non si occuperà di studi teologici, ma sceglie di porsi come umile testimone e imitatore di Cristo. Non si occupa di esegesi teologica, ma affida al canto la sua autentica voce di preghiera. Il Cantico di Frate Sole o Laudes creaturarum echeggia nelle nostre coscienze come un’enciclica, una lettera pastorale rivolta all’umanità, i cui temi pregnanti sono l’amore, la fratellanza, la pace, la libertà dello spirito. Francesco (1182-1226) nacque alla fine del XIII secolo ad Assisi in un’agiata famiglia borghese. '… Di questa costa, la dov’ella frange/ più sua rattezza, nacque al mondo un sole/ come fa questo talvolta di Gange. / Però chi d’esso loco fa parole, non dica Ascesi, chè direbbe corto, / ma Oriente, se proprio dir vuole.' (vv. 48-54) Il padre, Pietro Bernardone, commerciava in tessuti e spesso si recava in Francia, per partecipare alle fiere e stabilire contatti con altri commercianti che lì giungevano da ogni parte d’Europa. Francesco nacque proprio mentre il padre era lontano. La madre, donna Pica, francese d’origine, chiamò il neonato Giovanni, ma il padre al suo ritorno volle che suo figlio si chiamasse Francesco, ’il francesino’ e ciò per sottolineare l’amore che lo legava alla moglie e alla terra di Francia. Francesco crebbe negli agi di una famiglia benestante, che ne curò il corpo e la mente, sebbene il suo primo biografo, il frate francescano Tommaso da Celano (1200-1265) sostenga che dai genitori ricevette fin dall’infanzia una cattiva educazione, ispirata alle vanità del mondo. Francesco studiò con mediocre successo il latino, ma brillava nella conoscenza del francese e nel canto. Si tramanda che avesse una bella voce e suscitasse l’ammirazione dei suoi coetanei quando cantava le antiche leggende del ciclo bretone o testi lirici provenzali, che aveva appreso dalla madre. L’amore per il canto, anche dopo la conversione, fu coltivato con la gioia di chi amava definirsi giullare di Dio. Giovane ricco e bello, non mancava di organizzare feste e balli, spendendo oltremisura. Il padre sognava per il figlio una brillante carriera militare che gli consentisse di conseguire il titolo di cavaliere, al fine di nobilitare le origini borghesi della famiglia. Bonaventura da Bagnoregio (1218-1274), considerato il biografo ufficiale di Francesco, nella sua Leggenda maggiore, annota, con toni meno severi di fra’ Tommaso, che Francesco ’benché fosse incline ai piaceri, non seguì gli istinti sfrenati dei sensi e, benché vivesse tra mercanti e fosse intento ai guadagni, non ripose la sua speranza nel denaro e nei tesori’. Gli anni, in cui Francesco si avviava a partecipare alla vita pubblica di Assisi, erano segnati da seri turbamenti politici e profondi cambiamenti sociali. Le città dell’Italia centro-settentrionale lottavano contro il potere imperiale e papale, per acquistare la loro autonomia politica e amministrativa, libere dai condizionamenti feudali. La città di Assisi nel 1198, ventidue anni dopo la famosa battaglia di Legnano (1176), in cui l’imperatore Federico Barbarossa era stato sconfitto dai Comuni, insorse contro i rappresentanti del potere imperiale, dei nobili e dell’alto clero, desiderosa di autonomia politica e amministrativa. Assisi faceva parte del ducato di Spoleto, Perugia era schierata con il partito guelfo, Assisi era un comune ghibellino. Le famiglie nobili furono costrette, pertanto, a rifugiarsi a Perugia, città rivale di Assisi. Ma appena due anni dopo, Perugia, sostenuta economicamente e militarmente dai fuorusciti assisiati, tra i quali il padre della futura santa Chiara, dichiarò guerra ad Assisi. Francesco così ebbe il battesimo delle armi, sperando di ricoprirsi di gloria. Invece, le truppe della sua città furono sconfitte e molti soldati caddero prigionieri. Francesco fu rinchiuso per un anno nel carcere di Perugia. Questa triste esperienza, che si concluse con una forte somma di riscatto, lo aveva provato più nel corpo che nello spirito. Il sogno di diventare un nobile cavaliere era ancora nei suoi progetti di giovane ricco e borghese. Decise, quindi, di unirsi ad un drappello di soldati che si recava in Puglia a combattere insieme con le milizie pontificie. Però, durante la marcia fu assalito dalla febbre e costretto a rientrare a piedi da Spoleto ad Assisi. Il sogno di diventare un grande cavaliere questa volta era tramontato miseramente. Francesco tentò di riprendere la vita di giovane gaudente, ma la sua voglia di vivere non trovava più soddisfazione nei piaceri della vita mondana. Al contrario, amava la solitudine della campagna, il silenzio dei boschi, i luoghi meno frequentati. Tommaso da Celano racconta che Francesco si recò in pellegrinaggio a Roma per trovare una risposta al suo nuovo stato d’animo. Qui giunto, si privò di tutti i denari che aveva portato con sé per umiliarsi a chiedere l’elemosina. L’itinerario spirituale di Francesco era iniziato e due esperienze, in particolare, segnarono definitivamente la sua palingenesi interiore ed esistenziale: l’atto scandaloso del bacio al lebbroso a Gubbio nel 1206, che apprendiamo dalla Leggenda Maggiore di San Bonaventura, e l’episodio della ricostruzione della piccola chiesa di San Damiano, nella periferia di Assisi, dove egli si raccoglieva in preghiera, prostrandosi davanti all’immagine del Crocifisso, che presenta un Cristo in croce con gli occhi aperti a significare che il figlio di Dio ha sconfitto la morte e sta per risorgere.. Qui si narra che Francesco udì la voce proveniente da quella sacra immagine dipinta su tela, che si conserva nella basilica di Santa Chiara ad Assisi: Vade Francisce, repara domum meam quae labitur. Il giovane obbedì e si diede da fare per la riparazione di questa e di altre chiese che giacevano in condizioni precarie, ricavando il denaro dalla vendita dei tessuti migliori che il padre, assente, custodiva nei suoi magazzini. Solo più tardi comprese che a lui era stato assegnato il compito ben più arduo di riedificare la Chiesa di Cristo, con la sua azione e la sua preghiera. Quando Pietro Bernardone ritornò ad Assisi e si accorse che il figlio aveva saccheggiato buona parte dei suoi beni per la ricostruzione di alcune chiese e per aiutare i poveri, tentò in un primo momento di farlo rinsavire con le punizioni, tenendolo chiuso in casa, poi, vista inutile ogni minaccia, lo denunciò al governo cittadino. Francesco dovette però presentarsi dinanzi al tribunale ecclesiastico, perché aveva commesso un furto per la ricostruzione della chiesa di S. Damiano. Era la primavera del 1206. Davanti al vescovo si spogliò dei suoi abiti e nudo si rivolse al padre dicendo: ’Finora ho chiamato te, mio padre sulla terra, d’ora in poi potrò dire Padre nostro che sei nei cieli’. Da questo momento Francesco divenne il Poverello d’Assisi, lo sposo di Madonna Povertà. Così Dante: ’ per tal donna, giovinetto, in guerra/ del padre corse, a cui, come a la morte,/ la porta del piacer nessun disserra;/ e dinanzi a la sua spirital corte/ et coram patre le si fece unito;/ poscia di dì in dì l’amò più forte’ (Par. XI, 58-63). Francesco, alter Christus, è il nuovo sol oriens e come Cristo conclude la sua esistenza terrena, portando le stigmate, il terzo sigillo dopo quelli ricevuti dall’approvazione verbale del suo ordine mendicante da parte del papa Innocenzo III prima e da Onorio III dopo, con regolare bolla papale (1223). S. Bonaventura racconta che quando Francesco si recò a Roma per esporre il suo progetto di vita di mendicante al papa, Innocenzo III non volle riceverlo e diede ordine che il poverello d’Assisi venisse allontanato. Durante la notte, però, lo stesso ebbe un incubo, come se la basilica lateranense fosse sul punto di crollare e venisse sorretta dalle spalle di un homo pauperculus, modicus et despectus. Svegliatosi profondamente turbato, accolse Francesco, mostrò di apprezzare l’opera del fraticello, la sua scelta di vita e di testimonianza cristiana, votata all’amore e all’abbraccio fraterno e gli concesse verbalmente di predicare la parola di Dio. Dante, nel tessere l’apologia del santo di Assisi, non accenna ai miracoli del frate. A differenza degli agiografi, l’Alighieri sottolinea che la grandezza di Francesco consiste nell’avere tracciato un nuovo percorso spirituale per il risanamento morale della Chiesa, che nel XIII secolo vacillava paurosamente. Alla barca di Cristo urgeva un abile timoniere che la riconducesse lungo il solco segnato dal Vangelo. L’appello alla povertà rappresentava l’ancora di salvezza contro la secolarizzazione: Oh ignota ricchezza! Oh ben ferace! (v.82): gli ossimori della contraddizione, che pare Dante accettasse come viatico della sua esistenza. C’è chi sostiene che fu terziaeio francescano e volle farsi seppellire con addosso un saio. La scelta della povertà non umilia la vita del Santo, anzi conferisce paradossalmente forza e dignità regale al figlio di un semplice mercante, che sotto l’egida della sua fede osa presentarsi al cospetto del Sultano Malek al-Kamil. Questi era il nipote del celebre Saladino, ingiustamente appellato ’feroce’, come nell’immaginario popolare erano visti i musulmani. Ma a Dante era giunta notizia della rettitudine del Sultano Saladino e, infatti, lo colloca nel Limbo, in una dimensione privilegiata, tra coloro che non avevano avuto fede in Cristo. Anche il Boccaccio ne loda la probità e la tolleranza religiosa nella 3^ novella della Prima giornata del Decameron (Malchisedech e il Saladino). Leggiamo in Bonaventura che Francesco desiderio martyrii fragrans, al tempo della V Crociata (giugno 1219), indetta da Onorio III (1219), s’imbarcò ad Ancona per l’Oriente con i Crociati ut Soldani Babyloniae posset adire presentiam. La partecipazione di Francesco alla Crociata fu animata da spirito missionario, più che dal desiderio di contribuirvi come supporto militare. E poi che, per la sete del martiro/ ne la presenza del Soldan superba/ predicò Cristo e gli altri che ‘l seguiro… (Par. XI vv. 100-102) Con un gruppo di dodici suoi confratelli visse, infatti, accanto ai soldati dell’esercito cristiano, predicando invano l’amore, la pace e la tolleranza, indispettendo il legato pontificio, Pelagio Galvan, acceso di furore bellico. Il suo progetto di difendere la pace con la predicazione della parola di Cristo gli fallì nel campo cristiano. Perciò, si decise a far conoscere il messaggio di Cristo ai musulmani. A differenza delle tante dubbie leggende, legate alla vita di Francesco, l’incontro con il Sultano è un episodio storico. Francesco, accompagnato da fra’ Illuminato, si diresse verso gli accampamenti saraceni e chiese di essere ricevuto dal Sultano. Malek al-Kamel accolse favorevolmente Francesco e lo invitò a trattenersi nella sua corte, consentendogli di predicare per alcuni giorni alla sua gente. Lo storico contemporaneo di Francesco, il vescovo francese Jacques de Vitry, aggiunge che il Sultano si sarebbe raccomandato alle preghiere del frate con queste parole: ’Prega tu per me, affinché Dio mi riveli la religione che gli è più accetta’ (Cfr. Orientalis et occidentalis historia). Francesco strinse con il Sultano una profonda amicizia, ed ebbe modo di trovare una profonda affinità tra la sua fede e l’islam: se muslim vuol dire sottomissione a Dio, anche l’aggettivo che egli aveva dato al suo ordine di Frati minori presupponeva la completa obbedienza al Creatore, in perfetta sintonia con lo stesso termine islam, che in lingua araba significa totale abbandono di sé alla volontà divina. I continui richiami alla preghiera dei fedeli musulmani gli fecero cogliere anche la differenza con la superficiale condotta religiosa dei crociati, per niente inclini all’osservanza dei precetti cristiani. Francesco non riuscì ad evitare lo scontro tra i due eserciti. La città di Damietta, in Egitto, alla foce del Nilo, fu conquistata dai cristiani in un’orgia di sangue. Il Sultano sfuggì al saccheggio, ma due anni dopo riuscì a riconquistare la città. Francesco, rattristato da tanta violenza, grazie ad un salvacondotto che il suo amico Al-Kamil gli aveva rilasciato, poté recarsi in Palestina per visitare i luoghi santi. In Terra Santa lo raggiunse la triste notizia che cinque suoi frati, che erano andati a predicare in Marocco, erano stati decapitati a Marrakesh. La missione di Francesco non ebbe i risultati sperati e perciò ’per trovare a conversione acerba/ troppo la gente e per non stare indarno,/ redissi al frutto dell’italica erba/ ; nel crudo sasso intra Tevero e Arno/ da Cristo prese l’ultimo sigillo,/ che le sue membra due anni portaro.’ (Par., XI vv. 103-108). Nel monte della Verna Francesco ricevette le stimmate, che portò fino alla sua morte. La Porziuncola divenne la sede della fraternità francescana. Si tratta di una antichissima cappella nella vallata del Tevere, ai piedi di Assisi, ceduta nel 1211 dai benedettini a Francesco, che ne fece il centro del suo Ordine. Intorno ad essa fu costruita nel XVI secolo la basilica di santa Maria degli Angeli, che copre anche la Cappella del Transito dove il Santo spirò nel 1226. La notte della Domenica delle Palme del 1212 Chiara, figlia del conte Favarone Offreduccio, aveva abbandonato la casa paterna per correre alla Porziuncola, decisa ad abbracciare la regola della povertà predicata da Francesco. Il papa Innocenzo III prima di morire le concesse il ’privilegio della povertà’, ufficializzando la nascita dell’ordine di Santa Chiara o delle Clarisse, la cui regola fu scritta da Francesco. La più antica stesura del Cantico di Frate Sole, (Laudes creaturarum) è custodita nella Biblioteca del Sacro Convento di San Francesco ad Assisi. Oltre a rappresentare il componimento poetico più antico e di altissimo livello della letteratura italiana, il Cantico è anche la più toccante espressione dell’amore del Santo verso tutto il creato, un vero inno alla vita, permeato di una visione positiva della natura, una visione rivoluzionaria rispetto al contemptus mundi di Innocenzo III. Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.Ad te solo, Altissimo, se konfano,et nullu homo ène dignu te mentovare.Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,spetialmente messor lo frate sole,lo qual è iorno, et allumini noi per lui.Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:de te, Altissimo, porta significatione.Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.Laudato si’, mi’ Signore, per frate ventoet per aere et nubilo et sereno et onne tempo,per lo quale a le tue creature dài sustentamento.Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, <_div>per lo quale ennallumini la nocte:ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,la quale ne sustenta et governa,et produce diversi fructi con coloriti flori et herba. Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amoreet sostengo infirmitate et tribulatione.Beati quelli ke ‘l sosterrano in pace,ka da te, Altissimo, sirano incoronati. Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare:guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male. Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate e serviateli cum grande humilitate. Il Cantico pare sia stato scritto in una notte tra il 1224 e il 1226, mentre Francesco era afflitto da gravi sofferenze e soprattutto dal male agli occhi che gli rendeva insopportabile la luce naturale. Tommaso da Celano nella sua Vita secunda scrive: Rettulit tamen sociis pauca, ut potuit. Laudes de creaturis tunc quasdam composuit et eas utcumque ad Creatorem laudandum accendit. Così pure si legge nel codice d’Assisi: Incipiunt laudes creaturarum quas fecit beatus Franciscus ad laudem et honorem Dei cum esset infirmus apud sanctum Damianum. Si tratta di uno straordinario esempio di poesia religiosa in volgare, quando ancora mancava una vera e propria tradizione poetica italiana. Francesco si serve del volgare umbro illustre, privo delle forme dialettali e plebee, costruendo una prosa ritmata che presuppone la conoscenza delle regole delle artes dictandi in uso ancora nel medioevo. La fonte d’ispirazione è la Sacra scrittura e in particolare la poesia dei Salmi che, come nota Ignazio Baldelli, ’furono lungo tutto il medioevo lo strumento primo dell’apprendimento del latino e della scrittura’ (I. Baldelli, La letteratura dell’Italia mediana, in Letteratura italiana, Storia e geografia I, Einaudi, To, 1987, p. 41). L’inno, che poteva essere facilmente cantato da tutti i fedeli, ha degli ascendenti dotti, come il Salmo 148 di Davide e il Canticum trium puerorum del libro di Daniele. In questo cantico dei tre fanciulli nella fornace è, infatti, presente per dieci volte l’anafora della lode rivolta a Dio attraverso le sue creature. Altrettante volte, sotto forma di litania, sono rivolti lodi e ringraziamenti al Creatore nel Cantico di Francesco. Il testo ha suggerito varie interpretazioni, non necessariamente contrastanti. Da una parte Francesco vuole che siano cantate in volgare le lodi a Dio in maniera semplice, creando un inno che tutti i fedeli possano cantare con uno slancio di amore fraterno verso tutte le creature: Dio è mistero, non può e non deve essere mentovato invano, ma può essere conosciuto, amato e lodato attraverso le creature sensibili : per sora Luna e le stelle, per frate Vento, per aere et nubilo et sereno, per sora Aqua, per frate Focu, per sora nostra matre Terra, per sora nostra Morte corporale. Sul piano grammaticale, il valore causale, che i più attribuiscono alla preposizione per (per aver creato), non trova d’accordo tutti i critici. Alcuni considerano il per come derivato dal francese par, e introdurrebbe un complemento d’agente, da, nel senso che Dio è lodato dalle sue stesse creature. Non ò errato sostenere che il genitivo creaturarum sia allo stesso tempo soggettivo ed oggettivo: Francesco con il suo inno al creato insisterebbe sul rapporto di comunione che le creature, soggetto ed oggetto, stabiliscono tra l’uomo e Dio, senza alcun cedimento alla visione antropocentrica, che dal Rinascimento ancora oggi perdura con risultati disastrosi per il pianeta che ci ospita. Nel Cantico sono evidenti due stati d’animo: nella prima parte prevale la gioia di chi si sente legato fraternamente a tutte le creature e, il tono della preghiera si fa ampio, ispirato, gioioso. Dal verso 23 al 31 il poeta riprende le Beatitudini evangeliche e il tono s’incupisce al richiamo delle infirmitate e tribolazioni, che l’uomo deve sopportare in pace come strumenti di penitenza, necessari ad ottenere il perdono e il premio eterno. L’ultima lode è rivolta alla Morte corporale, / da la quale nullo homo vivente pò skappare. Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman (1170-1221) s’incontrarono a Roma nel 1215, dove entrambi erano convenuti per partecipare alle sessioni del quarto concilio Lateranense, indetto da Innocenzo III per discutere dell’ortodossia cristiana e fare il punto su alcune eresie, su cui l’intervento del dotto predicatore e integerrimo teologo, Domenico, sarebbe stato decisivo. Durante la permanenza romana, si narra, Francesco assunse come segno distintivo del suo ordine l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, che ha la forma di una croce. Fu questo il simbolo del tau. L’dea gli fu suggerita dallo stesso papa, che in apertura del Concilio, per evocare una visione apocalittica, fece cenno alla lettera Tau, con la quale, si legge nell’Antico testamento, Dio destinò alla morte tutti quelli che non erano segnati da questa lettera. Francesco lasciò ai suoi frati l’obbligo di seguire i voti di obbedienza, castità e povertà, indicati dai tre nodi che caratterizzano il cordone che cinge il saio francescano, ma ebbe anche il merito di avere reso la nascita di Gesù un evento popolare attraverso l’istituzione del presepe. La rievocazione della nascita ebbe luogo la notte di Natale del 1223 a Greccio, centro del Lazio in provincia di Rieti, dove il Santo si era recato per trascorrervi il Natale con alcuni frati. Il poverello d’Assisi concepì la nascita di Gesù a Betlemme in uno scenario naturale con alberi e animali e con personaggi reali della vita quotidiana: pastori, artigiani, contadini, donne del popolo. L’episodio fu poi immortalato da Giotto nell’affresco della Basilica superiore d’Assisi. Il primo esempio di presepe inanimato è quello in legno che Arnolfo di Cambio scolpì nel XIII secolo, di cui restano alcune statue nella cripta della Cappella Sistina di Santa Maria Maggiore a Roma. Francesco fu canonizzato due anni dopo la sua morte da Gregorio IX e il suo corpo, dalla nuda terra della Porziuncola, dove aveva chiesto d’essere sepolto, al suo corpo non volle altra bara, fu traslato il 25 maggio del 1230 nella basilica di San Francesco d’Assisi, fatta costruire da frate Elia. La vita del Santo ha ispirato pittori, scultori, letterati, musicisti ed è stata raccontata ed illustrata da diversi registi da Rossellini a Liliana Cavani e Franco Zeffirelli. ’Come vorrei una Chiesa povera!’ Con queste parole papa Bergoglio spiegò la scelta del suo nome. E al poverello d’Assisi il Santo Padre si è ispirato nella redazione della sua enciclica Fratres Omnes, in cui ha espresso in chiave assolutamente inedita la sua idea di fratellanza universale, come legame che unisce tutti gli esseri umani, al di là della loro fede religiosa, delle ideologie, dell’estrazione sociale, del luogo di nascita, del loro modo di vivere l’amore. La differenza con la Fratellanza universale, posta a fondamento del pensiero illuministico, da cui deriva la Libera Muratoria, consiste nel fatto che il Dio di Papa Bergoglio è il Creatore trascendente dell’universo, il Dio di Voltaire e dei Massoni ne è soltanto il Grande Architetto immanente. Anche Voltaire non considerava la natura inanimata, bensì come una creatura che presuppone un creatore e concludeva: 'adoriamo Dio senza volere penetrare nell’oscurità dei suoi pensieri. La vera religione è una fede semplice in Dio'. - Trapani, Badia Nuova, 23.marzo. 2024 - prof. Antonino Tobia
Nota: Il Signore disse: Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un Tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono (Ez. 9.4). Un violento spirito di crociata e di lotta contro ogni eresia animava le parole di Innocenzo III. Sostenitore della dottrina teocratica, secondo il principio che omnis potestas a Deo, scomunicò principi e imperatori, attivò l’inquisizione, promulgò il dogma della transustanziazione, promosse la crociata contro gli Albigesi (1209), i Valdesi, i seguaci di Gioacchino da Fiore, si fece affidare per testamento da Costanza, vedova dell’imperatore Enrico VI, la tutela del figlio Federico II, il futuro Stupor mundi, e prescrisse la comunione di Pasqua. Non è poco per uno che predicava il disprezzo dei beni materiali nel suo trattato De contemptu mundi.
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