L'avv. Leonardo Poma ha dimostrato la circolarità della cultura europea dall'Oriente all'Occidente
Relatore: Avv. Leonardo Poma
Ci si potrà chiedere cosa collega il cavallo di Troia al Corpus Iuris di Giustiniano. Apparentemente nulla ma non è così. E in vero fra i due fatti, il cui nesso eziologico andremo a spiegare, intercorrono ben diciotto o diciassette secoli (dal 1300 o 1200 a.C. – a seconda della datazione della distruzione di Troia - al 500 d.C.). Insomma se non ci fosse stato il cavallo di Troia non ci sarebbe stato neppure il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano. Vediamo perché.
Dobbiamo intanto chiarire subito il significato dei due termini. Perchè mentre tutti sanno cos’è il cavallo di Troia che fu lo stratagemma ideato dall’astuto Ulisse per far vincere agli Achei una guerra che durava ormai da dieci anni, il Corpus Iuris Civilis dell’imperatore romano d’oriente Giustiniano è, in sostanza, la raccolta, il summit, possiamo dire, dell’intera sapienza giuridica romana evolutasi in tanti secoli di vita della grande epopea storica e sociale di Roma. Un’opera, quella realizzata da Giustiniano, destinata a rimanere nei tempi a venire.
Roma ci ha lasciato tanti importantissimi monumenti e testimonianze della sua grandezza, colossei, strade consolari, acquedotti, la stessa lingua latina, ma il monumento più grande - così come è universalmente riconosciuto - è la sua immensa sapienza ed esperienza giuridica raccolta e tramandata in ispecie appunto con il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano che avrebbe ispirato buona parte delle legislazioni a venire dei popoli dell’Europa e del mondo sino ai nostri giorni.
Ciò brevemente premesso, torniamo al tema così come è proposto nel titolo.
IL CAVALLO E LA DISTRUZIONE DI TROIA
Attraverso, quindi, il remedium del cavallo i Greci si introdussero a Troia, la incendiarono, distrussero e uccisero quasi tutti i suoi abitanti. Non era bastato il valore di grandi condottieri come Agamennone, Menelao, Diomede, Achille, per sconfiggere l’odiata Ilio in una guerra durata dieci anni. Ma bastò il trucco del cavallo di legno da parte dell’eroe più astuto che si conosca, il grande Ulisse, che sarebbe diventato nei secoli famoso se non immortale, ispirando il grande poema omerico dell’Odissea e tante altre opere letterarie. I quarantuno condottieri capitanati appunto dall’eroe, nascosti nel ventre del cavallo, col favore delle tenebre, mentre ormai i Troiani erano in preda ai sogni ritenendo che i Greci fossero andati via, si calarono giù e aprirono le porte della città all’esercito acheo che così la distrusse.
E di Troia non rimasero che rovine, quelle scoperte nel 1871 presso la collina di Hissarlik in Anatolia Minore, dall’archeologo tedesco Heinrich Schliemann, che però scavi e studi successivi fanno pensare essere quella la città del secondo strato, cioè quella ricostruita per la seconda volta. Lo stesso Foscolo nel carme Dei Sepolcri tributa un mirabile ricordo alla città della Troade, ai suoi eroi e ad Ettore in particolare, e parla di essa proprio come Ilio raso due volte e due risorto (anche se in realtà sembra che le distruzioni e ricostruzioni siano state più numerose; addirittura si parla di nove stratificazioni). In vero spedizioni di scavo successive fanno propendere più plausibile il settimo strato come la Troia omerica. Si ritiene di solito che i fatti siano avvenuti nel XIII a.C., ma vari storici dei secoli successivi, attraverso studi e calcoli personali, fra cui Tucidite, computano la guerra di Troia fra il 1196 e il 1180 a.C. e quindi un secolo dopo, il XII. Ma ciò poca importa se non fosse per le datazioni da dare anche al viaggio di Enea, profugo da Troia e alle sue avventure verso l’italica terra promessa.
A questo punto è giusto ricordare che nel 1998 le rovine di Troia sono state consacrate dall’Unesco come patrimonio dell’umanità.
DOPO LA GUERRA
I NOSTOI, I RITORNI
IL VIAGGIO DI ULISSE
Dicevamo che, distrutta Troia, gli Achei si apprestarono a far ritorno in patria, e cioè nelle loro poleis, che erano autonome città-stato, ognuna politicamente indipendente, non convergendo in uno stato unitario. E, fra i grandi Greci sulla via del ritorno, primeggia nel mito, nella leggenda e nella letteratura la figura di Ulisse re di Itaca, piccola isola del mar Ionio e il cui viaggio verso l’agognata patria durerà ancora altri dieci anni per volere di dei avversi. Il viaggio di Ulisse, come sappiamo, ispirerà nei secoli poeti, scrittori, drammaturghi, opere cinematografiche e quant’altro. Sotto molti aspetti può intendersi come una metafora.
Contemporaneamente, fra i pochi Troiani che si salvano, v’è il principe Enea che con altri superstiti fugge dalla patria in fiamme per dirigersi non più verso una patria che non ha, ma verso una nuova terra, la terra promessa, che diventerà la sua nuova patria così realizzando un destino che forse egli stesso neppure immagina: da Enea, dai suoi discendenti, nascerà un grande popolo, la grande Roma.
Ma ben diversi i due nostoi: quello di Ulisse è un ritorno vero e proprio verso quella che egli sa essere la sua patria, dove alla fine, dopo un lungo decennale viaggio, pur con l’avversità di Poseidone ma con il favore di Atena, approderà, ucciderà i Proci che tentavano di usurpargli trono e moglie, e, riunitosi con la famiglia, ritroverà la perduta felicità. Sulla fine di Ulisse, in patria o in cerca di nuove avventure, ci sono poi tante versioni (celebre quella di Dante) che non è qui il caso di raccontare.
IL PREDESTINATO VIAGGIO DI ENEA VERSO LA TERRA PROMESSA
Per Enea il discorso è assai diverso. Premesso che anche per lui esistono varie trasposizioni mitologiche a seconda dei numerosi racconti tramandati da tanti autori, egli figlio di Venere e Anchise, quest’ultimo cugino di Priamo, dopo la fine di Troia fugge con i superstiti, col padre sulle spalle e il figlio Iulo o Ascanio e in ossequio a un disegno divino, mentre la moglie Creusa (figlia di re Priamo), morente nell’incendio, gli predice un grande futuro e una progenie gloriosa, intraprende un lungo e periglioso viaggio verso la terra promessa, nella lontana Italia, osteggiato da Giunone ma protetto dalla madre Venere. Anche questo è una sorta di ritorno, quasi tentativo di congiungere l’oriente all’occidente, se si considera che la stirpe dei Troiani o Dardanidi, poiché discendenti dall’eroe Dardano, sarebbero originari proprio della terra laziale, per poi spostarsi in Asia minore ove fondarono Troia. E come i grandi eroi capostipiti di gloriosi popoli, Dardano era figlio Giove ed Elettra. Gli dei insomma sono presenti nelle umane vicende, parteggiando ora per l’uno, ora per l’altro, ma nulla possono, Zeus compreso, contro il potere del Fato o Destino, cioè del complesso delle leggi supreme che governano il mondo retto da Temi, dea della giustizia.
Secondo la versione omerica, invece, Enea sarebbe rimasto nella Troade per fondare una nuovo regno. Ma si sa, tutta la vicenda dell’eroe è stata riadattata da Virgilio, che recepì la versione di Stesicoro (VII-VI sec. a.C.), e ciò al fine di glorificare l’imperatore Augusto, dimostrarne l’origine divina e magnificare Roma. La gens Iulia, cui appartiene Ottaviano (Iulo, infatti, è il secondo nome di Ascanio, figlio di Enea) sarebbe quindi direttamente discendente da Venere (attraverso Enea) e da Marte che con Rea Silvia (discendente da Enea) generò Romolo e Remo. Il resto lo sappiamo.
Avventuroso e mistico potremmo definire il lungo viaggio di Enea verso la terra promessa, compiuto quasi religiosamente, per ubbidire a superiori disegni che egli, pius com’è non può che accettare, rinunciando al grande e passionale amore di Didone, regina di Cartagine, da lei fondata, che abbandonata dall’eroe, si suicida maledicendo lui e tutta la sua progenie. Non a caso nei secoli a venire, e così poeticamente e fatalisticamente si spiega, avrà luogo la perigliosa e lunga guerra fra Roma e Cartagine.
Durante il viaggio, come sappiamo, Enea fa una tappa in Sicilia e precisamente a Drepano, ospite di Re Aceste signore di Erice e dei luoghi, e ritornandovi dopo la vicenda con Didone, celebra i famosi ludi in onore del padre Anchise che era morto un anno prima e qui sepolto in terra sicana (vicende ampiamente descritte da Virgilio nei celebrati canti III e V dell’Eneide). E qui volle rimanere una parte degli uomini di Enea, stanchi del lungo viaggio, i quali unendosi con le popolazioni indigene, diedero luogo, secondo la leggenda, alla stirpe degli Elimi. La stele comunemente chiamata di Anchise o Virgiliana, eretta negli anni trenta sulla radura di Pizzolungo Erice, di fronte al mare ove sbarcarono i Troiani, vuole ricordare questi eventi. Fra l’altro, secondo alcune fonti storiche e più verisimilmente, sembra che in quel tempo vi fu una cospicua emigrazione di Ittiti che dall’Asia minore si trasferirono in questa parte della Sicilia occidentale fondendosi con le popolazioni locali e dando origine appunto ai Sicano-Elimi.
Continuando il viaggio, durato ben sette anni, dopo aver doppiato Capo Palinuro (dal nome dell’eroe eponimo che in quelle acque annegò), Enea, giunto a Cuma, scende nell’Ade, guidato dalla Sibilla, e qui gli appare il padre Anchise che pronuncia la fatidica e celebre frase, che, quale augure e scultoreo vaticinio, rimane il simbolo più pregnante della gloria della discendenza di Enea e del figlio Iulo:
'…tu regere imperio populos romane memento…pacisque imponere mores, parcere subiectis et debellare superbos' (Virgilio, Eneide, VI 847-853).
Notiamo che Anchise non si rivolge al figlio chiamandolo per nome, ma lo chiama addirittura 'Romano'. Trattasi, insomma, in estrema sintesi, dei basilari e illuminati precetti giuridici di politica estera, con i quali la grande Roma, dopo sette secoli dalla sua fondazione, avrebbe governato il mondo, imposto le costumanze della pace, perdonato coloro che si sarebbero sottomessi, e sconfitto i superbi, proprio con Augusto imperatore che donerà all’intero orbe romano una grande pax universale, detta appunto augustea, che, senza sostanziali mutamenti, durerà sino all’imperatore Marco Aurelio (180 d.C.).
E potremmo dire a questo punto che il principato di Augusto con la sua ideologia (certamente imperialistica e di conquista) è al centro di un lungo excursus storico, sociale, politico dell’intera Roma. Siamo nel periodo dell’epopea romana, definito classico dagli studiosi per il raggiunto grado di civiltà, per l’evoluzione giuridica, per la perfezione della lingua latina, per le conquiste territoriali, e insomma un po’ per tutto l’equilibrio di un certo raggiunto benessere sociale.
E il viaggio di Enea continua, con sosta a Gaeta, sino alla foce del Tevere, finalmente sulle rive del Lazio quale terra predestinata, dove sarà accolto molto ospitalmente da re Latino che gli promette in isposa la figlia Lavinia e alla fine, dopo una sanguinosa guerra contro Turno dei Rutuli, pretendente della donna, ormai vittorioso prende in moglie la sua promessa e fonderà la città di Lavinio così chiamata in onore della sposa. In questa guerra, guardate il caso, verrà aiutato dall’eroe greco Evandro.
Il resto lo sappiamo: la leggenda, attraverso il figlio Iulo o Ascanio e i di lui discendenti, ci porterà a Romolo e Remo e quindi alla fondazione di Roma. Insomma, ecco come l’Oriente troiano si congiunge con l’Occidente, dandone una spiegazione forse non storica ma altamente suggestiva; alcune versioni del mito, già note in Etruria prima del VI secolo a.C. farebbero addirittura derivare il nome di 'Roma' da quello di una donna troiana con il significato di 'forza'. Ma ci sono altre versioni.
ROMA
Ci avviciniamo ora alla seconda parte del nostro tema.
Roma viene fondata per tradizione il 21 aprile del 754 (o piuttosto 753 a.C.). Ma è chiaro che la nascita di Roma così come tramandata è solo una leggenda, laddove invece verosimilmente raggruppamenti di piccoli villaggi si unirono in forma quadra fra l’Isola Tiberina e il Palatino e ciò per ragioni difensive e di vita. Come leggendaria è ovviamente l’ascesa al cielo del fondatore Romolo ad opera del dio Marte, e la sua collocazione nella nomenclatura divina col none di Quirino. Un maestoso tempio fu eretto in suo onore sul Quirinale e i Romani, dal nome del progenitore, si chiamarono anche Quiriti.
Nel bel mezzo di questo viaggio ideale fra Troia e Roma, ritroviamo tuttavia e ancora la Grecia, con l’ influenza che ebbe in genere sul mondo romano. Ma, in particolare, nel campo del diritto che ci riguarda quale fu l’influenza?
Ne facciamo solo un accenno. Anche perché i Greci, ben esperti in altre discipline, non vengono ricordati per il loro diritto. Ciò perché il fatto di essere frazionati in molteplici poleis conduceva ad una valutazione e regolamentazione singola e non generalizzata dei problemi afferenti la legge, e perché la loro propensione alla riflessione e al pensiero portava anche il diritto positivo a speculazioni e soluzioni filosofiche. Pur se alla fine prevalse il diritto attico e primeggia la figura di Solone come grande legislatore e riformatore del diritto in Atene. Quindi per lo più solo taluni aspetti-etico filosofici di origine greca rinveniamo nel diritto romano a seconda delle epoche e della eventuale provenienza ellenica dei giuristi.
FASI STORICO EVOLUTIVE DEL DIRITTO ROMANO
1. Periodo arcaico: dalla fondazione di Roma all’emanazione delle leggi Licinie-Sestie (367 a.C.). Storicamente corrisponde al periodo monarchico e della prima repubblica.
2. Periodo preclassico: dall’emanazione delle leggi Licinie-Sestie fino all’avvento del principato. Storicamente corrisponde al periodo della repubblica romana.
3. Periodo classico: da Augusto (27 a.C.) fino all’avvento dell’imperatore Diocleziano (284 d.C.).
4. Periodo postclassico: dal regno di Diocleziano a quello di Giustiniano (568). E’ il periodo del dominato. L’imperatore non è più il primus inter cives, ma dominus ed deus. I cittadini sono diventati sudditi, e attraverso l’assolutismo l’impero si avvia verso una crisi irreversibile.
Si tratta ovviamente di suddivisioni convenzionali e suscettibili di diversa impostazione.
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Il diritto romano – come acutamente osserva il Riccobono – costituisce la sintesi e il superamento di tanti sistemi di diritto dell’antichità, a cominciare dalla civiltà babilonese, egiziana, greca, sino all’affermazione del dominio di Roma… Così come il diritto giustinianeo costituisce il punto di arrivo e il punto di partenza di una plurisecolare evoluzione (cfr. Salvatore Riccobono in 'Storia del diritto romano' – pagg.19 ss – U. Manfredi Ed.).
Facilmente ne comprendiamo i motivi: perché esso, poi interpretato e rielaborato soprattutto dai maestri della scuola giuridica bolognese, forte dei suoi sistemi universali, spogliato dei suoi elementi arcaici e comunque non più attuali ('il troppo e il vano'), fu sostanzialmente la base del diritto medievale (surclassando i tentativi giuridici barbarici) e moderno, fondamento del diritto comune, che ebbe poi tanta influenza nella stesura dei codici delle nazioni civili moderne soprattutto occidentali.
SUDDIVISIONE DEL DIRITTO ROMANO
Ius quiritium: è il diritto quiritario, cioè dei romani, portatore di consuetudini ancestrali e remote. Abbracciava molti istituti del diritto di famiglia e proprietà privata.
Ius civile: è l’insieme delle norme che regolano i rapporti fra i cives romani (quale loro orgogliosa prerogativa). E - come dice Papiniano nel Digesto giustinianeo - discende dalle leggi, dai plebisciti, dai senatoconsulti, dai decreti degli imperatori e dai responsi dei giurisperiti. In questo senso si parla di personalità del diritto, in quanto al diritto di Roma possono partecipare solo i cives romani; gli stranieri ne sono esclusi, considerati in origine addirittura come nemico, hostis.
Ius honorarium o praetorium: sovviene laddove mancano o sono lacunose le norme dello ius civile (quasi un diritto in fieri). Ed è ancora Papiniano a chiarire: è il diritto dai praetores al fine di aiutare aggiungere, emendare lo ius civile per la pubblica utilità; per questo viene chiamato honorarium in onore dei pretori, magistrati istituiti nel 367 a.C. attraverso le leggi licinie-sestie, togliendo così una parte di potere ai consoli. Ad essi competeva lo ius edicendi, e cioè il potere di emanare editti obbligatori per tutti e quindi la esclusiva competenza della giurisdizione: praetor ius dicit inter cives. La loro carica durava un anno (ben altro oggi avviene !...)
Ius legitimum: è quello che proviene dalle apposite sedi assembleari (comitia centuriata, concilia plebis) e quindi ha particolare vita in età repubblicana e sino ad Augusto. Poi con l’instaurazione dell’impero, vengono meno le assemblee, per addivenire come fonte di produzione giuridica, a un duopolio Senato-imperatore e poi al solo imperatore nella forma di imperatoris constitutio.
Ius gentium: nasce dai rapporti soprattutto commerciali fra i cittadini romani e gli stranieri, i quali come tali non godevano dello ius civile, che come già detto era riferibile solo ai cives di Roma. In embrione è una sorta di diritto internazionale in fieri.
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Tutto ciò, in estrema sintesi premesso, e prendendo atto che il diritto romano nel lungo excursus di Roma attraverso sistemi sociali e di governo evolutisi nei secoli (monarchia, repubblica, principato, dominato) ha raccolto un numero così immenso di norme giuridiche e di istituti per regolare la vita dei cives, che certamente non possono essere ricordati in questa sede. E allora prima di passare alla codificazione giustinianea, desideriamo tuttavia citare, anche perché sono nel comune bagaglio culturale, le leggi delle XII tavole, quale base fondamentale dello ius civile, emanate intorno al 450 a.C.
LEX DUODECIM TABULARUM
Esse, le riprendiamo al plurale, sono insieme alla Corpus Iuris di Giustiniano, le uniche codificazioni organiche del diritto romano. Le XII tavole aprono e la Codificazione giustinianea chiude la storia giuridica di Roma.
Per quanto rappresentassero il codice di un popolo ancora primitivo ed agricolo, non furono mai abolite, essendo sempre riconosciute ed enfatizzate come opera mirabile. Per il loro carattere aspro, rigoroso e formalistico si possono paragonare alle leggi di Mosè.
Sulla genesi di tale codificazione troviamo, in vero, più leggende che verità. Si dice che esse furono originate dal tentativo di raggiungere il pareggiamento fra patriziato e plebe, spesso in continua lotta. All’uopo una commissione di tre membri sarebbe stata inviata in Grecia per studiare le leggi elleniche, anche se le influenze greche appaiono assai sporadiche. Successivamente dieci magistrati (decemviri legibus scribendis), prima tutti patrizi, poi con l’ammissione di alcuni membri della plebe, redassero dieci tavole di leggi, cui in seguito se ne aggiunsero altre due. Siamo intorno al 451 a.C. e le XII Tavole della legge, affisse nel foro, sarebbero state distrutte durante l’incendio gallico del 387 a.C. (cfr. Lauro Chiazzese in 'Diritto romano' – pagg. 78 ss. – Ed. Palumbo). Aggiungiamo che la legge decemvirale non risolse tutti i problemi fra i due ordini sociali.
A seguito dell’incendio detto che sembra distrusse l’originale delle Tavole, i precetti in esse contenuti furono trasmessi oralmente, e, solo dopo molti anni, i giuristi ricostruirono il testo della legge, contenente prevalentemente norme sul processo civile, su quello penale, diritto di famiglia, proprietà e successioni. Le leggi delle XII Tavole, aventi i caratteri di un diritto conforme alla primitiva vita agricola latina, vennero poi adattatate con mezzi indiretti alle esigenze sociali di una civiltà giuridica più evoluta.
Desideriamo concludere questo paragrafo, citando le parole di Chiazzese: i Romani ebbero un vero e proprio culto per questa antica legge che giudicavano contenere 'totam civilem scientiam', e ne mantennero sempre in vigore i precetti, sino a Giustiniano…(ibidem), pur con gli adeguamenti sopra ricordati.
GIUSTINIANO
Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano nacque a Tauresium in Illiria (Macedonia) l’11 maggio 483 e morì a Costantinopoli il 13 o 14 novembre 565. Di origine modeste, romano-illiriche e non slave, era nipote dell’imperatore Giustino I che lo adotto’ e lo volle con sé a corte affinchè curasse l’amministrazione, forte dell’attenta educazione umanistica e teologica che aveva avuto a Costantinopoli. Nel 523 sposò Teodora, ballerina di circo ma donna intelligente, energica e dotata di grande intuito politico. Alla morte dello zio, nel 527, venne eletto imperatore.
Vero sognatore fu animato da grandi intenzioni e ambizioni, e la sua attività politica e sociale risultò assai variegata e importante. Non a caso viene ricordato come l’ultimo dei grandi imperatori romani, riconquistatore di parte dei domini andati perduti, tenace assertore della tradizione latina, e soprattutto il più grande legislatore della storia.
Aveva un alto concetto dell’autorità imperiale e forse per questo assunse spesso atteggiamenti da desposta e tiranno, anche se oggi, la critica moderna, tende a rivalutarlo: bisogna, d’altronde, considerare che egli visse tempi assai difficili e confusi, per i nemici che pressavano ai confini dell’impero ed anche per le influenze negative di un concorrente potere religioso, più incline ai litigi che alla pace.
Fu convinto di essere il continuatore ideale dell’opera di Cesare e di Augusto e come tale di essere investito dalla divina provvidenza per realizzare i tre altissimi compiti o se si vuole progetti unitari per la restaurazione dell’impero e della pace universale:
• come politico l’unità dell’impero di Roma,
• come cristiano l’unità della fede cattolica,
• come legislatore l’unità delle leggi.
Nel campo politico-militare, con l’opera preziosa di grandi condottieri come Belisario e Narsete, conseguì vittorie contro i Vandali in Africa (533), gli Ostrogoti in Italia (535-553) e i Visigoti in Spagna (559). Venne così ripresa una buona parte dei vecchi domini occidentali di Roma nell’intento di riallacciare l’oriente all’occidente in un disegno unitario. Ma ciò costò grandi sacrifici in tutti i sensi sia umani che economici. Gli si rimprovera anche di non avere adeguatamente difeso e rinforzato i confini dell’impero per avventure belliche che poi si rivelarono successi effimeri, svaniti alla sua morte allorchè l’impero ritornò ad essere soltanto impero orientale. E’ considerato anche un sovrano assoluto, crudele, sospettoso, incline a favorire funzionari corrotti e incapaci. Maggiori gli aspetti positivi in altri campi anche se non si può negare la buona intenzione di politica interna di riunire l’impero sotto l’assoluta autorità dell’imperatore.
Nel campo religioso, fu posto un argine definitivo al paganesimo, e la religione cattolica venne confermata come unica e vera in tutto l’impero. Testimonianze tangibili di tale indirizzo sono la costruzione di due templi cristiani meravigliosi, 'Santa Sofia' a Costantinopoli, ritenuta opera della stessa divinità e 'San Vitale' a Ravenna, simboli religiosi ma anche inestimabili tesori dell’arte bizantina, e sotto altro aspetto, il riscatto dei prigionieri, l’abolizione del divorzio e il disfavore verso le seconde nozze. Ma il discorso va più ampiamente continuato nel paragrafo che segue.
Nel campo del diritto, Giustiniano, nell’intento di dare una legislazione uniforme, strumentale alla unitarietà dell’impero, ridusse, come sappiamo, ad unico corpo di leggi, tutta l’immensa produzione giuridica romana dalle origini e sino ai suoi tempi, facendo ovviamente un florilegio di quanto i compilatori trovarono, e con un certo riadattamento alle odierne esigenze. Il corpus iuris civilis giustinianeo, come vedremo più avanti, rappresenta in vero l’opera più straordinaria compiuta dall’imperatore, ma anche il più grande monumento che Roma ha lasciato ai posteri, e sul quale si fonda la maggior parte dei diritti moderni.
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RELIGIONE E DIRITTO IN GIUSTINIANO
Va approfondito l’aspetto religioso di Giustiniano che visse un periodo assai difficile per le dilaganti eresie, per la disputa fra monofisiti e ortodossi, sostenendo i quali l’imperatore ebbe duri scontri con i papi di Roma, dovendo in un certo senso intervenire anche nell’arduo dibattito sulla natura di Cristo, duplice o soltanto divina.
E forse per questo fu giudicato negativamente da una certa storiografia del secolo scorso, ritenendo, fra l’altro, che egli volesse asservire la Chiesa allo Stato, fondatore in sostanza dei principi del Casaropapismo.
Ma non è così. Egli fu un principe cattolico e la sua concezione sullo Stato, sulla Chiesa, sulla fede e sul diritto è essenzialmente cattolica. Ordine divino e ordine umano sono intimamente compenetrati sotto la volontà di Dio che è signore di tutto e creatore di tutto: l’imperatore si qualifica come ultimus servus dei e nelle Pandette la religione è chiamata summa ratio attraverso la quale il legislatore può operare conformandosi ai divini precetti. Il Codex, per esempio, si apre con l’invocazione alla Santissima Trinità.
Per la sua strenua lotta all’eresia, per la sua intolleranza religiosa Giustiniano passò anche come principe crudele. Ma contro i blasfemi, affermò il primato di Pietro (nelle Novelle infatti il Pontefice è definito primus omnium sacerdotium) e asseverò legislativamente i dogmi della Chiesa (SS. Trinità, verginità di Maria, giudizio finale…). Inserì financo leggi ecclesiastiche nel Codice e nelle Novelle, e non a caso considerava i sacerdoti i suoi migliori consiglieri e il suo potere derivato per volontà di Dio. Più volte, infatti, ebbe le benedizioni papali. Per questo la codificazione giustinianea, per la sua commistione di leggi civili e canoni religiosi, ebbe fortuna nei secoli a venire poiché ben recepita e propagandata dalla Chiesa. Solo dopo il mille, e specialmente dopo Dante, comincia la reazione contro il diritto romano che viene considerato in contrasto con la legge divina.
Non mancarono, in vero, alcune divergenze fra Giustiniano e papa Agapito e il suo successore Vigilio (dopo Silverio), ma nella sua legislazione l’imperatore ribadì sempre i principi di monarca cattolico senza mai mostrare alcuna volontà di ergersi a sommo sacerdote. In quel periodo, comunque difficile e confuso, vanno ricordate le continue profonde beghe religiose a causa di scismi, concilii poi magari sconfessati e le manovre opportunistiche dell’imperatrice Teodora.
Per di più, ricordiamo ancora, l’ideale di Giustiniano era quello di riplasmare e vivificare il diritto romano alla luce dei precetti cristiani. L’evoluzione giuridica, in seguito, e cioè dopo di lui, prese, tuttavia, due strade diverse anche se parallele: lo ius civile è la rielaborazione laica del diritto romano, e lo ius canonicum è la rielaborazione dello stesso diritto romano sotto l’aspetto religioso. Per il suo operato, buona parte della critica assolve oggi Giustiniano, come apertamente fa il Riccobono e lo considera un sovrano illuminato e il più grande legislatore della storia.
LA COMPILAZIONE LEGISLATIVA DI GIUSTINIANO
Il progetto di raccogliere e riunire leges e iura della civiltà giuridica romana già vagheggiato da Teodosio II nel suo Codex (438 d.C.), peraltro assai limitato, fu invece compiuto da Giustiniano che per il suo sogno di unità politica, religiosa e giuridica, realizzò proprio nel campo del diritto uno fra gli eventi più memorabili dell’intera storia della cultura umana (cfr. Chiazzese, ibidem, pagg. 387 ss.).
Da spirito sognante, speculativo, mistico, Giustiniano si considerò sempre imperatore di Roma e dell’Occidente e perciò le sue mire a riconquistarlo, come già abbiamo detto. Ed anche la sua opera legislativa nasce in sostanza da questi principi, dalla nostalgia proprio dell’Occidente, terra madre della tradizione latina. Insomma - questo era il proposito - ripristinare in toto il glorioso impero dei padri, quale impresa grandiosa degna di eternità: e non v’è dubbio che il carezzato sogno politico-imperialistico, almeno per breve tempo, riuscì.
Ma è l’opera legislativa da lui compiuta, e di cui ora ci accingiamo a parlare, che davvero lo consegna all’eternità, resistendo vittoriosamente ai secoli e salvando dall’oblio il patrimonio più prezioso del mondo latino. Solo per questo il giudizio della storia non può che essere estremamente positivo, spazzando via le eventuali altre pecche dell’Uomo.
Non a caso il sommo Dante dedica l’intero libro VI del Paradiso a Giustiniano considerato il modello ideale di imperatore che esercita il potere temporale in piena armonia col magistero spirituale della Chiesa, soprattutto quando egli si convertì al dogma cattolico della doppia natura umana e divina di Cristo, grazie anche all’opera svolta da Papa Agapito (cfr. Giampiero Novelli in 'Giustiniano personaggio storico e personaggio letterario' in www.imperobizantino.it/old/Generale art.11.html) (v. supra).
E lasciando da parte la disquisizione poetico-storica sull’aquila romana ricordata dal grande Poeta, ritornando al tema, non possiamo non citare i celebri versi con i quali Giustiniano si presenta e accenna alla sua grande compilazione giuridica:
Cesare fui e son Giustiniano
che, per voler del primo amor ch’io sento,
dentro le leggi trassi il troppo e il vano (Canto VI – vv-10-12)
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Brevemente consideriamo ora sotto l’aspetto, per così dire esteriore e pratico, l’opera legislativa giustinianea.
Novus Iustinianus Codex
Poco dopo la sua proclamazione a imperatore, Giustiniano affidò a Giovanni di Cappadocia, già questore del sacro palazzo (ministro della giustizia) e ad altri nove membri esperti di diritto (fra cui Triboniano), l’incarico di raccogliere in un nuovo codice le costituzioni imperiali, desunte dai tre codici in vigore al suo tempo, il Gregoriano, l’Ermogeniano e il Teodosiano, e dalle novellae constitutiones, successivamente emanate.
Tale compilazione fu compiuta in tempi brevi e pubblicata il 7 aprile 529 con la costituzione Summa rei publicae, così divenendo legge a tutti gli effetti. Di tale compilazione, contenente anche i nomi dei giureconsulti classici citabili e consultabili, e che doveva in un certo senso raggiungere unità e univocità di diritto, nulla è a noi pervenuto.
Il corpus iuris civilis
Per dovere di cronaca chiariamo subito che la denominazione Corpus Iuris Civilis non è di Giustiniano, per quanto in uso da un certo tempo, ma compare per la prima volta nell’edizione di Dionisio Gothofredo (1583).
Il Corpus, com’è noto si compone di quattro parti: Pandette o Digesti, Institutiones, Codex e Novellae. Esaminiamole brevemente.
Pandette o Digesta (Pandectae vel Digesta)
Il 15 dicembre 530 con la const. Deo auctore (notare l’invocazione a Dio per un’opera giuridica) Giustiniano diede l’ordine a Triboniano di raccogliere e riordinare lo ius vetus di epoca classica. E Triboniano (quaestor sacri palatii cioè ministro della giustizia), dato l’impegno così gravoso, si servì di sedici collaboratori, di cui undici erano avvocati. Furono consultati ben 2000 volumi, contenenti tre milioni di linee e solo un ventesimo (150 mila linee) transitò nella compilazione.
Si consultarono, per lo più, i giureconsulti muniti dello ius respondendi, ma non solo questi, mentre furono grandemente utilizzati i giuristi più recenti e in particolare Paolo e Ulpiano. Complessivamente gli autori classici utilizzati furono 38 o 39
L’opera risulta di 50 libri, prevalentemente di ius civile, divisi in titoli e rubriche con l’indicazione dell’autore del passo giuridico riportato. Fu compiuta in tre anni e pubblicata (con una versione anche in greco) il 16 dicembre 533 con la const. Tanta.
Giustiniano avvertì tuttavia che in ogni caso le fonti giuridiche utilizzate dovevano ora intendersi come riformate ed emanate dall’autorità imperiale diventando precetti aventi forza di legge.
Il nome 'pandette' o 'digesti' (rispettivamente di origine greca e latina) significa proprio 'raccolta di tutto / riordino / distribuzione'.
Institutiones
Per la cupida legum iuventus Giustiniano diede altresì incarico a Triboniano, Teofilo e Doroteo di redigere un trattato più semplice e didascalico. Fu compiuto e pubblicato, con la const. Imperatoriam, nel 533 in quattro libri, utilizzando come modello le Institutiones di Gaio.
E’ singolare che il manuale si presenti come un lungo discorso dell’imperatore, suddiviso pure in titoli e rubriche, e, per quanto ad uso scolastico, fu rivestito di autorità di legge.
Codex (repetitae praelectionis)
Si tratta in sostanza di una nuova edizione del Codice di Giustiniano, a noi pervenuto solo in parte e comunque ricostruito dagli studiosi sulla scorta di fonti greche e codici precedenti. Composto di 12 libri e diviso in titoli, fu pubblicato nel 534 con la const. Cordi.
Novellae (constitutiones)
Terminata l’opera principale, non terminò tuttavia l’affanno legislativo dell’imperatore che, negli anni successivi dal 535 al 565, anche per la necessità di adeguare il diritto alle nuove esigenze, emanò una serie di nuove costituzioni, pubblicate per lo più in greco, chiamate appunto Novellae constitutiones o semplicemente Novellae, riguardanti sia il diritto pubblico (amministrativo) che il privato con particolare riferimento ai diritti successori e familiari.
Tali nuove leggi sono pervenute a noi attraverso tre raccolte private.
Giustiniano fu talmente cosciente della grandiosità della sua opera nel campo delle leggi e della sua perfezione che ne vietò ogni commento o modifica, ma ovviamente ciò non era possibile, anche perché imperfezioni e contraddizioni fra le leggi non mancavano. Essa comunque, quale riduzione ad unità dell’antico diritto, fu il modello delle legislazioni successive sino ad ispirare i codici moderni di buona parte dei paesi del mondo, e resta il più grande monumento della romanità.
Nell’opera giustinianea rifulge il genio di Roma nel campo del diritto, diventando così scienza del diritto. Per tale motivo essa appartiene a tutto il mondo civile.
E in conclusione mentre dall’oriente e da Troia in particolare, distrutta a seguito dell’espediente greco del cavallo, partì con Enea la grande avventura verso Roma, così in oriente essa si concluse con Giustiniano e il suo impero, non lontano da quella stessa località dell’Asia Minore da cui era in origine partita.
…e tutto ciò che al mondo è civile,
grande, augusto, egli è romano ancora.
Salve dea Roma…
(Carducci 'Nell’annuale della fondazione di Roma' vv.15-17)
Leonardo Poma
Inserito il 18 Dicembre 2012 nella categoria Relazioni svolte
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