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Da Saffo, la luna celeste dei poeti

Il nostro Presidente, prof. A. Tobia, ha accompagnato il numeroso pubblico presente in una poetica passeggiata lunare

Relatore: Prof. Antonino Tobia

 Da Saffo, la luna musa celeste dei poeti

«È tramontata la Luna
insieme alle Pleiadi
la notte è al suo mezzo
il tempo passa
io dormo sola.»

 'Saffo, veneranda, dal soave sorriso, dal crine viola' è il ritratto che il poeta greco Alceo, suo contemporaneo, ha trasmesso ai posteri.

Immagine riferita a: Da Saffo, la luna celeste dei poetiImmagine riferita a: Da Saffo, la luna celeste dei poetiImmagine riferita a: Da Saffo, la luna celeste dei poetiImmagine riferita a: Da Saffo, la luna celeste dei poetiImmagine riferita a: Da Saffo, la luna celeste dei poetiLa grazia e la bellezza in Saffo si accompagnano ad una profondissima sensibilità poetica. Saffo incarna la leggiadria dello spirito e la grazia femminile, sia quando ammira estasiata le bellezze della natura in un verdeggiante prato ridente dei fiori della primavera, sia quando contempla la solitudine di una notte senza la Luna e le stelle, sia quando il muto satellite diventa suo confidente .

Questo è il carme di una duplice solitudine, quella del cielo che resta privo della luce lunare e della brillantezza delle Pleiadi e con essa la solitudine interiore di chi avverte, insieme al vuoto e al buio del paesaggio sidereo, l’assenza della persona amata.  Saffo è rimasta sola e nel suo letto vuoto soffre la mancanza di colei che ha lasciato per sempre il suo tiaso, per andare sposa, dopo essere stata educava al canto, alla danza, alla poesia, all’amore, come usavano le fanciulle dell’aristocrazia. Il paesaggio notturno è soggetto e allo stesso tempo oggetto della solitudine e si accompagna all’angoscia amorosa non gridata ma intimamente sofferta. È come se, tramontata la luna, nella notte senza più luce, anche dal cuore della donna cadesse ogni speranza. La contemplazione della luna da sempre ha stimolato la creatività individuale e, in particolare, quelle di poeti e artisti, così da consentire le più svariate interpretazioni:

Nella mitologia babilonese la Luna era 'maschio', il dio Sin, protettore della natura. In Egitto, la Luna era identificata col dio Thot, dio della sapienza, della scrittura e della medicina e della giustizia dell’aldilà . Nel mondo greco la Luna era Selene, sorella di Helios, il Sole, e di Eos, l’Aurora. Esiodo nella TeogonImmagine riferita a: Da Saffo, la luna celeste dei poetiImmagine riferita a: Da Saffo, la luna celeste dei poetiia, che tratta della nascita degli dei, raffigura la Luna  come una donna su un carro a due cavalli insieme al Sole.

 Selene, personificazione della Luna piena, è anche la dea dell’amore impossibile. Innamorata del bellissimo pastore Endimione, allorché lo vide di notte mentre dormiva in una grotta, chiese e ottenne da Zeus che il suo amato rimanesse in eterno come lei lo aveva visto e non morisse mai. Il padre degli uomini e degli dei esaudì la passione di Selene, ma allo stesso tempo punì il giovane che aveva osato fare delle avances a Hera, sua moglie, condannandolo ad un sonno eterno. Ogni notte Selene giaceva con Endimione dormiente, dal quale generò cinquanta figli, tra cui il bellissimo Narciso, il cui etimo dal verbo greco narkao (addotmentare, narcotizzare) richiama il mito di Endimione. Se Saffo coglie nel tramonto della Luna il senso profondo della solitudine e della privazione dell’eros, la protagonista dell’Idillio Le incantatrici di Teocrito, poeta siracusano del III secolo a.C., si rivolge alla Luna come ad un’amica e confidente, con la quale rievoca i vari momenti della sua storia d’amore, conclusasi con l’abbandono. L’infelice Simeta, però, non sa quali incantesimi chiedere alla Luna, alla quale sono attribuite facoltà magiche, o di vendicarla con la morte del suo amato o di aiutarla a riconquistare il suo amore. La luna nella sua doppiezza è quindi luce ma anche tenebra: si pensi al licantropo o lupo mannaro della mitologia nordica, che agisce nelle notti di luna piena. La luce lunare, quindi, può essere anticipatrice di calamità. Così, Plutarco ne fa lo sfondo premonitore dell’assassinio di Cesare:

  'dopo cena Cesare si coricò, accanto alla moglie ed ecco che si spalancarono tutte le porte e le finestre della camera: sconvolto dal rumore e dalla luce della Luna che brillava, si accorse che Calpurnia dormiva profondamente, ma nel sonno emetteva lamenti inarticolati; le sembrava infatti di piangere il marito tenendolo tra le braccia ucciso'. 

 Nel Medioevo, la teoria aristotelica-tolemaica articola la visione cosmica di Dante Alighieri.  Il poeta immagina che la Luna costituisca il primo dei nove cieli del Paradiso, il più lontano dell’Empireo e il meno luminoso. In esso colloca gli spiriti mancanti ai voti, tra cui Piccarda Donati e la stessa Costanza d’Altavilla, madre di Federico II.  Dante, tuttavia, espone a Beatrice i suoi dubbi sulla natura delle macchie lunari. Il poeta aveva inizialmente ipotizzato che le macchie fossero il risultato della diversa densità della materia lunare. Ma questa ipotesi, apparentemente razionale, viene confutata da Beatrice, che indirizza la spiegazione sul piano teologico: le macchie lunari sono il simbolo delle imperfezioni umane e terrestri che ancora conservano traccia sulla Luna, sicché l’intensità della luce divina, che esprime la virtù che si lega ai corpi celesti, qui risplende meno che nei cieli superiori.

 Il realismo che caratterizza la visione del pensiero rinascimentale, con il rinato antropocentrismo, trova in  Ludovico Ariosto uno dei suoi più grandi interpreti. Non si tratta di un realismo fotografico, ma poetico e fiabesco. Per l’autore dell’Orlando Furioso, la Luna rappresenta il rovesciamento della Terra, la sede in cui si raccolgono tutte le cose che si perdono sulla Terra, prodotte dalla vanità dei desideri umani.  Sulla Luna sale Astolfo con l’ippogrifo, assistito dall’evangelista Giovanni, per recuperare il senno perso da Orlando, reso pazzo dalla gelosia, dopo avere scoperto la relazione amorosa di Angelica col giovane saraceno Medoro.

  'Da l’apostolo santo fu condutto

 

 In un vallon fra due montagne stretto,

 ove mirabilmente era ridutto

 ciò che si perde o per nostro diffetto,

 o per colpa di tempo o di Fortuna

 In Tasso la Luna assume simboli diversi. Ora la Luna rappresenta il mistero della natura e richiama nella sua mutevolezza il passaggio dalla vita alla morte, ora essa è il simbolo dell’anima umana, vista come il riflesso della luce divina. Durante l’assedio di Gerusalemme, il poeta illumina la scena col chiarore lunare, sicché  si crea un’atmosfera di trepidazione e di attesa.

 Poi arrivò Galileo Galilei, il padre della scienza moderna, che fu il primo a guardare il cielo con il cannocchiale  e a fondare il metodo scientifico moderno, secondo cui la conoscenza deve basarsi sull’osservazione diretta della natura, il grande libro dell’universo scritto in termini matematici. Sostenitore del sistema eliocentrico copernicano, schierandosi contro i dogmi della Chiesa, dimostrò tra l’altro che la Luna è diversa da come Aristotele l’aveva descritta. Il nostro satellite non presenta una natura diversa da quella terrestre, la sua superficie non è liscia e perfetta, ma il paesaggio è ricco di crateri, montagne e valli, e riuscì a misurare l’altezza delle montagne lunari tramite le ombre proiettate dalla luce solare. Le scoperte di Galileo non solo diedero l’avvio agli studi astronomici su basi scientifiche, ma influenzarono la visione del mondo.   Ma le lenti di Galileo puntate sulla Luna non offuscarono le lenti poetiche e quelle colorate della fantasia proprie della società barocca. Lo stesso Giambattista Marino, il massimo poeta dell’età barocca, che si sbizzarrisce nel descrivere il sole come 'la grande padella del cielo', nei confronti della Luna prevale un atteggiamento elegiaco, ricco di immagini e suggestioni, creando un’atmosfera sensuale e coinvolgente. Il poeta soffre perché la sua donna non corrisponde al suo amore e chiede consolazione all’amica-nemica Luna:

 …Di sì bel volto, a sì crudel pensiero

 

Vuoi dar ristoro, e ‘l mio cor sì dolente

Non sai consolar con qualche raggio tuo?....

  Anche nel Settecento, il secolo dell’Illuminismo, la Luna non ha cessato di essere fonte d’ispirazione poetica. La ragione illuministica ha conservato il fascino misterioso della sua dualità, specchio della costante mutevolezza dei sentimenti umani. L’Arcadia, che contrasta il Secentismo e le iperboli barocche, ricorre alla Luna col Metastasio, che nelle scene teatrali dei suoi melodrammi è spesso invocata dagli innamorati e rappresentata come  simbolo di bellezza e purezza,  di malinconia e speranza, soprattutto nelle arie notturne, dove la musica assume ora toni tragici o gioiosi. Ci si avvicina alla sensibilità romantica con toni sempre più drammatici. Nei Canti di Ossian, diffusissimi tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento, la Luna è associata a sentimenti di solitudine, tristezza, nostalgia, vista come un ponte che collega il mondo dei vivi con le anime dei morti che continuano a vagare sotto  la  sua bianca coltre siderea.

 Così la Luna nel carme dei Sepolcri del Foscolo incarna i temi della vita e della morte, essa è testimone silenziosa della storia e anche elemento paesaggistico foriero di pace e di serenità. Il poeta alterna immagini cupe e tristissime ad altre che possono indurre alla speranza. La luna appare pietosa allorché sparge sui tumuli abbandonati i suoi raggi. In uno di questi plebei tumuli giace il sacro capo del Parini, in un paesaggio spettrale:

 … Senti raspar fra le macerie e i bronchi

 

La derelitta cagna ramingando

Su le fosse e famelica ululando;

e uscir dal teschio, ove fuggia la Luna,

l’upupa, e svolazzar su per le croci

sparse per la funerea campagna …

 Al contrario, l’immagine della Luna appare eterea e divina, felice di poter illuminare Firenze e i suoi colli:

 Lieta dell’aer tuo veste la luna

 I tuoi colli per vendemmia festanti …

 Ma è nella poesia italiana dell’Ottocento che la Luna sarà declinata in mille modi, interlocutrice e sempre più testimone del dramma umano.

Placida notte e verecondo raggio

 della cadente luna

 Questo è l’incipit della canzone Ultimo canto di Saffo,scritta dal Leopardi nel maggio del 1822.  Il poeta  rivive il dramma dell’infelicità della poetessa di Lesbo attraverso un monologo pronunciato dinanzi allo spettacolo incantevole della natura, in una notte lunare. L’aggettivo verecondo richiama le antiche immagini del mito, di una Luna casta, vergine, identificata con la vergine Diana. Ma la giovane poetessa di Lesbo sente che quella atmosfera di bellezza che la luce lunare diffonde e quanto di affascinante la natura rivela non le appartiene: già non arride/spettacol molle ai disperati affetti … L’infelice Saffo non si sente respinta solo dal suo amante, Faone, ma anche dalla stessa natura, che evita il suo contatto.

Come Saffo, Leopardi si sente amante respinto di quella natura che pure ama profondamente.

Già nell’idillio La sera del dì di festa, che precede l’Ultimo canto di Saffo, il poeta apre con una bella overture musicale, tipica dell’atmosfera romantica che troviamo nella  Sonata al chiaro di luna  di Beethoven. Il grande musicista tedesco mira ad evocare  immagini di notti serene, con lo stesso movimento lento iniziale che possiamo ammirare negli endecasillabi  leopardiani di apertura:

Dolce e chiara è la luna e senza vento,

e quieta sovra i tetti e in mezzo agli orti

posa la luna, e di lontan rivela

serena ogni montagna.

Anche l’idillio Alla luna prende inizio da un attributo,graziosa  che rivela ammirazione e corrispondenza affettiva con la sua interlocutrice privilegiata.

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!

 La luna, così cara al poeta, sovrasta il colle Tabor, muto testimone del suo stato d’animo pieno d’angoscia, proteso a rimirare il tempo che scorre inesorabile e vano. Custode dei suoi ricordi, la luna assiste allo stato angoscioso del poeta, che non cambia stile. Anche se lontana, immersa nello spazio infinito del cielo, la luna non è assente al dolore del poeta,  ma amica  diletta , compagna nel rimembrar delle passate cose,/ ancor che triste, e che l’affanno duri.

 Un decennio più tardi la luna cesserà di essere graziosa e diletta, non sarà più benevola nei confronti del suo interlocutore, non più la candida amica che con la sua presenza  leniva i travagli angosciosi del suo animo. Dal 1824 al 1828 il Leopardi si dedicherà alla stesura delle Operette morali e in particolare col Dialogo della Natura e di un Islandese sviluppa con un linguaggio filosofico-scientifico il tema dell’infelicità non più solo umana ma di tutti i viventi. La Natura cessa di essere benigna e viene descritta come un organismo soggetto a leggi meccaniche, che non si occupa delle sofferenze umane, ma intenta solo ad assicurare la vita dell’universo col suo processo costante di nascita e morte. È la Luna indifferente, distante dalla sofferenza umana, impietosa, anch’essa costretta a vagare nell’universo senza dar ragione di sé e senza più offrire consolazione a chi le si rivolge. Il pessimismo non sarà più solo uno stato d’animo del poeta, né storico, inteso come condizione unica di tutti gli uomini, bensì cosmico, e anche l’astro che dall’alto illumina le vicende umane sarà sentito come parte di questa concezione pessimistica, divenuta universale. Questa tematica della sofferenza che pervade tutto l’universo è ironicamente rappresentato nel della Dialogo Terra e della Luna: la Terra si lamenta della noia che prova a causa degli esseri umani, insoddisfatti e alla perenne ricerca del piacere, presuntuosi nell’assurdo tentativo di dominare la natura. Di contro, la Luna avverte un profondo senso di solitudine e di tristezza. Alla fine, entrambe riconoscono che la loro esistenza è destinata a ripetersi ciclicamente in un continuo stato di monotona sofferenza di cui ignorano il significato.

 Questi sono i temi trattati liricamente nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia:

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

  Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

 Il dialogo del pastore con la Luna si riduce ad un incalzante monologo, fitto di angosciose domande. La Luna appare lontanissima, estranea ai lamenti del pastore, che s’interroga sul significato della ciclicità della vita dell’universo. Se della sua esistenza terrena egli non riesce a cogliere il senso, si chiede, per di più, se il meccanicismo che regola la Natura approdi a qualcosa d’importante o se è votato ad un fine miserrimo come la vita degli esseri viventi, che ha come ultimo e inesorabile fine la morte, che il pastore considera come un   'abisso orrido, immenso,/ov’ei precipitando il tutto oblia ….

Il paesaggio, in cui è immerso il pastore-umanità, è una landa deserta rischiarata dall’incombente astro lunare, che forse ignora il perché del suo percorso eterno e monotono nel vasto cielo. Gli attributi, che caratterizzavano la Luna negli idilli giovanili, vergine, intatta, giovinetta immortal, candida, e che esprimevano l’affettuoso sentire di una confidenziale amicizia, sono stati sostituiti da aggettivi diversi: essa agli occhi del pastore appare solinga, eterna peregrina, costretta a vivere il suo destino cosmico. Dall’astro lunare il pastore-umanità non riceve conforto né si attende risposte alle sue angosciose domande sul significato della vita. Da qui, l’amara conclusione che

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, in covile o cuna,

è funesto a chi nasce il dì natale.

Una sentenza cosmica, che ha come drammatico interrogativo:

Se la vita è sventura,

perché da noi si dura?

 È un’anticipazione dell’esistenzialismo novecentesco, laddove la corrente filosofica porrà all’attenzione il significato dell’esistenza umana, il tema dell’angoscia legato alla consapevolezza della morte e dell’autenticità della vita.

Il pensiero dei filosofi esistenzialisti, Kierkegaard, Heidegger, Jean-Paul Sartre, influenzeranno la letteratura, l’arte e la psicologia di tutto il Novecento. Se a livello europeo Camus e Kafca sono considerati gli scrittori maggiormente influenzati dalle tematiche filosofiche dell’esistenzialismo, in Italia tale corrente ebbe diverse espressioni letterarie, da Luigi Pirandello, che esplora la ricerca della propria identità in romanzi come Il fu Mattia Pascal e Uno nessuno e centomila; Alberto Moravia con Gli indifferenti e La noia , in cui lo scrittore denuncia l’alienazione e il vuoto esistenziale della borghesia in un momento difficile della politica italiana sotto il regime fascista; Dino Buzzati con Il deserto dei Tartari, in cui è analizzato il senso dell’attesa e il non-senso dell’esistenza umana.

 Non ebbe fortuna il nostro satellite con l’avvento dei Futuristi. La Luna era troppo romantica, languida, adatta agli spiriti deboli.

 Uccidiamo il chiaro di luna! È il titolo del secondo o il terzo manifesto futurista di F. T. Marinetti del 1909.

Il motto futurista era violentemente provocatorio, nell’intenzione di distruggere tutto ciò che appariva frutto di un classicismo stagnante. I giovani futuristi vogliono abolire tutto ciò che sa di passato, la poesia nostalgica, ogni sentimentalismo romantico, protesi verso un futuro fatto di velocità, di metropoli pulsanti di vita.  La luna, cantata come elemento confidenziale che induce alla riflessione sul valore e il significato dell’esistenza o osservata come simbolo di una natura lontana e indifferente,  è dissacrata dai futuristi. Ma le invettive di Marinetti e dei suoi seguaci hanno breve eco.

Il Pascoli colloca il nostro satellite in un clima tra il magico e il favoloso nella lirica L’assiuolo, inserita nella quarta edizione della raccolta Myricae.

  Dov’era la luna? Ché il cielo

 Notava in un’alba di perla,

ed ergersi il mandorlo e il melo

  parevano a meglio vederla

 Venivano soffi di lampi

da un nero di nubi laggiù;

veniva una voce dai campi:

 chiù…

Su tutte le lucide vette             

 tremava un sospiro di vento;

squassavano le cavallette

finissimi sistri d’argento

(tintinni a invisibili porte

che forse non s’aprono più?…);

e c’era quel pianto di morte…

chiù…

 La strofa descrive un paesaggio suggestivo, carico di tensione, come suggerisce l’interrogazione. La luna ancora non è sorta, ma il suo chiarore perlaceo sta diffondendosi nell’immensità del cielo. È un’alba di perla rasserenante e purificatrice, ma il realismo è solo apparente. Il mandorlo e il melo si ergono per meglio assistere al sorgere della luna, trepidando come dinanzi ad una apparizione divina. L’atmosfera è magica, carica di attesa. Soffi di lampi lontani, il verso dell’assiuolo chiù, , il sospiro di vento, il suono sottile ed acuto emesso dalle ali delle cavallette, simile a quello  prodotto dagli antichi sistri egiziani, che accompagnavano il culto di Iside, evocano un angoscioso pianto di morte.

Anche D’Annunzio rifiuta l’assalto alla luna dei Futuristi e si sente, al contrario di Marinetti, inebriato dal paesaggio sidereo, illuminato dalla luna che sta per tramontare, dopo che ha custodito notti d’amore e di piacere:

 O falce di luna calante:

 O falce di luna calante
che brilli su l’acque deserte,
o falce d’argento, qual mèsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù! 

 Aneliti brevi di foglie,

  sospiri di fiori dal bosco 

 esalano al mare: non canto non grido

  non suono pe ’l vasto silenzio va. 

 Oppresso d’amor, di piacere,

  il popol de’ vivi s’addorme... 

 O falce calante, qual mèsse di sogni

  ondeggia al tuo mite chiarore qua giù

 L’impressionismo della lirica pascoliana e l’estetismo sensuale del poeta pescarese si traducono in freddo e crudo espressionismo in Veglia, poesia scritta da Ungaretti l’antivigilia di Natale, il 23 dicembre 1915. Il poeta-soldato è immerso nell’atmosfera squallida della guerra, mentre immagini di desolazione e di morte scorrono alla sua vista. Il paesaggio di macerie e di distruzione è reso ancora più tragico dal plenilunio.

 La luna piena non dà conforto, anzi la sua luce fredda fa risaltare la furia degli eventi e, in particolare il misero cadavere  del compagno morto che gli sta vicino

 massacrato

  con la sua bocca

 digrignata

volta al plenilunio   

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d’amore

Non sono mai stato

tanto

attaccato alla vita

 Montale non trae particolare ispirazione dal paesaggio lunare. Egli ama i paesaggi assolati, il meriggiare, un rovente muro d’orto, il sole che abbaglia.

 Montale scrisse Fine del ‘68,  pochi mesi prima dell’allunaggio del Lem, il mattino del 21 luglio1969. Il poeta immagina di contemplare dalla Luna la Terra con quanto essa contiene con un totale senso di estraneità verso le tante cose a cui noi siamo abituati a dare importanza. Il poeta le elenca con freddo distacco velato d’ironia, con l’intento di criticare i cosiddetti miti della società moderna, la quale si compiace di brindare alla fine dell’anno, gioendo del superficiale e beandosi di se stessi, mentre si disinteressano di quanti soffrono gli eventi tragici delle guerra che insanguinano il mondo : Se uno muore non importa a nessuno. Tanto il suono delle bombe è lontano ed è più dolce ascoltare l’esplosione degli spumanti e dei petardi che salutano il nuovo anno.

Ho contemplato dalla luna, o quasi,

 il modesto pianeta che contiene
filosofia, teologia, politica,
pornografia, letteratura, scienze,
palesi o arcane. Dentro c’è anche l’uomo,
ed io tra questi. E tutto è molto strano.

 Tra poche ore sarà notte e l’anno

 finirà tra esplosioni di spumanti
e di petardi. Forse di bombe o peggio,
ma non qui dove sto. Se uno muore

non importa a nessuno purché sia
sconosciuto e lontano.

 Fine del ’68 è una poesia dalla raccolta Satura. Anche qui, come altrove, il poeta esprime il proprio senso di estraneità alla vita. 

 Ma, dopo che Armstrong e Aldrin hanno passeggiato sul nostro satellite il 21 luglio 1969, a tutti noi e ai poeti, in particolare, è venuta a mancare un’importante e secolare fonte d’ispirazione? È ancora la nostra sorella luna da cui trarre conforto ? è cessata l’aura di mistero che i romantici e gli innamorati le hanno da sempre attribuito?

La risposta a queste domande può trovare la migliore e più umana risposta nella conclusione della novella di Luigi Pirandello del 1912 Ciaula scopre la luna.

Ciàula è un ragazzo  che lavora in una miniera di zolfo in Sicilia, deriso e maltrattato da tutti per la sua scarsa intelligenza. Lui è u povero caruso e ha il compito di portare le gerle cariche di zolfo fuori della zolfara. Una sera, il sovrastante impone ai minatori di lavorare oltre le 16 ore giornaliere e di continuare fino a notte per smaltire il carico picconato durante la giornata. Ciàula, sebbene sia molto stanco, ubbidisce..

Egli non è preoccupato per il buio della miniera, perché ne conosce bene le gallerie, ma ha paura del buio della notte. Egli sentiva a mano a mano crescersi lo sgomento per quel bujo che avrebbe trovato, sbucando dalla zolfara. Alla fine il carico fu pronto, e zi’ Scarda ajutò Ciàula a disporlo e rammentarlo sul sacco attorto dietro la nuca. A mano a mano che zi’ Scarda caricava, Ciàula sentiva piegarsi, sotto, le gambe. Una, a un certo punto, prese a tremargli convulsamente così forte che, temendo di non più reggere al peso, con quel tremitio, Ciàula gridò:

Basta! basta!

Che basta, carogna! – gli rispose zi’ Scarda. E seguitò a caricare.

Si mosse sotto il carico enorme, che richiedeva anche uno sforzo d’equilibrio. Sì, ecco, sì, poteva muoversi, almeno finché andava in piano. Ma come sollevar quel peso, quando sarebbe cominciata la salita?

Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava sopra, non vedeva ancora la buca, che lassù lassù si apriva come un occhio chiaro, d’una deliziosa chiarità d’argento.

Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato. Possibile? Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.

Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.

Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.

Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna… C’era la Luna! la Luna!

E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.

La Luna, per chi con possiede nulla, è la madre, la nostra madre Natura, da noi troppo vilipesa.

Autore Legre

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Inserito il 25 Ottobre 2024 nella categoria Relazioni svolte