Catullo sul lettino...
Il rapporto tra letteratura e psicanalisi è molto stretto, anzi si può dire con Freud che entrambe attingano alle stesse fonti.Ha relazionato in proposito Antonino Tobia
Relatore: Prof. Antonino Tobia
Catullo sul lettino…
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Il rapporto tra letteratura e psicanalisi è molto stretto, anzi si può dire con Freud che entrambe attingano alle stesse fonti, lavorino sopra lo stesso oggetto, anche se con un metodo diverso; e la coincidenza dei risultati sembra costituire la garanzia di aver lavorato in modo corretto (Freud 1906; trad. it. in Opere, 5° vol., Torino 1972 p. 333).Se scrivere è un atto liberatorio della psiche, scrivere versi significa offrire al lettore la parte più intima di sé, renderlo partecipe delle proprie speranze e delle proprie illusioni, come pure dei disagi che si agitano nel suo inconscio.Nella seconda metà del ventesimo secolo la critica letteraria cominciò ad interessarsi di psicanalisi, sulla scia della lezione di Freud e di Jung, superando i condizionamenti della scuola positivista e quella dell’idealismo crociano, Nell’esplorazione delle possibilità della nostra esistenza e dei nostri destini, la psicoanalisi è talvolta la ripetizione in chiave diversa di ciò che sapevano i poeti. Si pensi ai tanti miti cui la psicanalisi ha fatto ricorso, attraverso il filtro della letteratura. Valgano per tutti, i complessi legati al mito di Edipo e a quello di Narciso. Il poeta non ha la pretesa di essere uno scienziato, che deve procedere secondo determinati statuti epistemologici. Egli si limita a parlare di sé anche quando si riflette sui suoi personaggi. Lo psicanalista, invece, analizza il testo poetico per portare in superficie quanto il poeta ha tenuto nascosto attraverso simboli e metafore, per consentire al lettore di trovare da sé la sua verità. Il poeta pone sullo stesso piano, nella sua azione creativa, reale e simbolico, immaginario e contingente, senza la schematizzazione cui conduce il rigore della psicanalisi. Questa nuova chiave di lettura, che la psicanalisi mette a disposizione dello studioso, arricchisce di connotazioni il messaggio dei classici, ne rende ogni volta interessante la lettura, perché in essi vi si trova l’uomo nella sua caleidoscopica umanità.Il testo letterario costituirà il punto di partenza e di arrivo dell’analisi del modus sentiendi di un poeta del I° secolo a. C., tra quelli più vicini alla nostra sfera cognitiva e affettiva. Il poeta che a giovani liceali continua a toccare le fibre del cuore è senz’altro Valerio Catullo. I giovani non si curano dell’elaborazione metrica del poeta, né tanto dei suoi modelli letterari, bensì vanno spontaneamente a cercare di capire il dramma di questo giovane provinciale, catapultato nella società metropolitana dell’Urbe.Il carme 85 , col suo ossimoro iniziale, è quello che ognuno di noi negli anni si porta dentro, avvertendo lla sua eco drammatica e affascinante: Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris./ Nescio, sed fieri sentio et excrucior. In questo distico epigrafico il poeta veronese sintetizza il dramma della sua esistenza. Due sentimenti opposti lo mettono in croce: l’amore come insieme di passione e di possesso e l’odio che nasce dalla determinazione negativa del suo affetto e della fides mal riposta in Lesbia. Così pure nel carme 87: Nulla potest mulier tantum se dicere amatam/ vere, quantum a me Lesbia amata meast./ Nulla fides ullo fuit umquam in foedere tanta,/ quanta in amore tuo ex parte reperta meast. Catullo fa appello alla lealtà e alla fedeltà del suo amore e lo dice con una nota di mestizia, sottolineata dall’aggettivo indefinito 'nulla' che fa da incipit ai due distici. Ma chi era Lesbia? Meritava questa donna tanta passione, tanto tormento, tanta lealtà? Non sappiamo molto della vita di Catullo, oltre quello che riusciamo a cogliere dai suoi carmi. Apparteneva a una ricca famiglia della Gallia cisalpina, che vantava potenti amicizie, tra cui quella di Giulio Cesare. Ventenne giunse a Roma, dove frequentò i circoli letterari dei poetae novi , tra i tanti amori, uno in particolare sconvolse la sua esistenza, quello per Clodia, la sorella maggiore del tribuno della plebe Publio Clodio, sposata con Quinto Metello Celere, la cui morte improvvisa, dopo pochi anni di matrimonio, fece sospettare della moglie. Il sospetto era legittimato dalla condotta eccessivamente libertina di Clodia, non rispondente al ritratto etico della matrona romana per eccellenza, sintetizzato in un antico epitaffio: Casta fuit, domum servavit, lanam fecit. Il ritratto morale di Clodia era lontano mille miglia da simili virtù domestiche. Era bella, di buona famiglia, interessata alla vita politica insieme col fratello. Era di certo una donna interessante, che a un intellettuale di formazione provinciale, più giovane di dieci anni e poco esperto dell’ars amatoria, doveva apparire la dea dell’amore, gioia e tormento, fascino e delusione. L’amore per Clodia, dal poeta cantata col nome di Lesbia in omaggio alla poetessa Saffo, corrisponde a ciò che i greci definivano manìa, cioè passione amorosa, frenesia, invasamento, una vera forma di pazzia. E proprio a Saffo il poeta ricorre per descrivere l’epifania della sua passione, tarlata dalla gelosia: Ille mi par esse deo videtur,/ ille, si fas est, superare divos,/ qui sedens adversus identidem te/ spectat et audit/ dulce ridentidem, misero quod omnis/ eripit sensus mihi: nam simul te,/ Lesbia, aspexi, nihil est super mi/ vocis in ore./ lingua sed torpet, tenuis sub artus/ flamma demanat, sonitu suopte/ tintinnant aures, gemina teguntur/ lumina nocte. Catullo vive in una condizione di sofferenza della psiche, che si manifesta con disturbi di varia natura connessi a situazioni conflittuali. Il suo è un tipico caso di nevrosi, da cui non riesce ad uscire. Sa che l’amore per Lesbia è per lui estasi e sofferenza, una dualità fatta di elementi contrastanti, che non riesce a superare: Povero Catullo – dice a se stesso – smettila di essere fuori dalla realtà e considera finito ciò che è finito. … Se lei non ti vuole più, anche tu, povero pazzo, non continuare a correrle dietro. Non vivere da infelice, ma resisti con animo ostinato, anche se l’hai amata perdutamente . E aggiunge, quasi per trovare conforto: Disgraziata, guai a te! Che vita ti attende? Chi ora si avvicinerà a te? A chi sembrerai affascinante? Con chi andrai a letto? A chi dirai di appartenere ? Chi bacerai? Di chi morderai le labbra? Ma le sofferenze di Lesbia sono solo immaginarie, in realtà egli descrive la sua solitudine e la sua disperazione. Non può dimenticare i giorni in cui tutto gli appariva luminoso e si sentiva esaltato dall’amore che Lesbia gli corrispondeva, al punto da valutare quasi zero le dicerie di chi giudicava scandaloso il suo rapporto con una matrona di aristocratica famiglia, ma di condotta riprovevole per i vecchi troppo severi. L’amore non teme limiti e i baci, che ne danno una ragione manifesta, devono essere tanti e poi tanti, numerose migliaia al punto da non riuscire a tenerne il conto, alla faccia degli invidiosi: Da mi basia mille, deinde centum, dein mille altera, dein secunda centum, deinde usque altera mille, deinde centum. Ma le migliaia non sono sufficienti a tenere il calcolo dei baci, essi, anzi, dovranno eguagliare il gran numero dei granelli della sabbia libica o l’immensa quantità di stelle che spiano i furtivi amori degli uomini. Da qui l’esortazione a vivere e a godere: Vivamus, mea Lesbia, atque amemus … E quando si ama, si ama tutto dell’amata, compreso ciò che per lei è motivo di gioia e di conforto, come il passerotto, col quale Lesbia soleva giocare e che amava più dei suoi occhi. La morte dell’uccello è vissuta come una tragedia da Lesbia, e tale dolore è condiviso da Catullo e dagli stessi Amorini.I latini disponevano di tre termini per indicare il bacio: osculum è di significato generico. Deriva dalla radice os, la bocca interessata all’atto del baciare con le labbra chiuse. Savium è il bacio inteso come manifestazione erotica con amanti e prostitute. Basium esprime la carica passionale, dettata dall’amore per la persona con la quale si ha un’intesa affettiva. Basia sono gli innumerevoli baci che Catullo si scambia con Lesbia e il termine preferito da Catullo finì con l’oscurare gli altri due nelle lingue neolatine. Rimase nel medioevo il termine osculum associato all’aggettivo infame, per indicare un tipo umiliante di sottomissione degli eretici al diavolo. Si trattava del bacio impresso nel sedere come atto di completa accettazione al signore delle forze del male. Anche ai Templari fu rivolta l’accusa di praticare nei loro rituali iniziatici l’osculum infame. Una sorta di osculum infame è quello del 'baciamo le mani', tipico dell’atteggiamento di sottomissione servizievole al padrone o al capo mafia, come pure il bacio della pantofola al papa, che indica completo annullamento della propria volontà.È difficile avere certezze sui rapporti affettivi del poeta con i genitori. Il padre gli morì troppo presto, la madre non compare nei carmi e forse, rimasta vedova, ebbe poco tempo da dedicare alla cura dei figli, chiamata a reggere da sola l’economia della famiglia. Forse a Catullo mancò l’affetto materno, fu geloso delle maggiori attenzioni che la madre rivolgeva al fratello più piccolo. Il clima familiare sviluppò nel piccolo Catullo un carattere ribelle, una continua irrequietudine, una condotta eccentrica, il rifiuto di ogni forma di potere autoritario. Questa ricerca di eccentricità condizionò la sua breve esistenza, gli impedì di condurre la normale vita di un giovane colto e di buona famiglia, di aspirare al cursus honorum. Al contrario subì le contraddizioni della società romana, sconvolta dalle fazioni politiche, travagliata dai giochi di potere e incline alla rilassatezza dei costumi. I giovani, che non volevano farsi travolgere dalla disgregazione delle istituzioni e dalle lotte civili, che logoravano la res pubblica, si votavano alla poesia, preferendo una sorta di ermetismo ante litteram ai violenti vortici della vita politica.Catullo aveva intrapreso una dura battaglia con se stesso per ricostruire una sua identità, esaltata e soffocata dal suo sofferto rapporto con Lesbia. Figlio del pensiero epicureo, cercava di applicarne le massime fondamentali, senza mai raggiungere l’edonè atarassica. La sua vita, dalle testimonianze che ci ha lasciato, trascorreva tra inviti a cena e incontri poetici, tra amori occasionali e l’angoscia di non riuscire a vincere una sorta di depressione che lo spossava. Eppure, avrebbe avuto la possibilità di aspirare ad incarichi politici di prestigio. La sua famiglia poteva vantare amicizie di altissimo livello: lo stesso Giulio Cesare più volte era stato ospite nella sua villa sul lago di Garda negli anni della spedizione gallica.. Nei confronti del più potente uomo politico del tempo Catullo si rivela ironico, quasi rasentando il sarcasmo: Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere/ nec scire utrum sis albus an ater homo.Se volessimo applicare, in modo generico, una valutazione psicoanalitica all’atteggiamento di rifiuto del poeta verso Cesare, si potrebbe forse concludere che i versi di Catullo nascondano una sorta di complesso edipico irrisolto, per la carenza di quell’affetto materno, che aiuta la personalità a maturare. O piuttosto mancava a Catullo proprio il riferimento alla figura paterna, il cui arrivo attende con speranza spiando il mare come Telemaco? Il complesso di Telemaco, che recentemente lo psicanalista Massimo Recalcati ha studiato circa i rapporti tra padri e figli, si adatterebbe forse al giovane ribelle: come Telemaco, cerca il padre non come rivale, ma come una speranza, come l’unica possibilità di riportare la Legge della parola sul caos delle passioni, il logos sull’eros (cfr. M Recalcati, Il complesso di Telemaco, Feltrinelli, Milano 2013, p. 17).Negli amici che costituivano la cerchia dei poetae novi, Catullo trovava una certa compensazione affettiva, non sufficiente a liberarlo dal suo angoscioso infantilismo. I neoteroi o cantores Euphorionis, come li chiamava Cicerone con spregio, influenzati dal pensiero epicureo, difendevano il loro late biosas, sceglievano di vivere appartati con pochi amici eletti, incuranti della carriera politica e degli onori, in una dimensione di asocialità che gli optimates non potevano accettare. Veranio, Fabullo, Licinio Calvo, Elvio Cinna, Cornelio Nepote erano gli amici con i quali Catullo divideva momenti di spensierata familiarità. A Cornelio Nepote, più anziano di una quindicina di anni, dedica il suo Liber, un lusus rispetto all’impegno dell’opera storica di Nepote, che nella sua Chronica aveva voluto omne aevum tribus explicare chartis, doctis, Iuppiter, et laboriosis. Gli aggettivi non nascondono la sottolineatura ironica che, senza offendere il lavoro del destinatario, danno la misura delle preferenze estetiche di Catullo, anche in questo vicino all’alessandrino Callimaco. Il tono prevalente della dedica è affettuoso e il medesimo tono colloquiale Catullo adopera quando si rivolge ai suoi amici. Tale atteggiamento tra l’ironico e il confidenziale caratterizza l’invito a cena del carme 13. Catullo invita l’amico Fabullo, ma mette le mani avanti: cenerà bene se porterà una cena ricca e abbondante, sale, vino, una splendida ragazza e tanti argomenti piacevoli di cui discutere. Purtroppo, il suo sacculus era plenus aranearum e sulla sua villula, la sua casetta di campagna, pendeva un’ipoteca di quindicimila duecento sesterzi. La vita a Roma era costosa per un giovane che amava condurre una vita brillante. Le gravi ristrettezze economiche lo spinsero a seguire il pro-pretore Gaio Memmio nella spedizione in Bitinia, che gli consentì, passando dalla Troade, di visitare la tomba del fratello, che gli era stato strappato immeritatamente dalla fortuna avversa. E’ l’unico accenno a un suo stretto familiare che s’incontra nel Liber. Al fratello Catullo doveva essere particolarmente legato. Lo rivela il tono mesto e addolorato che attraversa i distici elegiaci del carme, modello del celebre sonetto foscoliano, In morte del fratello Giovanni. La morte del fratello segna un profondo solco nell’animus del poeta. È come se la sua spensierata giovinezza fosse di colpo finita. Il triste evento ha messo a tacere la musa scherzosa e briosa e lo induce a riflettere sulla triste realtà della vita. In suo fratello Catullo aveva riposto le sue speranze, forse sognava di vederlo un giorno sposato e di cantare per lui un epitalamio, in cui avrebbe augurato la nascita di un nipote, un piccolo Valerio. Le tenebre dell’Orco hanno inghiottito ogni sua speranza, il destino gli ha precluso questa gioia futura. Perciò ritorna a Sirmione, nella sua casa paterna, per ritrovarsi e lasciarsi cullare tristemente dall’onda dei ricordi. In tale frangente di sicura depressione psichica, Catullo è solo. non ha il conforto di parenti e amici, sente a sé vicina la dolce natura del suo luogo natio. Da qui l’ inno di lode e di ringraziamento alla sua Sirmione, gemma delle isole e delle penisole, che lo esorta a vivere e lo invita a riposarsi nel desiderato letto: O quid solutis est beatius curis,/ cum mens onus reponit, ac peregrino/ labore fessi venimus larem ad nostrum/ desideratoque acquescimus lecto? Nei confronti della sua terra, Catullo si esprime con la medesima delicatezza che l’innamorato usa verso l’oggetto del suo amore. Ciò lo esponeva talvolta alla pungente ironia dei suoi amici e soprattutto di chi confondeva amore e lussuria, fornicare e volere bene. Aurelio e Furio, per esempio, gli rinfacciavano che le tante migliaia di baci, che il poeta si vantava di scambiare con Lesbia, non rivelavano una maschia virilità, quanto una sorta d’infantilismo per di più femmineo. Ma Catullo disponeva anche di un registro adeguato per rispondere alle accuse dei due calunniatori, bollati, ma allo stesso immortalati, da violenti endecasillabi faleci, che li salvarono dalla damnatio memoriae: Pedicabo ego vos et irrumabo,/ Aureli pathice et cinaede Furi,/ … vos, qui milia multa basiorum/ legistis, male me marem putatis? … I costumi sessuali a Roma erano molto permissivi. La bisessualità era molto diffusa, però il civis, a differenza del polités, faceva differenza tra il maschio attivo e il maschio passivo. Il primo, infatti, poteva avere rapporti con le donne e con gli uomini senza intaccare la sua onorabilità, purché svolgesse un ruolo attivo. L’eccezione riguardava il grande Giulio Cesare, comunemente noto come il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti. Era a tutti noto, che il grande generale da giovane, si legge in Svetonio, era stato concupito dal re di Bitinia, Nicomede. Sebbene non rientrasse nella paideia romana, il rapporto sessuale dell’adulto con un fanciullo, idealizzato dalla civiltà greca, era ammesso solo con i giovani schiavi. Al contrario, era vietato dalla legge Scantinia lo stuprum cum puero libero. Tuttavia, non erano rare le trasgressioni, per cui si poteva accendere nell’animo di un adulto l’attrazione fisica per un giovinetto, dotato di grazia e delicatezza. Anche Catullo dedica il carme 48 a un giovinetto di nome Giovenzio, veronese, giunto a Roma e da lui ospitato. Dai versi che descrivono la passione del poeta per il Giovenzio non emerge però alcun rapporto carnale, e tutto si risolve nel desiderio inappagato di baciare tante volte gli occhi del ragazzo, dolci come il miele, mellitos.Come tutti i giovani, Catullo poneva l’amore al centro della sua esistenza, senza esserne mai appagato totalmente. Anelava a stringere un patto di eterno affetto con la donna sbagliata, molto più matura di lui, che lo faceva sperare e disperare: …hoc est gratum nobisque est carius auro,/ quod te restituis, Lesbia, mi cupido,/ restituis cupido atque insperanti, ipsa refers te/ nobis … (C.107).Catullo in amore si rivela immaturo, vittima delle donne. Troppo giovane e troppo provinciale per muoversi agiatamente in mezzo alla vita caotica dell’Urbe. Egli era alla ricerca di se stesso, anelava, soprattutto attraverso l’amore a trovare un ubi consistam, che lo rendesse felice nel nome di un aeternum sanctae foedus amicitiae.Da qui l’interesse che egli mostra nei suoi due epitalami per celebrare il rito nuziale del suo amico Lucio Manlio Torquato con Vinia Aurunculeia (C. 61) e un secondo senza destinatari ( C. 62). Il poeta esalta le gioie e la funzione sociale del matrimonio, cui egli non ha approdato. La sacralità del rito nuziale è legittimata dal candore verginale della sposa, che si sottrae alla madre per donarsi casta al suo giovane sposo, mentre il corteo nuziale risuona del ritornello : Hymen Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee! La vergine avanza verso la casa dello sposo in tutta la sua ingenuità. Si è conservata pura per donare la sua verginità a l’uomo che l’ha scelta in sposa: Ut flos qui in saeptis secretus nascitur hortis,/ … sic virgo, dum intacta manet … / cum par conubium maturo tempore adeptast,/cara viro magis et minus invisa parenti. La fanciulla deve conservarsi vergine fino al matrimonio, perché la verginità, nelle società antiche di stampo rurale, non tota tuast, ex parte parentumst: / tertia pars patris est, pars est data tertia matri,/ tertia sola tuast: noli pugnare duobus,/ qui genero sua iura simul cum dote dederunt. Antonino Tobia
Autore
Prof-Greco
Inserito il 02 Febbraio 2016 nella categoria Relazioni svolte
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