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Bere insieme: eros, trasgrssione, passione politica

Il dott. Giuseppe Abbita ha guidato il numeroso pubblico presente attraverso i simposi dell'età ellenica

Relatore: Dott. Giuseppe Abbita - già Primario di medicina interna

 

Immagine riferita a: Bere insieme: eros, trasgrssione, passione politicaRiportiamo una sintesi della lezione: 'Bere insieme: eros, trasgressione, passione politica' tenuta dal dott. Giuseppe Abbita.
L’argomento riguardava un costume sociale ancora oggi abbastanza diffuso: quello del bere insieme.
Bere insieme, pratica capace di aggregare, di rinsaldare i vincoli sociali, creare e consolidare amicizie: in altre parole di rafforzare il piacere di stare insieme.
Bere insieme, pratica che ha conosciuto, nel corso dei secoli, adattamenti legati ai contesti storici e alle mutate condizioni economiche e sociali, e che rappresentò, almeno nella Grecia antica, ma soprattutto nell’età arcaica, una autentica istituzione collettiva, capace di condizionare la vita sociale e politica della polis.
E che portò alla nascita della grande poesia lirica, che rimarrà una pietra miliare nella letteratura greca, in grado di ispirare la successiva produzione letteraria e la nascita della poesia europea.

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Immagine riferita a: Bere insieme: eros, trasgrssione, passione politicaUn legame indissolubile tra vino, poesia ed eros, caratterizzò il simposio, il bere insieme, in Grecia, almeno per tutta l’età arcaica.
Simposio da sum-pinein, bere insieme, un costume importato dal vicino Oriente e che in Grecia trovò modo di radicarsi, fino a divenire una delle più caratteristiche istituzioni del mondo greco.
E che rappresentò, per molti secoli, una forma di aggregazione tra pari, ed occasione, non solo per bere insieme, ma occasione per condividere valori, modi di pensare e scelte politiche, per trasmettere insegnamenti di carattere morale ed esortazioni militari, per elaborare riflessioni sull’uomo e sulla caducità della vita, per invitare a godere delle gioie dell’eros e del vino e, non per ultimo, il luogo deputato alla produzione e alla esecuzione poetica.
Entreremo, stasera, in punta di piedi, da spettatori, akletoi, non invitati, in un simposio; ed assisteremo ai riti, ai discorsi, ai canti, alle danze, agli amori, ai giochi e alle bravate che lo animavano; e scopriremo anche i valori che tenevano saldamente uniti, tra di loro, i protagonisti del simposio.
Ma quali erano le occasioni per stare e bere insieme o per consumare pasti comunitari?
C’erano delle occasioni pubbliche e delle occasioni private.
Una bevuta comunitaria pubblica, per esempio, poteva avere luogo per festeggiare una vittoria militare o in occasione di una vittoria olimpica.
Ancora, si poteva bere insieme per festeggiare una vittoria in un agone drammatico, come ad esempio nel Simposio di Platone, organizzato per festeggiare la vittoria di Agatone.
…………………
Immagine riferita a: Bere insieme: eros, trasgrssione, passione politicaOccupiamoci del bere insieme, del simposio, in ambito privato, ed in particolare nell’ambito delle cosiddette eterie, associazioni di compagni aristocratici, che avevano in comune valori, lotte, ed esperienze politiche, compreso anche l’esilio.
Per il simposio privato, le pratiche e le regole dell’interazione conviviale diedero vita ad uno spazio specifico, potenzialmente egualitario: l’andròn.
L’andròn aveva una forma quadrata e lungo le quattro pareti erano addossati i letti, i klinai.
Davanti ad ogni kline stava un tavolino e i convitati potevano stare distesi singolarmente o a due a due.
L’andròn, ambiente destinato agli uomini, si trovava nella parte più accessibile della casa, talora con accesso diretto dalla strada.
All’andròn faceva da contraltare il gineceo, situato nella parte più interna e meno accessibile della casa, destinato alle donne, dove queste ultime erano di norma intente a tessere al telaio e alla cura dei bambini.

Immagine riferita a: Bere insieme: eros, trasgrssione, passione politica

I greci, nel simposio, non bevevano vino puro, ma vino miscelato con acqua.
Bere vino puro, alla maniera scitica, tipica dei barbari, era considerata un’azione riprovevole.
I Greci conoscevano bene le proprietà del vino, sia quelle positive, sia quelle negative.
Essi ritenevano che il vino fosse capace di rivelare il vero carattere di un uomo: in vino veritas dicevano i romani, -en oino aleteia, i greci.
In tal senso, l’istituzione simposiale, permetteva di sondare i tratti più veri e più intimi dell’animo umano.
Alla fiamma saggiano oro e argento i competenti
ma dell’uomo è il vino a svelare la mente…….
Silloge Teognidea

Immagine riferita a: Bere insieme: eros, trasgrssione, passione politicaIl vino non veniva bevuto puro, ma mescolato con acqua: le proporzioni erano tre parti di acqua e una di vino, oppure, più spesso, due di acqua e una di vino.

Il vino veniva miscelato in recipienti abbastanza capienti, i crateri, ampi contenitori variamente decorati, che possiamo oggi ammirare, numerosi, nelle vetrine dei nostri musei.
Cratere, dal greco kerànnumi, mescolare.
Il cratere, simbolo del simposio per antonomasia, recipiente dove si mescolano acqua e vino, e simposio, dove si mescolano canti, danze, giochi, idee, valori.
Senofane, in questo frammento, descrive i preparativi di un simposio.
Viene seguito un rituale religioso, tutto deve essere rigorosamente pulito e, all’inizio del banchetto, viene bevuto, a turno, unica eccezione durante lo svolgimento del simposio, un sorso di vino puro.
Gesto che viene accompagnato da una preghiera al Buon Dio.
Il pavimento lustra: mani, tazze pulite.
Uno ci pone in capo le ghirlande,
un altro tende fiale di balsamo. Il cratere
troneggia, pieno di serenità.
……………………………………………….
C’è nel mezzo l’altare coperto di fiori.

La casa è avvolta di festa e di musica:
lodare Dio con puri detti e con discorsi
devoti è, per i buoni, il primo debito.
Dopo avere libato e formulato la preghiera
…………………………………………………………………
non è una colpa il bere, purché a casa si ritorni
senza sostegni, se l’età consente.
………………………………………………..

Immagine riferita a: Bere insieme: eros, trasgrssione, passione politicaIl sorso di vino puro ricorda che esso è un dono divino, che è sacro agli dei e ricorda, nello stesso tempo, la forza, talora incontrollabile, del vino.
Abbiamo detto che vino e poesia formano un binomio inscindibile nella lirica arcaica.
La poesia d’amore nasce, in età arcaica, proprio in ambito simposiale.
Eros, passione amorosa, malattia d’amore, topos che influenzeranno, da ora in poi la poesia d’amore, fino ai nostri giorni.

Con una fronda di mirto giocava
ed una fresca rosa ;
e la sua chioma
le ombrava lieve e gli omeri e le spalle.
Questi bellissimi versi sono di Archiloco, poeta giambico, conosciuto, a torto, soprattutto per le sue invettive sbeffeggianti e per il suo carattere vendicativo.
Di lui ci restano pochissimi frammenti, talora dei frantumi, ma questi pochi versi ci rendono conto del livello raggiunto dalla lirica arcaica.
Immagine riferita a: Bere insieme: eros, trasgrssione, passione politicaArchiloco fu, a mio parere, il primo poeta amoroso, e che poeta!
In Archiloco l’ideazione è forte e semplice nello stesso tempo; l’espressione è essenziale, direi quasi impressionistica.
Archiloco fu inoltre il primo a descrivere i sintomi della malattia d’amore.
Ecco qui altri versi di insuperata bellezza.

Sintomatologia d’amore che sarà descritta in maniera ancora più precisa da Saffo, e resa attraverso una descrizione fisica dettagliata e concreta.

E’ la descrizione puntuale di una vera e propria tempesta neurovegetativa, in cui prevale ora il sistema parasimpatico, ora quello simpatico: vasodilatazione con vampate di calore cui fanno seguito vasocostrizione con sudorazione fredda, tremori, senso di mancamento, difficoltà nell’eloquio.

E ancora Saffo:

Eros che scioglie le membra mi scuote nuovamente :
dolce amara invincibile belva
Saffo

Altre volte queste liriche sono pervase da una fresca e delicata sensualità:

Una nutrice le guidava profumate
nei capelli e il seno…
Archiloco

Oppure:
Scioglieva ricamate vesti di porpora e veli e fibbie
Ibico

O ancora

Vengono
alle tue rive le fanciulle, i fianchi
accarezzati dalle mani lievi;
e l’acqua è dolce, là, come un profumo...

Alceo

Amore non solo etero, ma spesso omoerotico.
Ecco come si rivolge Teognide a Cirno, il suo giovane eromenos:

L’amore che ho per te mi spinge a darti i consigli
che io fanciullo, o Cirno, ricevetti da buoni.
Abbi senno, e con atti disdicevoli e ingiusti
non cercare il successo, gli onori e la ricchezza.
Questo devi sapere, e non frequentare la vile
gente, ma resta sempre in compagnia dei nobili.
Immagine riferita a: Bere insieme: eros, trasgrssione, passione politicaQuesti rapporti omoerotici avevano il compito di trasmettere al giovane il complesso di idee e conoscenze che lo avrebbero introdotto alla successiva età della vita e di favorire la trasmissione di un patrimonio di valori e di comportamenti sociali da una generazione all’altra.
In altre parole il rapporto omoerotico o, se volete, pederotico, si configurava anche e soprattutto come rapporto educativo fra maestro e allievo.
Teognide, rivolgendosi al suo Cirno, gli raccomanda di ascoltare i consigli dei nobili, come ha fatto lui da giovane, e di non frequentare la vil gente.
In questo componimento il termine agatòi, buoni, viene più volte ripetuto, e viene contrapposto a kakòi.
Ma chi sono questi agatoi?
L’uomo agatos, nella società del simposio arcaico, è un nobile, un aristocratico, che fa parte di una eteria, di una consorteria di aristocratici, con i quali condivide egalitariamente educazione, valori, comportamenti sociali.
L’uomo agatos è, in genere, un ricco proprietario terriero e il possesso della terra è, per lui, fonte non solo di ricchezza, ma anche di diritti legati alla cittadinanza.
Sono gli agatoi che di fatto detengono il potere economico e politico nella polis,nella città-stato.
Essi sono preoccupati dall’ascesa di nuovi gruppi e nuove categorie sociali emergenti: artigiani, commercianti, artisti, che si erano affrancati dalla dipendenza dai proprietari terrieri, che erano riusciti ad accumulare considerevoli ricchezze, che stringevano vincoli di parentela con i nobili, e che rivendicavano un ruolo decisionale nella vita della polis.

Così ancora Teognide:

Montoni, asini e cavalli di qualità noi bramiamo,
o Cirno; e vogliamo destinare alla monta
quelli di razza pura. Ma un nobile non ha scrupoli
a sposare una plebea, di padre plebeo, se gli porta molto denaro;
né una signora ricusa di esser moglie di un plebeo
che sia ricco: alla nobiltà preferisce la ricchezza.
Pregiano solo i denari; e un nobile sposa la figlia di un plebeo,
e un plebeo la figlia di un nobile: così la ricchezza ha mischiato le stirpi.
Non ti meravigliare, dunque, o Polipaide, che la razza
dei cittadini si oscuri: il buono si mescola al cattivo.

Ecco: buono, agatòs, nel senso di nobile, e cattivo, kakòs, nel senso di plebeo.

……………….

Il simposio rappresentava anche un luogo di intrattenimento ludico, in cui si giocava, si scherzava, si motteggiava, si indirizzavano brindisi carichi di doppi sensi, sfruttando per esempio la somiglianza di pìnein, bere, con binèin, che ha tuttaltro significato.
E’ nel simposio che nasce la poesia giambica, la poesia dell’invettiva, poesia controcorrente, iconoclasta, trasgressiva, dissacrante.
In una società in cui domina ancora una cultura di vergogna, un comportamento che si pone al di fuori dei modelli positivi, o ritenuti tali,- vedi ad esempio, il tradimento della parola data, o l’allontanamento dai valori ritenuti fondanti delle eterie-, viene punito con una sanzione esterna rappresentata dal momos, dal biasimo sociale, e dall’emarginazione dell’individuo resosi colpevole di tale comportamento.
Biasimo sociale rappresentato in maniera aggressiva nella poesia di Archiloco ed Ipponatte, che con la violenza dei loro attacchi, si dice, avessero indotto le loro vittime ad impiccarsi.
La società greca, in questa fase di transizione tra il cosiddetto medioevo ellenico e la nascita delle polis, è ancora una società tutto sommato semplice, conservatrice, caratterizzata ancora da schemi e modelli rigidi.
L’aggressività realizzata nell’attacco giambico coalizza il gruppo dell’eteria e ne rafforza meccanicamente la solidarietà e i vincoli sociali.
Ma nuovi fermenti trasformeranno ben presto la società della polis in una società più complessa, più moderna, nella quale cominceranno ad emergere le coscienze individuali, in cui i sentimenti collettivi saranno meno rigidi; una società aperta al mondo del lavoro, in cui i nuovi ceti avranno riconosciuto, giocoforza, un ruolo importante, entreranno a far parte, legittimamente, della società civile, e parteciperanno, a pieno titolo, al governo della polis.
Ma vediamo qualche esempio di questa poesia giambica.
In questo frammento, attribuito ad Ipponatte, ma più verosimilmente ascrivibile ad Archiloco, il destinatario aveva infranto i giuramenti, o aveva tradito i compagni di eteria, aderendo a nuovi valori e comportamenti sociali, diversi da quelli aristocratici che tenevano saldamente uniti i partecipanti al simposio.
Era quindi meritevole del biasimo e della feroce invettiva del poeta, che gli augura ironicamente di fare naufragio e di essere accolto benevolmente dai Traci, famosi, invece, per la loro ferocia.

Sbattuto dalle onde. E in Salmidesso, nudo, lo accolgano
benevolmente i Traci
dall’alto ciuffo - di molti mali, qui, colmerà la misura,
mangiando il pane della schiavitù -
lui irrigidito dal gelo. E fuor dalla schiuma
sia tutto coperto di alghe,
e batta i denti, come un cane
giacendo bocconi per lo sfinimento
lungo la battigia.
Questi mali vorrei incontrasse
chi m’offese, chi calpestò i giuramenti,
l’amico d’un tempo.

In quest’altro frammento Ipponatte prende di mira un pittore da strapazzo che aveva dipinto un serpente sul fianco di una nave.
Questi dipinti, che troviamo ancora oggi sulla prua delle nostre barche, avevano una funzione apotropaica, cioè di tenere lontani i pericoli durante la navigazione.
Ma quell’imbecille di Mimne aveva dipinto il serpente in senso inverso: dalla prua verso la poppa, rivolto contro il timoniere.
Mimne, culorotto,
non dipingere più sulle fiancate
di una trireme, dove sono i banchi,
un serpente che guizza dalla prua
verso il nocchiero: è segno di sventura
per il nocchiero, o pezzente e miserabile,
se lo morde allo stinco quel serpente.

Durante il simposio dunque si discuteva, si cantava, si scherzava, si giocava.
Un gioco comunissimo era il cottabo, uno degli intrattenimenti ludici e sicuramente meno intellettuali del simposio.
Il gioco, nella sua forma classica, il kóttabos kataktós, consisteva nel lanciare le ultime gocce di vino rimaste nella coppa, tentando di colpire un piattello-bersaglio, posto in equilibrio instabile sulla sommità di un’asta.
A metà dell’asta veniva sistemato un disco più grande.
L’abilità consisteva nel fare cadere il piattello sul disco posto a mezz’asta, provocando così un sonoro fracasso.
La kylix, la coppa, veniva tenuta con l’indice e appoggiata al polso, e il liquido veniva lanciato all’indietro, con un gesto calibrato, stando sdraiati sul fianco sinistro.
Il gioco si connotava inoltre di una forte valenza erotica.
Il gesto ludico, infatti, era accompagnato dall’invocazione del nome della persona di cui si desideravano i favori.
Al simposio e ai divertimenti non erano ammesse le donne.
Unica eccezione era rappresentata dalle flautiste e dalle etère, cortigiane e colte prostitute, che godevano di ampia libertà e considerazione, il cui compito era quello di accompagnare il canto col suono dell’aulo, il doppio flauto, e di intrattenere piacevolmente gli ospiti.
Il cottabo era nato in Sicilia, ed era stato importato in Grecia dai coloni dorici.
Degenerazioni e trasgressioni non erano infrequenti durante e, soprattutto dopo, i simposi.
In molte pitture vascolari sono rappresentate scene di komos, cortei di giovani disinibiti, intenti in danze sfrenate ed atti licenziosi.
Non tutti i simposi erano caratterizzati da una profonda levatura intellettuale, e non era quindi infrequente imbattersi in simposiasti ubriachi che, in preda ai fumi dell’alcool, irrompevano nelle strade, dandosi alla baldoria e talora ad atti vandalici.

Così Pascoli nei suoi poemi conviviali.

Poteva anche succedere che durante il komos questi giovani, provenienti da un banchetto, irrompessero in altri simposi.
Celebre, a tal proposito, è la scena in cui il giovane Alcibiade, ubriaco fradicio e sorretto da una flautista, irrompe nella casa di Agatone, durante il Simposio descrittoci da Platone, e dopo che Socrate aveva finito di pronunciare il suo discorso su eros.
« E quando Socrate ebbe detto queste cose, i presenti applaudirono; ...e d’un tratto fu picchiato alla porta del cortile, che fece gran rumore, per opera - sembrava - di una brigata allegra, ed essi udirono la voce di una flautista... E non molto dopo udirono la voce di Alcibiade, dal cortile: era completamente ubriaco e gridava forte domandando dove fosse Agatone e pretendendo che lo si conducesse da lui. Sorreggendolo, dunque, la flautista e alcuni altri del suo seguito, lo condussero dai presenti; e lui si fermò sulla porta, cinto da una fitta corona d’edera e di violette, e con una gran quantità di nastri sul capo, e disse: - Vi saluto, signori: volete accettare come compagno nel bere un uomo ubriaco fradicio, oppure dobbiamo andarcene...? ...giungo adesso, con i nastri sul capo per toglierli dal mio capo e inghirlandare il capo del più sapiente e del più bello. Riderete forse di me perché sono ubriaco? Eppure io, anche se voi ridete, so bene di dire la verità... »
 (Platone, Simposio (212 c, d, e)
A causa di questi comportamenti goliardici e disinibiti di Alcibiade, e di questa sua tendenza alle intemperanze, i suoi avversari politici ebbero buon gioco nell’accusarlo di avere, con altri giovani, alla vigilia della spedizione ateniese in Sicilia, mutilato le erme.
E, probabilmente, non avevano tutti i torti!
Queste erme, rappresentanti la testa di Ermes, erano dei cippi marmorei collocati ai crocevia delle strade, e l’atto sacrilego della loro mutilazione, era stato ritenuto di cattivo auspicio per la spedizione in Sicilia.

Ateneo ci racconta di una casa di Agrigento che portava il nome di una trireme, per ricordare un fatto avvenuto in quella casa.
Un gruppo di giovani, in preda ai fumi del vino, credettero di essere su una nave nel ben mezzo di una tempesta, e gettarono fuori casa tutti i mobili per alleggerire il carico.
Interrogati dai magistrati il giorno dopo, continuarono a rispondere alle domande, convinti ancora di avere scampato la tempesta.
E a proposito di navi in mezzo alla tempesta, il mio pensiero va immediatamente all’allegoria della nave di Alceo, espressione poetica di quella forte passione politica che animava i membri delle eterie aristocratiche.

Non capisco
il tumulto dei venti:
infatti, un’onda si avvolge di qua
ed una di là, e
noi nel mezzo siamo trascinati
con la nera nave, assai travagliati
per la grande tempesta:
l’acqua della sentina
supera la base dell’albero, mentre la vela
è già tutta squarciata e grandi brandelli
ne pendono: si allentano le sartie…

E’ la famosa allegoria della nave che sarà poi ripresa da Platone nella Repubblica e da Orazio e più tardi ancora da Dante nel VI canto del Purgatorio:


La nave rappresenta la polis, la città, sconquassata da lotte intestine tra classe aristocratica e tiranni.
La parola stasis utilizzata in questa lirica ha il significato di direzione, movimento dei venti, ma anche il significato di rivoluzione, tumulto, instabilità.
L’instabilità cui si riferisce Alceo è un’instabilità politica dovuta al feroce antagonismo, nella polis nascente, tra la classe degli aristocratici e i tiranni. Instabilità politica che Alceo esprime qui con estrema passione: 'assai travagliati
per la grande tempesta': come nel mare in tempesta non può esserci alcun punto di riferimento, così anche nella città sconquassata dalle lotte intestine, non può esserci una guida sicura.
Alceo è un aristocratico e ce l’ha a morte con i tiranni.
Assieme a Pittaco, suo compagno di eteria e considerato uno dei Sette saggi, partecipò alle lotte civili per il governo di Mitilene; e più di una volta fu costretto ad andare in esilio lasciando l’isola di Lesbo.

Quando il tiranno Mirsilo viene ucciso egli canta:

Ora, bisogna ubriacarsi.
Ora, bisogna che ognuno
a forza beva: Mirsilo è morto.

Ma, alla morte di Mirsilo, Pittaco tradì la lealtà ai valori aristocratici dell’eteria e divenne egli stesso un tiranno, attirandosi le ire e le violente invettive di Alceo.

Pittaco, figlio di vile padre,
con sperticate lodi tutti insieme
lo acclamarono tiranno
della città smidollata e votata
a una sorte funesta

Ma questi tiranni erano davvero individui riprovevoli?
Il tiranno, almeno inizialmente, non aveva il significato negativo che siamo soliti attribuirgli.
Il tiranno è quasi sempre un nobile, transfuga della sua classe, che si fa portavoce delle nuove classi emergenti e dei loro interessi e che assume, a furor di popolo, il potere, strappandolo all’egemonia degli agatoi, degli aristocratici.
Sul finire del settimo secolo a.C. le tensioni sociali erano altissime.
I nuovi ceti emergenti: artigiani, artisti, commercianti, detentori di un considerevole potere economico, rivendicavano un ruolo importante nella gestione politica della polis, ruolo che fino allora ricoperto esclusivamente dalla classe aristocratica.
Il ruolo del tiranno era perciò quello dell’esimneta o di diallaktès, arbitro, riconciliatore, mediatore, tra i vari gruppi in lotta.
Diallaktès, arbitro, riconciliatore, fu Solone, che nel 594 a.C. diede un corpus di leggi alla città di Atene.
La situazione allora era drammatica: da una parte stavano le famiglie nobili, che detenevano la quasi totalità della terra; dall’altro una massa di persone che viveva in condizioni assolutamente drammatiche.
Molti erano contadini liberi che coltivavano la terra dei padroni trattenendo per sé solo un sesto del raccolto.
A queste condizioni erano costretti ad indebitarsi con i padroni dando in pegno se stessi, e diventando così schiavi del loro creditore.
Uno dei primi provvedimenti di Solone fu quello di sciogliere le catene della schiavitù, cancellando i debiti.
E di ciò andava orgogliosamente fiero, come ci ha tramandato in una delle sue elegie:

….e feci liberi quelli che subivano qui in patria
ignobile schiavitù e tremavano
per i capricci dei padroni. Quante cose
ho compiuto, armonizzando al potere la forza
e la giustizia insieme: era la mia promessa.
Scrissi leggi allo stesso modo (homoios)
per nobili (agathoi) e plebei (kakoi),
conciliando una retta giustizia per entrambi.
[Solone, fr. 24 Diels 13-20]

Intanto era radicalmente cambiato il modo di combattere.
Il carro da guerra e i duelli tra i comandanti, immortalati nell’Iliade, erano soltanto un ricordo.
Il punto di forza dell’esercito sono ora gli opliti, equipaggiati con scudo, lancia, corazza ed elmo, al sostentamento dei quali contribuisco i ceti emergenti, benestanti economicamente.

Ora si combatte vicini, affiancati, serrando le fila.
Così Tirteo, maestro di scuola zoppo, inviato quasi per scherno dagli Ateniesi a Sparta, esorta i giovani Spartani:

Bello è morire a chi cade restando schierato fra i primi,
da valoroso, offrendo la vita per la patria……….
Voi, giovani, lottate restando vicini l’un l’altro……
E Callino così esorta i giovani alla difesa della patria, minacciata dagli invasori:

Fino a quando starete a giacere? Quand’è che avrete coraggio,
giovani? Non provate vergogna dei vicini,
voi così rilassati? credete di essere in pace ,
ma già la guerra arde tutto il paese………
Reca vanto e splendore a un vero uomo il combattere
per la sua terra e i suoi figli e la sposa legittima
contro i nemici….
Questi canti sono pervasi da un forte sentimento patriottico, c’è in essi una visione del bene comune, un’ ansia per la sopravvivenza e le sorti della polis.
Nella polis, nella città-stato nascente, ai valori individuali e competitivi, tipici dell’eroe omerico, cominciano ad essere anteposti i valori collettivi e collaborativi, il cui esempio più fulgido sarà Leonida, che nel 480 a.C., si sacrificherà alle Termopili, assieme a 300 compagni, per difendere la collettività in pericolo.
Erodoto, nelle Storie, ci ricorda che alle Termopili era posta questa iscrizione in memoria del sacrificio di quei 300 eroi.
« ὦ ξεῖν’, ἀγγέλλειν Λακεδαιμονίοις ὅτι τῇδε
κείμεθα τοῖς κείνων ῥήμασι πειθόμενοι »  « O viandante, annuncia agli Spartani che qui noi morimmo obbedienti al loro comando. »

Spesso questi poeti erano costretti all’esilio, in seguito a capovolgimenti politici nelle loro città o per l’occupazione da parte di eserciti stranieri.
Teognide, nativo di Megara, era stato in esilio in Sicilia, a Megara Iblea, colonia della madre patria Megara.
E probabilmente, è una mia supposizione, fu anche a Selinunte, che era stata fondata a sua volta da coloni di Megara Iblea, magari suoi lontani parenti.
D’altra parte Selinunte doveva avere già una buona tradizione poetica.
Più tardi, infatti, Teleste, poeta ditirambico di Selinunte, avrebbe riportato, sul finire del V° sec. a.C., una vittoria in una gara poetica ad Atene.
Ed Alessandro Magno, come riporta Plutarco, portava sempre con sé, durante le sue spedizioni, le opere di Teleste selinuntino.
Dicevo che spesso questi poeti erano costretti all’esilio e molto forte era, per loro, la nostalgia della terra natale.
Così Teognide in questi struggenti versi dedicati alla sua patria:

Arrivai alla terra di Sicilia ed alla pianura di Eubea, coi suoi vigneti,
e a Sparta giunsi, la splendida città sull’Eurota ricco di canne.
Tutti mi accolsero con affetto, ma non ne ebbi gioia nel cuore
poiché niente mi è caro più della patria.
Il canto è gioia ed espressione di un cuore libero.
Ma la lontananza dalla patria, occupata da stranieri, il pensiero della sua terra che nutre coi suoi frutti gli occupanti stranieri dai biondi capelli, gli impedisce di cantare.
E perciò ancora Teognide:
Con che cuore potremmo noi cantare
stando accanto all’auleta? Si intravede
dalla piazza il confine della terra
che coi suoi frutti nutre nei conviti
chi si mette corone color porpora
sopra i biondi capelli.

E come non andare con la mente a Salvatore Quasimodo, che nella lirica 'Alle fronde dei salici ', sull’Italia occupata dai nazisti e tormentata dalla guerra civile, riprende l’incipit dell’elegia teognidea?

Mi avvio alla conclusione.
Questa sera abbiamo cercato di capire cosa fosse un simposio, come si svolgeva, quali valori rappresentasse.
In una società in cui la trasmissione era ancora fondamentalmente orale, dove la viva parola era alla base di ogni forma di comunicazione, la poesia era arte, storia, fonte di educazione, motivo d’intrattenimento; assolveva al compito di generare opinione pubblica, di diffondere idee, di lodare alcuni individui e biasimarne altri davanti alla collettività, di istruire la gioventù, di esortare all’azione politica.
Era l’alba di una civiltà, stavano germogliando la poesia e il pensiero moderno.
Si stavano creando, in altre parole, le basi per la nascita della nostra cultura e della nostra civiltà occidentale.
Cosa ci è rimasto di tutto ciò?
Un’eredità pesante da gestire ed una enorme responsabilità.

Il filosofo e giornalista Bernard Henri-Levy, in un suo articolo del Corriere della sera sulla crisi finanziaria che sta colpendo oggi l’Europa, ed in particolare la Grecia e l’Italia, scrive:
'E’ l’Europa stessa ad essere in crisi. Non la finanza, non l’economia. L’Europa, la sua cultura, il suo genio. Quel che le fa da basamento e quello da cui ha origine. Anche la soluzione della crisi non sarà finanziaria né economica, ma spirituale, morale, politica.
L’Europa si è costituita , una prima volta, sostituendo al dire dell’aruspice e del divino la parola del cittadino magistrato. Ebbene, allo stesso modo ora bisognerà che ai nuovi aruspici che sono gli agitatori dei mercati finanziari, ai nuovi grandi 'scomunicatori' che sono gli agenti della triplice A, si contrapponga un dire, una saggezza, un tipo di parola e di ascolto, degli arconti , dei polemarchi, che siano fedeli a quel che di meglio esiste nell’eredità europea. Ritrovare Roma, restaurare Atene, ritrovare cioè i fondamenti della nostra cultura e della nostra civiltà. E’ questo l’unico programma. Perchè il resto, cioè l’amministrazione, la finanza, l’economia, come al solito, seguirà.'
Ma del bere insieme ci è rimasto anche qualcosa di più banale.
Una recente ricerca ha stabilito che i temi più discussi , quando ci si ritrova seduti al tavolino di un bar, sono : eros, gossip, politica.
D’altra parte, di cosa discutiamo quando ci riuniamo, dopo cena, sorseggiando un buon vino, e giocando magari a burraco?
Il discorso va inevitabilmente a finire alla farfallina di Belen, alle imprese amatorie del Cavaliere, alle lacrime della Fornero o alle tasse di Monti.
………………
Ogni partecipante al simposio aveva un debito da pagare.
A turno, girando verso destra, epi dexià, doveva cantare dei versi, o fare un discorso, o esprimere un’opinione su un dato argomento-abbiamo, per esempio, visto che nel Simposio di Platone ogni partecipante al simposio doveva esprimere la sua opinione su Eros.
Non poteva poi mancare un brindisi augurale rivolto ai presenti e al padrone di casa, il simposiarca: kaire, kaire, kai pie eù-salute, salute e bevi bene.
Ed anche io, al termine dell’ incontro di stasera, dopo avere posto sul mio capo una ghirlanda e dopo averne posto un’altra sul capo del simposiarca, ne converrete tutti, il più sapiente e il più bello, desidero pagare il mio debito con un brindisi augurale:
kaire, kaire, kai pie eù, alla vostra, alla mia, e alla salute di Nuccio Tobia.

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Alla fine della interessante relazione, il numeroso pubblico presente ha applaudito lungamente.

Autore Prof-Greco

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Inserito il 07 Dicembre 2012 nella categoria Relazioni svolte