Relatore: Prof. Salvatore Rizzuti - Scultore
<_div>Si riporta qui di seguito la relazione integrale dello scultore Salvatore Rizzuti
<_div>Breve premessa - Credo che difficilmente si possa non condividere con Leopardi la sua definizione della musica come 'l’unico linguaggio universale', e, poiché la musica, come tutte le arti, è un linguaggio, non si può non concordare sulla diretta connessione tra l’arte e la comunicazione, anzi, si può benissimo affermare che l’arte è comunicazione. Trattare l’argomento in senso generale non è cosa facile, poiché è talmente vasto che ci vorrebbero più specialisti per poterlo fare e soprattutto non rientra nella mia competenza. Mi limiterò, pertanto, alle mie modeste conoscenze e al mio vissuto esperienziale nel campo specifico della scultura, essendo io uno che si esprime col linguaggio muto della materia. Non potendo, per ovvie ragioni, trattare l’argomento ad ampio raggio, ho cercato di fare una sintesi, non senza colpevoli esclusioni, focalizzando l’attenzione su determinati periodi della preistoria e della storia, di cui ho ritenuto necessario fare cenno, fino ad arrivare al tempo attuale. 1 - Le società primitive Quello dell’arte è stato il primo dei linguaggi dell’uomo, ancor prima del linguaggio della parola, poiché fin da subito l’uomo primitivo ha avuto la necessità di usare l’intelligenza e le mani, per sopravvivere nel contesto della natura e per difendersi o aggredire gli altri esseri viventi. Sarà azzardato ciò che sto per dire, ma, se si vuole e se ci si immedesima nella dimensione esistenziale dei primi uomini, anche la semplice costruzione delle prime armi rudimentali ricavate dalle selci si può considerare un atto creativo, dettato dal bisogno ma pur sempre un atto creativo, dunque arte. Conseguentemente, se ci si sofferma sul versante comunicativo dell’arte, si può determinare che essa va considerata anche sotto l’aspetto utilitaristico. Ma la creatività vera e propria, per quanto sempre dettata da una necessità di sopravvivenza, nasce con la stagione dei graffiti, nei quali l’uomo primitivo inizia a rappresentare, a mettere in scena i vissuti reali, anche sotto l’aspetto propiziatorio per i futuri combattimenti con le proprie prede. Continuo ad azzardare sostenendo che, a mio modesto parere, siamo già all’alba della ricerca della spiritualità. Quelle scene di caccia, infatti, contengono già in nuce il concetto di sacrificio agli dei, e hanno lo scopo di ingraziarsi il loro favore, poiché, per gli uomini primitivi, esse rappresentano il desiderio e l’auspicio di uccidere le proprie prede, sacrificandole, ancor prima di cibarsene, a un nascente bisogno di divinità, che, nel tempo, è poi divenuta una costante da cui l’umanità intera non ha saputo prescindere, fino ai nostri giorni. Sotto l’aspetto comunicativo, i graffiti hanno una doppia valenza: da un canto mettono in contatto gli uomini con le ipotetiche divinità propiziatorie; dall’altro, all’insaputa degli stessi autori, mettono in contatto quei vissuti remoti con le future civiltà. È grazie a quelle 'opere', infatti, che, dopo decine di migliaia di anni, possiamo non soltanto ammirarne la bellezza, ma anche comprendere qualcosa di come eravamo. L’archeologia stessa, com’è noto, si fonda sui ritrovamenti, artistici e non, dei manufatti dell’uomo nel percorso della sua evoluzione, che ci permettono di comprenderne l’evoluzione. Di come fossero organizzate le società preistoriche possiamo sapere ben poco. Possiamo saperne certamente di più sulle civiltà storiche, su alcune delle quali cercherò di sorvolare a volo d’uccello, per avere una panoramica, seppure frammentaria, sul tema di cui stiamo trattando. Nelle civiltà storiche uno degli aspetti determinanti è il potere, cioè l’abilità dei più forti di ergersi a capi, a re e spesso a dei. Si strutturano le corti, i comandi supremi; si strutturano le religioni; due poteri distinti e paralleli, ma spesso coincidenti in uno, nella stessa persona (vedremo, più avanti, il faraone). Quel bisogno di 'spiritualità', di 'divinità', espresso dai 'graffiti' della preistoria, nelle civiltà storiche diviene prerogativa esclusiva delle religioni istituite, che monopolizzano il concetto di sacralità. L’uomo, il singolo individuo, viene così espropriato della propria libertà individuale e sacrale. L’artista, in quanto tale, a mio parere non ha perso quella libertà, non l’avrebbe potuta mai perdere per la sua stessa natura di artista, ma, inevitabilmente, ha dovuto mettersi al servizio dei poteri sia temporali che religiosi, perché il loro primo interesse è promulgare in vasta scala il loro stesso potere, istituzionalizzandolo e dandogli una parvenza di sacralità intoccabile. Così è stato in tutte le epoche storiche e continua ad esserlo nella nostra. Architettura, scultura e pittura, le tre grandi arti che accomunano tutte le civiltà della terra, seppure con le dovute differenze, hanno rappresentato sempre il concetto di testimonianza e di comunicazione delle e per le civiltà stesse, in relazione al loro grado di evoluzione. In base a questo assunto, si dà per scontato, da qui in avanti, che tutto ciò che dirò è strettamente connesso col tema di arte e comunicazione, che è il tema della nostra discussione. 2 - La civiltà egizia Ponevo l’accento, prima, sull’importanza dei due poteri forti, quello temporale e quello spirituale, che nelle civiltà antiche, come quella egizia ad esempio, erano impersonati da un solo uomo, il faraone. Questi, per manifestare il proprio potere assoluto, erigeva templi titanici affinché gli uomini, la maggior parte dei quali tenuti schiavi, si sentissero talmente sopraffatti da non osare farsi sfiorare dall’idea di libertà individuale. Anche le loro sepolture, le piramidi, erano erette in scala titanica e i loro interni erano sontuosamente decorati per la vita 'eterna' nell’aldilà in cui credevano. Per quello che sappiamo, gli artisti, o comunque tutti coloro che contribuivano alla realizzazione dei segreti cunicoli delle piramidi, venivano murati vivi nelle stesse piramidi, affinché quei segreti non fossero mai svelati a nessuno. Potremmo dire, in questo caso, che l’arte si presta al servizio non solo della comunicazione, ma anche dell’eterno silenzio. Silenzi che hanno avuto breve durata, se si considera che la maggior parte delle sepolture sono state profanate nel tempo da ignoti ladri, con la restituzione alla luce e agli uomini di quelle magnifiche pitture, che tornano a comunicarci il grado di follia che possono raggiungere gli uomini e le loro religioni. 3 - La civiltà greca Le cose cambiano radicalmente se parliamo della civiltà greca, dalla quale orgogliosamente deriviamo, dove si è tentata la prima forma di democrazia. Una forma che si estende anche al divino, all’Olimpo, in cui risiedono gli dei, molti dei. Dei, semidei ed eroi direttamente derivanti dagli uomini, che li creano a loro immagine e somiglianza. Le vicende mitologiche degli dei nascono dal basso e fanno parte intrinseca delle vicende umane, in continua evoluzione e rielaborazione. Rappresentano, in buona sostanza, una sorta di inconscio collettivo dell’umanità intera, di cui la stessa è artefice, con più o meno consapevolezza. Questo concetto lo considero un punto nevralgico importante per il mio discorso, poiché è su di esso che si impernierà, verso la fine, la mia riflessione sull’arte e sul mio modo di fare scultura. Gli artisti greci si pongono anch’essi al servizio del potere, ma per rappresentare un’idealità derivante sempre dal 'meglio' di tutte le cose, affinché le stesse siano un riferimento etico e di bellezza da cui non poter prescindere. Etica e bellezza, che accrescono l’evoluzione verso il bene dell’umanità stessa che ne è artefice. Princìpi riscoperti e valorizzati, un millennio dopo, dai grandi uomini del Rinascimento italiano, che alla classicità greca e romana s’ispirarono. Anche gli astronomi, i matematici, i pensatori in genere, in una parola: i filosofi, sono da considerare artisti, poiché, speculando sulle cose del mondo, colgono, con l’intuito e il ragionamento, i segreti della natura e dell’universo, rientrando anch’essi nella categoria dei comunicatori, anzi, dei comunicatori per eccellenza. 4 - La civiltà romana I romani, che com’è risaputo ereditarono la cultura artistica greca, rielaborandola in direzione più finalistica, furono pragmatici, meno idealizzanti; tendenti al pratico, al benessere materiale. L’arte fu sfruttata al massimo in tal senso. Oltre ai templi agli dei, s’innalzarono teatri, terme, stadi, acquedotti, archi di trionfo in onore dei cesari, a coronamento delle imprese militari per le loro conquiste geografiche. Non più l’idealità, ma la praticità, la 'propaganda' per la grandezza dell’impero. La grande statuaria greca, dedicata alle figure ideali di dei e semidei, veniva letteralmente riciclata e copiata, dai romani, per abbellire le loro ville e i loro palazzi. Sui piedistalli della storia non si ponevano dei e semidei ma cesari, condottieri, colonne istoriate, mezzibusti di senatori e personalità importanti del potere politico. La mitologia greca stessa, anch’essa riciclata e riadattata dalla romanità, veniva assunta come propria. Le colonne istoriate (Traiana, Antonina etc.) sono state il massimo esempio di comunicazione; dei veri e propri cartelloni pubblicitari ante litteram, anzi, delle vere e proprie immagini in sequenza filmica, scolpite nel candido marmo carrarese di Luni. Qualunque cittadino del mondo si recasse a Roma poteva assistere alle imprese militari di Traiano, di Antonino Pio, di Marco Aurelio. Gli scultori, autori di queste opere furono eccellenti, se non altro dal punto di vista tecnico e rappresentativo, e risuonarono armonicamente con le esigenze propagandistiche e 'pubblicitarie' del potere. Difficilmente, in ogni caso, si possono citare esempi di originalità scultoria dell’arte romana, senza dover fare riferimento alla scultura greca. I romani raggiunsero, invece, una particolare originalità nei ritratti, di cui si hanno moltissimi esempi nei quali traspare incisivamente il carattere individuale dei personaggi raffigurati, sia a livello plastico che a livello pittorico. Così come in architettura, grazie all’invenzione dell’arco, della volta e delle pareti curve, crearono eccellenti teatri, edifici termali e tante altre grandi strutture di pubblica utilità; per non parlare delle strade e degli acquedotti. Tutti elementi che dimostrano la grande capacità dei romani nell’organizzazione pianificata dello stato e della città. Ne è eccellente testimonianza il De Architectura di Vitruvio, in cui, fra le tante altre preziose informazioni, si apprende per filo e per segno come e dove deve essere costruita una città. Con la nascita del Cristianesimo, anche a causa della persecuzione subita da parte dei romani, i suoi adepti sono costretti a rifugiarsi nelle catacombe, e per comunicare fra loro, senza essere scoperti dai persecutori, usano l’arte dei segni, che diventa come una sorta di codice segreto da decifrare all’insaputa dei persecutori stessi. Da lì in avanti, l’intero codice iconografico del cristianesimo abbonderà di simboli. 5 - Il Medioevo Con la fine dell’impero romano d’occidente, in genere, si fa coincidere l’inizio del lungo e 'buio' Medioevo, in cui, in massima parte, l’arte viene assorbita dalla religione cristiana, ormai affrancata delle persecuzioni e destinata a dominare, per millenni, la scena del mondo occidentale. La dinamica mitologia greca, poi ereditata e reinterpretata dai romani, viene adesso dispregiativamente definita paganesimo, e prende definitivamente il sopravvento il dogmatismo monoteistico cristiano. Sotto questo aspetto ritengo che la definizione del medioevo come periodo buio della nostra storia sia più che giustificata, poiché l’uomo viene deprivato della sua libertà individuale; colpevolizzato della sua stessa esistenza 'peccaminosa', che dovrà rendere conto a Dio, unico e solo giudice supremo di chi merita il paradiso o le fiamme dell’inferno dopo la morte. I grandi filosofi greci vengono posti nel dimenticatoio; i loro preziosi scritti sul senso della vita, sull’astronomia, sulla ricerca a vasto raggio su tutto lo scibile umano, vengono bruciati (la distruzione della mitica biblioteca di Alessandria ne è l’esempio eclatante, poco importa se causata dai cristiani o dai musulmani, in ogni caso entrambi regimi monoteisti che avevano e hanno in spregio il pensiero libero). Adesso la religione cristiana è tutta dedita alla costruzione delle grandi cattedrali, le quali esaltano l’altissimo livello di spiritualità ascetica da un lato; mentre dall’altro lanciano severi moniti agli infedeli, per tramite dei minacciosi e variformi demoni appollaiati sulle alte grondaie. La natura non si discute; Dio solo sa; la terra è piatta e tale deve rimanere; per quel poco che importa, poiché l’esistenza sulla terra non ha alcuna valenza rispetto alla promessa del paradiso. Religione, oppio dei popoli, ebbe a scrivere qualcuno alcuni secoli dopo. 6 - La civiltà del Rinascimento Dopo secoli di asserragliamento nei castelli, disseminati in tutte le alture d’Europa, che vedevano signorotti e vescovi l’un contro l’altro armati, cominciano a nascere prima i borghi e poi le città; una sorta di velata primavera, dopo secoli di buio freddo. Poi le città s’ingrandiscono e l’umanità riprende a circolare, a incontrarsi, a scambiarsi le idee. Le poche reminiscenze letterarie dell’antica civiltà greco-romana, salvatesi dai divieti delle religioni, si scongelavano dal gelo medievale; la primavera dell’umanità esplodeva in tutto il suo splendore; nasceva l’Umanesimo, nasceva il Rinascimento; due termini e due concetti destinati a rimanere esemplari nella storia del mondo occidentale, così come erano stati esemplari la civiltà greca e la civiltà romana, dalla costola delle quali l’umanesimo prendeva linfa vitale. Gli artisti, pur rimanendo al servizio del potere, si costituivano come corporazioni e poi come singole personalità, capaci di interpretare a modo proprio le direttive dei committenti, determinando una pluralità di visioni che solo il mondo antico era riuscito a dare. Adesso i papi, i re, i signori delle città-stat si confrontavano con i letterati e con gli artisti per pubblicizzare il loro potere. L’artista egizio costruiva le piramidi a suon di frustate; l’artista medievale non era frustato (non lo sappiamo) ma offriva il suo sudore per espiare il peccato di esistere e di pensare. Con la nascita dell’umanesimo, invece, l’artista recrimina e ottiene la sua autonomia di pensiero e di azione; Ghiberti, Donatello, Brunelleschi, Masaccio, Piero della Francesca, non sono più semplici esecutori ma esprimono a tutto campo un nuovo pensiero filosofico; inventori ed esecutori di una nuova visione delle cose, più vicina alla realtà, all’uomo. Lo spazio acquista profondità, diventa tridimensionale: nasce la prospettiva, che rivoluzionerà la visione del mondo; del vecchio e del nuovo mondo, nel frattempo scoperto dai grandi navigatori che osavano varcare le invalicabili colonne d’Ercole. Adesso gli artisti comunicavano grandi cicli di pensiero; Michelangelo metteva in scena il suo Giudizio Universale, la massima opera d’arte di tutti i tempi, ergendosi quasi egli stesso (se lo poteva permettere) a Dio fatto uomo; un vorticare, un terremoto di forme, che facevano tremare i polsi agli stessi committenti; quei committenti, papi e cardinali, che osava mandare a quel paese se solo lo facevano infuriare. Ed egli era facile al furore, tormentato com’era dal dissidio tra la forza rude della materia e la leggerezza dello spirito, che è in tutte le cose e che il potere, temporale e spirituale, non era più in grado di vedere, a causa della grande corruzione morale a cui era pervenuto. È il caso di citare, per similitudine e facendo un salto in avanti di tre secoli, un altro titano, stavolta della musica, Beethoven, che buttava all’aria la sinfonia appositamente scritta per Napoleone Bonaparte, deluso perché questi, da rivoluzionario che era, si era appena incoronato imperatore. Già da secoli, il pensiero originario di Cristo era stato tradito da quella 'spelonca di ladri', come egli stesso li aveva apostrofati, che reggeva da più di un millennio sia la cristianità che il potere temporale. Poi la Chiesa assoldò il povero Andrea Da Volterra, che ebbe la cattiva sorte di imbrachettare le 'scandalose' nudità del 'Divino' suo maestro. Cosa ben diversa dalle 'pudiche' nudità delle segrete concubine di taluni papi di quel tempo. La controriforma rimise a posto le cose e la Chiesa riprese le fila della storia, dominandole, con alti e bassi, fino ai giorni nostri. Del futuro, non possiamo sapere. 7 - La satira politica a partire dal XIX secolo Già Francisco Goya, tra la fine del ‘700 e i primissimi dell’800 aveva iniziato, drammaticamente e a passo felpato, a mettere in ridicolo il potere; una dimostrazione per tutte: la famiglia di Carlo IV, re di Spagna; un’opera del 1801, che esalta la goffaggine di una monarchia imbalsamata, ormai fuori tempo, anche alla luce della già inoltrata rivoluzione francese, destinata a cambiare il percorso della storia d’Europa. L’800, soprattutto francese, è il secolo dell’affrancamento degli artisti dalla condizione di subordinazione al potere, che si chiude, e inizia, col neoclassicismo. Un esempio eclatante è la figura di Louis David, che mette in cronaca l’intero periodo della rivoluzione francese, dallo scoppio nel 1789 fino alla restaurazione del 1815, con opere emblematiche quali: Il giuramento della pallacorda, la morte di Marat e l’incoronazione di Napoleone Bonaparte. Dopo la rivoluzione francese, l’artista diviene un 'intellettuale' a tutto campo e inizia a mettersi non più dalla parte del potere ma del popolo. Un esponente di spicco di questa nuova figura di artista è Honoré Daumier, che instaura ufficialmente la satira politica sbeffeggiando la restaurata monarchia del 1815. Ciò lo fa in larga scala, realizzando un’infinità di disegni satirici per diversi giornali. Fu un accanito rivoluzionario, nel pensiero e nei fatti, e la messa in ridicolo del monarca gli costò anche alcuni mesi di carcere. Nell’800 nascono e si sviluppano anche il Romanticismo, il realismo, il verismo, l’impressionismo, tutti movimenti che stimolano l’artista a guardare dentro di sé, ma anche a cogliere la realtà sociale e fisica che lo circonda. L’arte esce allo scoperto, alla luce del sole e dei fatti, che essa registra, in vari modi, per mediarne la conoscenza e la comprensione al mondo. 8 - L’arte nei regimi totalitari Il ‘900, il cosiddetto secolo breve, si è distinto per le grandi dittature totalitarie: nazismo, fascismi di vario genere, comunismo, regimi militari dell’America del sud, dell’Africa e di ogni parte del mondo. In questi stati l’arte non è stata e non è al servizio ma succube del potere, poiché le dittature hanno, più di qualsiasi altro tipo di potere, l’esigenza di esaltare il 'capo' e propagandare la menzogna. Pertanto, gli artisti hanno due sole possibilità: espatriare, ove ci riescano senza essere eliminati, o adeguarsi, divenendo semplici esecutori di immagini retoriche e menzognere, che equivale al massimo grado di mortificazione dell’artista e del concetto stesso dell’arte. 9 - Il Muralismo messicano, il graffitismo e la 'liberalizzazione dell’arte' Il tempo tiranno ci costringe a saltare di palo in frasca, per farci approdare sull’altra metà dell’emisfero, nella complessa e travagliata rivoluzione messicana, scoppiata in quella parte del mondo nel 1910 e protrattasi per alcuni decenni, dove nasce e si sviluppa il muralismo, cioè la pittura su grandi pareti, anche esterne, degli edifici, con l’obiettivo di rendere alla portata di tutti il messaggio politico e ideologico della rivoluzione stessa. Esponenti principali del muralismo furono Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, nelle cui opere, mescolate con le scene di riferimento alla rivoluzione, abbondano le raffigurazioni degli ideologi, dei politici e dei rivoluzionari in quel momento sulla scena del mondo. Quelli che da secoli, in Europa, erano stati i grandi cicli di affreschi realizzati nelle chiese e nei palazzi del potere, adesso venivano dipinti all’esterno e negli interni delle sedi del popolo, per cui il messaggio dell’artista alla gente diventava diretto, senza filtri di alcun genere. L’artista mette in gioco se stesso e si confronta direttamente con le masse. Da qui al graffitismo degli anni ’70, che dilaga praticamente in tutto il mondo, soprattutto nelle periferie delle grandi metropoli, e che è ancora in atto, il passo è breve. In questo modo nasce una nuova visione dell’arte e dell’artista; non necessita più che l’artista sia titolato come tale; chiunque può essere artista; i giovani arrabbiati delle degradate periferie urbane possono esprimere la loro rabbia scarabocchiando scritte e segni di tutti i generi in qualsiasi superficie di supporto che trovano sulla propria strada, compresi i mezzi pubblici. Il fenomeno dilaga, coinvolgendo anche i monumenti storici, cosa che mette in allarme le amministrazioni, che, per ovviare al problema, mettono a disposizione spazi e aree apposite allo scopo di permettere libero sfogo ai graffitisti. Fra questi, alcuni diventano famosi e sbarcano nelle gallerie ufficiali, raggiungendo quotazioni stratosferiche. Uno fra tanti, Jean-Michel Basquiat, morto giovanissimo, una cui opera può essere venduta a venti milioni di euro!… La follia del sistema capitalistico, che ha perso la misura di tutto, non solo nel caso dell’opera di Basquiat o di altri artisti contemporanei ma dell’intero sistema economico. 10 - L’arte in tempi di guerra e di terrorismo L’arte può diventare comunicazione, fare notizia, anche attraverso la sua stessa distruzione. Ne sono testimonianza l’abbattimento delle due statue colossali di Budda, avvenuto in Afghanistan, il 12 marzo del 2001, sotto gli occhi del mondo intero, ad opera del fanatismo religioso dei talebani. La barbarie dei fanatismi religiosi è tale che non risparmia nemmeno la propria stessa cultura. Questo mi induce a pensare che i credo religiosi possano essere, loro malgrado, la causa scatenante di fanatismi e terrore, come dimostrano i sanguinosi eventi di questo nuovo millennio. Sono del nostro tempo anche le immagini dell’abbattimento di statue celebrative, a causa della caduta di dittature quali quella sovietica, quella irachena o di altri stati totalitari. 11 - La civiltà contemporanea Mi scuserete, ma durante la lettura di queste ultime tre pagine vedrete scorrere sullo schermo le immagini relative ad alcune mie opere, affinché possiate metterle in relazione col mio pensiero sulle stesse e sul mondo. Non avranno alcuna attinenza col testo, come ho tentato di fare con le precedenti, sperando di esserci riuscito e di non avervi distratto. Come già accennato in precedenza, nel XIX secolo l’arte inizia, in parte, ad affrancarsi dai poteri costituiti. Ma questo, paradossalmente, ha portato, nel tempo, a una sorta di crisi dell’arte stessa, poiché gli artisti, sempre più privati di una committenza, seppure più liberi di esprimersi senza condizionamenti, si sono sentiti come spaesati, privi di utilità, isolandosi nei loro studi. Detta crisi è diventata, però, la grande opportunità per ritornare ad esprimere a pieno quella libertà sacrale primigenia perduta con la nascita della storia. Non a caso verso la fine dell’800 diversi artisti hanno riscoperto l’'innocenza' perduta nelle maschere africane e nelle società mantenutesi ancora relativamente 'primitive'. Si è affermato così il concetto dell’'arte per l’arte', cioè dell’artista creativo in assoluto, libero di usare il proprio linguaggio senza condizionamenti di alcuna natura. Ma nell’800 nasce anche la cosiddetta società di massa, in cui i 'bisogni' si uniformano per tutti gli individui. Nel nostro tempo i prodotti di 'necessità' devono essere pubblicizzati e la pubblicità va comunicata attraverso l’immagine, dunque attraverso l’arte; mai, come nell’epoca della società di massa, la connessione fra arte e comunicazione, tema portante di questo incontro, è stata così stretta. Nella società contemporanea l’immagine è iper inflazionata e artefatta alla massima potenza, poiché le cose non devono apparire come sono, ma come le esigenze mediatiche e pubblicitarie vogliono che appaiano. L’arte contemporanea, a mio modesto parere, risente della stessa problematica, talmente da risultare spesso incomprensibile ai più, proprio perché frutto non della diretta manifestazione interiore dell’artista, ma perché frutto di elaborazioni mentali finalizzate a conquistare il mercato e il successo, magari con la 'trovata' originale mai sperimentata prima. In questo nostro tempo non c’è più posto per la riflessione: il tempo è denaro, e bisogna stargli dietro, sfruttarlo al massimo per cose concrete, ottenere quantità, non qualità; la qualità ha un costo, di tempo e di denaro, dunque è sconveniente. L’artista non segue più la desueta ispirazione, ma progetta: progetta l’opera, progetta la mostra, in modo freddo e calcolato, insegue il successo. L’artista non è, non si forma nel tempo, non lo si scopre: lo si costruisce a tavolino, secondo le mode e le esigenze del mercato; come le insulse canzonette di Sanremo, che devono essere bruciate in una stagione, per poi essere rimpiazzate da altre canzonette. L’opera non deve più essere oggetto di contemplazione, espressione di interiorità, di conoscenza e di bellezza; spesso perde la sua stessa connotazione di forma nello spazio, di manufatto, assurgendo a puro concetto mentale, di esclusiva comprensione da parte dei soli addetti ai lavori. L’essenza della società contemporanea penso che l’abbia colta magistralmente bene Zygmunt Bauman, definendola 'modernità liquida' dei consumatori. I suoi libri sono folgoranti per chiunque abbia un minimo di coscienza critica, e hanno di che sbraitare gli 'apocalittici', come il sottoscritto, a fronte della stragrande maggioranza di 'integrati' che il capitalismo e il consumismo hanno saputo creare, affinché tutti i valori, di futuro, di progetto di vita, fossero liquefatti, per star dietro ai falsi bisogni del tutto e subito, di cui tutti siamo vittime, apocalittici compresi, nostro malgrado. Epilogo Ma il nostro tema portante era l’arte e la comunicazione, pertanto c’è da chiedersi: cosa, quanto e come l’arte comunica nel nostro tempo? A questa domanda penso che ciascuno possa rispondere secondo la propria sensibilità, il proprio gusto e la propria cultura a riguardo. Per quanto mi riguarda, se mi metto dalla parte del fruitore, credo di aver già espresso il mio pensiero. Se mi metto dalla parte dell’artista, posso solo cercare di esprimere a parole ciò che non so fare con le parole stesse ma con le forme scultorie, che sono il mio linguaggio preferito. Ma Bauman dice pure la sua sugli artisti e sull’arte, chiarendo che, così come per il resto della società, anche per l’arte è svanita ogni forma di concretezza, per cui anch’essa tende ad esprimere la caducità dell’attimo, con azioni performative che non devono lasciare alcuna traccia di sé, se non l’attimo fuggitivo in cui le stesse si svolgono. Il mio modo di concepire la scultura è sempre ancorato all’idea della materia pura, che va plasmata con le mani e che deve durare il più a lungo possibile nel tempo, perciò, secondo l’analisi di Bauman, mi posso considerare un artista alieno dal contesto del proprio tempo. Infatti è così che mi sento, ma questo mi porta, a maggior ragione, a concepire la scultura come se dovesse durare per l’eternità. Credo ancora nell’ispirazione, senza la quale non ci può essere progetto che abbia un senso e una durata nel tempo. Ma questo accentua la mia solitudine, nella grande babele dell’iper comunicazione mediatica, che non lascia spazio alla riflessione. Se è vero, com’è vero, che l’arte è comunicazione, sarà anche vero che quest’ultima si manifesta per mano dell’artista; il quale, diversamente dalle altre persone, dovrebbe essere dotato di quel quid che lo rende capace di esprimere sensazioni di incodificabile provenienza, ma che possono risuonare negli altri come emozioni profonde di un passato ancestrale che tutti ci accomuna. Non saprei dire se questo sia merito dell’artista o di qualcosa d’imponderabile di cui l’artista stesso sia semplicemente il mezzo, il tramite. Non a caso ho questo dubbio, poiché, nel mio operare sulla materia, ho avuto più volte la sensazione di realizzare l’opera in modo, per così dire, automatico, cioè senza la piena consapevolezza di come l’opera stessa si sia configurata. Per quanto riguarda i visi, ad esempio, mi capita spesso di vedermeli nascere con delle precise sembianze ed espressioni proprie, che sfuggono alla mia consapevolezza di averle modellate con intenzione, come se una qualche entità metafisica avesse guidato le mie mani inconsapevoli; penso di poterlo affermare senza alcuna ombra di retorica. Perciò capisco bene cosa vogliono dire le fruitrici e i fruitori e delle mie opere, quando osservano che talune di esse sembrano avere un’anima, un’identità, e non perché risultino più o meno realistiche, ma, al contrario, perché vibrano, risuonano con le loro corde, anche sotto forma di volumi astratti. Quando modello o scolpisco, m’identifico, mi sento tutt’uno con la materia stessa che sto plasmando, e questo accentua la sensazione di sentirmi agito dall’esterno. I miei soggetti sono spesso ispirati a temi mitologici e credo che non potrebbe essere altrimenti, poiché sappiamo bene che i miti non sono altro che quei vissuti ancestrali dell’umanità che sedimentano in una sorta di memoria collettiva che, di tanto in tanto, affiora alla coscienza dell’uomo. Forse non in tutti questa memoria riesce ad emergere e allora ecco che l’artista, quel genere di artista in cui m’identifico, con gli occhi rivolti al ricordo ancestrale, diventa il tramite perché tutti possano vedere dentro di sé. Qualcosa di simile all’analista, che, pur non essendo considerato artista, svolge la stessa funzione, riportando il paziente alla consapevolezza di sé e dei propri vissuti. L’analista lo fa con le parole e con l’empatia, consapevolmente; l’artista lo fa con l’intuito e con le immagini, spesso inconsapevolmente. Questo m’induce a pensare, forse presuntuosamente, che l’artista, abituato com’è alla riflessione e all’interiorizzazione, possa anche sapersi osservare dall’esterno, riconoscendo pregi e difetti del proprio essere, confrontandosi e armonizzandosi con essi. Ed è forse questo il grande fascino e il vero mistero dell’arte, in cui ciascuno può rispecchiare e ritrovare se stesso. Concludo affermando paradossalmente, se volete, che a mio avviso oggi necessiterebbe un po’ più di silenzio, anche di silenzio interiore, visto l’assordante baccano della Babele mediatica, che ci distrae e ci allontana sempre più dalla riflessione e dall’introspezione. Salvatore Rizzuti
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