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Analisi di un poeta: Giacomo Leopardi

Tanta cultura e passione nella relazione di Antonino Tobia, tenuta davanti ad un folto ed attento pubblico

Relatore: Prof. Antonino Tobia

Giacomo Leopardi, l’analisi di un poeta
Da una lettera di Vincenzo Gioberti a Giacomo Leopardi del 4 ottobre 1831 apprendiamo il seguente giudizio critico dell’autore del Primato civile e morale degli Italiani (1842-43) : …l’ultima edizione dei vostri Canti … è cercata qui (a Torino da dove la lettera venne spedita), e letta con furore dai giovani , e da tutti quelli che sono atti a pensare e a sentire; e tutti dopo la lettura convengono meco, dicendo che questi sono i più bei versi lirici che si siano scritti in Italia dopo quelli del Petrarca; ai quali sono da pareggiarsi per l’eccellenza dello stile e della poesia, e da anteporsi per la pellegrina e profonda verità, per la forza e per l’importanza dei sentimenti …'.

Immagine riferita a: Analisi di un poeta: Giacomo LeopardiLa sala durante la relazione
Il filosofo torinese riconosceva nel giovane recanatese l’eccellenza dello stile, educato alla scuola petrarchesca, ma sottolineava l’aspetto peculiare dei canti leopardiani: la traslitterazione lirica della 'storia di un’anima'. La vita di Giacomo Leopardi è una storia tutta interiore che si svolse nell’arco di trentanove anni, dal 29 giugno 1798 al 14 giugno 1837. Il giorno successivo alla nascita il neonato viene battezzato nella parrocchia di santa Maria in Montemorello di Recanati, che si affaccia sulla piazzuola oggi denominata Sabato del villaggio. Nell’atto di battesimo si legge:  Giacomo Taldegardo Francesco Salesio Saverio Pietro nato ieri alle ore 19 dal cittadino Monaldo figlio del fu Giacomo Leopardi e da Adelaide Antici figlia del cittadino Filippo fu Giuseppe Antici legittimi coniugi di questa città e parrocchia, fu battezzato dal Rev.do padre Luigi Leopardi dell’oratorio di San Filippo con licenza del parroco. Padrini furono: il cittadino Filippo Antici e Viginia Mosca. L’atto di morte si trova nel Libro dei defunti della Parrocchia della SS. Annunziata a Fonseca a Napoli, dove si legge: A 15 Giugno D. Giacomo Leopardi Conte, figlio di D. Monaldo Leopardi e di Adelaide Antici, di anni 38, munito dei SS. Sag.ti morto a 14 d° . Sepolto idem, Vico Pero n. 2.  I due certificati nel loro linguaggio sono l’espressione di due momenti storici diversi. Giacomo nasceva quando Napoleone stava per diventare l’arbitro della politica europea e diffondeva per l’Europa il linguaggio rivoluzionario della libertà e dell’anticlericalismo. Da qui l’apposizione di ‘cittadino’ che accompagna i cognomi dei nobili familiari di casa Leopardi e dei marchesi Antici. Anche da Recanati, dove la vita scorreva tranquilla e pigra, era passato Napoleone, odiato da Monaldo, che s’era rifiutato di correre a vedere il corteo che accompagnava il generale corso. Appena sei mesi dopo la nascita di Giacomo, le truppe francesi entravano a Napoli (23 gennaio 1799) e dai giacobini napoletani veniva proclamata la Repubblica partenopea. L’anno in cui il poeta moriva Napoli era la capitale del Regno delle due Sicilie dal 1816, regnante Ferdinando II di Borbone, che represse con durezza ogni tentativo liberale con il ritorno ai privilegi della casta nobiliare ed ecclesiastica. Quando Giacomo nacque suo padre non aveva compito ancora ventidue anni. Era un giovane aristocratico all’antica, ostile a ogni innovazione che turbasse il suo quieto vivere, sanfedista e reazionario, antigalileiano, incapace di amministrare il suo patrimonio familiare, vanesio, frivolo, amava fare bella figura in società , sperperando le sue limitate entrate per condurre una vita degna del nome del suo casato, che era il più nobile di Recanati. Nella sua Autobiografia Monaldo si definiva un uomo d’ingegno robusto ed era convinto che la sua  'mente fosse superiore a molte, non già in elevazione ma in quadratura'. Ma la sua mente non era affatto 'quadra', semmai eccentrica e bizzarra. Nel 1803, infatti, a seguito di un dissesto finanziario, l’amministrazione domestica passò nelle mani della moglie, dopo una fallimentare speculazione sul prezzo del grano. Per salvare la famiglia, costretta a pagare 6000 scudi d’interesse l’anno, tanto quanto rendevano le sue tenute, intervenne il papa Pio VII. Il governo della casa passò quindi ad Adelaide, il marito fu interdetto al punto da dichiarare: 'io a casa mia non sono padrone che delle frittate'. Tuttavia, il decoro familiare fu sfarzosamente mantenuto: laute cene per quaranta persone, tanti domestici, quattro carrozze con i rispettivi cavalli. Monaldo, libero da ogni occupazione materiale, riscoprì la sua 'brama ardentissima' di occuparsi di libri. Tra il 1808 e il 1810 cominciò ad acquistare intere biblioteche di privati e di prelati e di conventi svendute a Roma e in tutto lo stato pontificio durante l’occupazione francese, quando Napoleone soppresse tante congregazioni. Nel 1812 la biblioteca conteneva oltre 12000 volumi, in cui prevalevano la cultura ecclesiastica, tanta erudizione e un’informazione polemica sulla cultura illuministica. Monaldo decise di aprirla al pubblico 'filiis amicis civibus'.
Adelaide riuscì a risollevare la famiglia dai disastri economici procurati dal marito. È ricordata come una donna bella, alta, dagli occhi azzurri, biondo-castana nei capelli, con un portamento austero e signorile. Tuttavia, sembra che lei volesse celare o offuscare la sua bellezza. Si aggirava per il palazzo infilando i calzoni in un paio di stivaloni da uomo, nascondeva i suoi bei capelli sotto un berretto da marinaio, portava un cravattone attorno al collo. Raramente usciva dal palazzo e affidava alla sorella Isabella i figli per una passeggiata pomeridiana nel corso. Tutto era sotto il suo severo controllo e di quella dimora lei era contemporaneamente carceriera e carcerata. Mentre si aggirava per i vari ambienti della casa, di tanto in tanto fissava con lo sguardo i suoi figli e questa, come disse Carlo, era 'l’unica sua carezza'. Adelaide non esternava i suoi sentimenti, neppure verso i suoi tre figli Giacomo, Carlo e Paolina, nati a distanza d’un anno l’uno dall’altro. Nella ricca e dotta biografia, che Pietro Citati ha redatto sulla vita di Leopardi, si legge che 'se i figli si ammalavano, era contenta: se Giacomo cresceva deforme, con una gobba davanti e una dietro, e soffriva di mal d’occhi, era contenta … e il giorno della morte dei figli era per lei un giorno lieto, mentre provava ‘un vero e sensibile dispetto’ se il marito piangeva e s’affliggeva. Che c’era da lamentarsi se i figli erano volati in Paradiso? … Quando erano piccoli li legava nelle seggioline e li rimboccava. Se il cucchiaino scottava loro le labbra e i bambini gridavano ‘Mamma scotta’, rispondeva sempre: ‘Offritelo a Gesù’. … Non li baciava in viso, non dava carezze: i figli potevano, al massimo, baciarle la mano, e qualche volta anche la mano era negata. 
Giacomo era il primo di 10 figli. Quelli che arrivarono all’età adulta furono, oltre Giacomo che morì all’età di 38 anni, Carlo, il più longevo che visse fino a 79 anni, Paolina, l’unica figlia femmina nata settimina a seguito della caduta della madre, che morì di pleurite a 69 anni, promessa sposa sempre e mai sposata e Pierfrancesco, più giovane di Giacomo di 15 anni, morto come il fratello a 38 anni d’età. Solo Carlo e Paolina sopravvissero alla madre che morì nel 1857, dieci anni dopo la morte del marito. Per la figlia fu una liberazione: si tolse il lutto e cominciò a viaggiare per l’Italia. Compose una pregevole biografia su Mozart, frutto della sua profonda sensibilità musicale.
Giacomo trascorse l’infanzia e l’adolescenza con i fratelli Carlo e Paolina, organizzando giochi i più diversi, da quelli ispirati al cerimoniale religioso, come si legge da una lettera di Monaldo ad Antonio Ranieri, ad altri ispirati alle battaglie eroiche, in cui Giacomo, come si ricava dai ricordi di Carlo, assumeva il ruolo di protagonista e dava sfogo ad una allegrezza senza limiti. Monaldo era divenuto il compagno dei giochi dei figli, occupando  nella sfera affettiva il ruolo materno, specialmente nei confronti di Giacomo. A tavola gli sedeva accanto per aiutarlo a tagliare le vivande, che Giacomo stracciava con la sola forchetta in malo modo e spesso impazientito finiva col rifiutarle.
È curioso notare come il piccolo Giacomo, pur non ricevendo le attenzioni affettuose che un figlio si aspetta dalla madre, fu pronto a difenderla contro le scappatelle del padre, che tanto facevano soffrire di gelosia Adelaide. In una lettera, scritta a stampatello all’età di dodici anni, nell’Epifania del 1810 alla marchesa Volumnia, se la prendeva con la destinataria, frequentata dal padre, che teneva un salotto culturale. Fingendosi la Befana, così si esprimeva: 'Carissima Signora, giacché mi trovo in viaggio, volevo fare una visita a Voi e a tutti li Signori Ragazzi della Vostra conversazione, ma la neve mi ha interrotto le tappe e non mi posso trattenere. Ho pensato dunque di fermarmi un momento per fare la piscia nel vostro portone…. Io volevo destinare a ognuno il suo regalo, per esempio a chi un corno a chi un altro, ma ho temuto di dimostrare parzialità, e che quello il quale avesse li corni curti invidiasse li corni lunghi. Ho pensato dunque di rimettere le cose alla ventura, e farete così. Dentro l’annessa cartina troverete tanti biglietti con altrettanti numeri. Mettete tutti questi biglietti dentro un orinal e mischiateli ben bene con le vostre mani. Poi ognuno pigli il suo biglietto…..  Frattanto state allegri, e andate tutti dove mi mando io; e restateci finché non torno. Ghiotti, indiscreti, somari, scrocconi dal primo fino all’ultimo, La Befana'
La vastissima biblioteca era l’unico universo nel quale era consentito accedere, er il centro della vita familiare e lì Giacomo, Carlo, Paolina e Monaldo entravano nelle prime ore della mattina insieme con il precettore don Sebastiano Sanchini.  Giacomo vestiva abitualmente da chierichetto e a dodici anni ricevette la tonsura e fino a vent’anni indossò l’abito talare. Era aspirazione della famiglia che Giacomo prendesse gli ordini religiosi e facesse carriera in seno alla Chiesa. Giacomo ricorderà con tristezza quella sua infanzia trascorsa come il passero solitario e da adulto rimprovererà al padre di avergli proibito di spiccare il volo da Recanati e di avere lasciato che egli si esiliasse, ancora adolescente, chiuso tra le pareti della biblioteca. Per Giacomo Recanati era una prigione, un deserto in cui non riusciva a parlare con nessuno, a confrontarsi e ad essere compreso. Questo suo stato d’animo sarà reso liricamente nella poesia Il passero solitario, che sebbene non compaia ancora nell’edizione fiorentina del 1831, tuttavia la tematica è focalizzata sulla infelicità del poeta adolescente, contrapposta alla vita gioiosa dei suoi coetanei e risente del clima  dei Piccoli Idilli, in particolare quello de La sera del dì di festa. Giacomo era ancora un fanciullo quando cominciò a studiare le opere dei filosofi del Sei e del Settecento, da Hobbes a Rousseau, da Spinoza a Voltaire. Il suo atteggiamento, sulla scia dell’educazione paterna, era schierato con i polemisti cattolici. Da solo intraprese lo studio del greco ed ottenne dalla Curia romana il permesso di potere accedere ai libri proibiti. A quindici anni scrisse la Storia dell’astronomia, in cui il giovane Leopardi cominciava a guardare con occhi diversi l’evoluzione della scienza, ammirando soprattutto Copernico, Galileo, Cartesio e allontanandosi dalla concezione aristotelico-tolemaica difesa dall’ambiente cattolico. Più interessante per seguire il processo di maturazione intellettuale e poetico del leopardi è sicuramente il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi del 1815. In esso Giacomo assimilava gli antichi ai fanciulli e cercava l’origine dei loro errori nel timore dell’uomo primitivo di fronte alla natura, mentre condannava le superstizioni diffuse tra la gente progredita. L’adolescente erudito, a contatto con i poeti idillici ed elegiaci, sentiva, intanto, nascere il bisogno di andare oltre la filologia, passare dall’erudizione al bello e aprirsi a quella che egli stesso definì 'conversione letteraria', sebbene continuasse il suo lavoro di traduzione dal latino e dal greco. Tra il 1815 e il 1816, comunque, continuava l’opera di traduttore: gli idilli del Mosco, il primo libro dell’Odissea, il secondo dell’Eneide, la pseudomerica Batracomiomachia, che riprenderà anni dopo, inserendo un nuovo spirito polemico nella guerra tra le rane e i topi, che si presenta come un libero travestimento satirico dei moti liberali falliti nel 1820-21 e nel 1831: i topi (liberali) sconfiggono le rane (i reazionari), ma sono sopraffatti dai granchi (gli Austriaci), che odiano qualsiasi spinta verso la libertà. Nel 1815 Leopardi era ancora vicino alle idee reazionarie del padre, condannava Napoleone come tiranno dei popoli, sulla scia ortisiana, accusava la Francia di essere la nemica dell’universo, mentre esaltava gli Austriaci e la loro politica di restaurazione.
Il 1816 è l’anno della polemica fra Classicisti e Romantici, esplosa a seguito della pubblicazione sulla Biblioteca italiana di un articolo di madame de Stael De l’esprit de traductions , in cui la scrittrice ginevrina, ispiratrice del movimento romantico, invitava i letterati italiani a prendere le distanze dal classicismo e dalla mitologia e a rinnovarsi studiando gli autori moderni stranieri. Giacomo intervenne nella polemica schierandosi con i classicisti, esaltando la 'poesia pura' e la superiorità della bellezza classica sul Romanticismo. Del movimento romantico rifiutava l’eccessivo ricorso al sentimentalismo come pure l’eccesso di realismo.
. Dal marchese Filippo Solari di Loreto, familiare di Casa Leopardi, apprendiamo che Giacomo, attorno ai 16 anni, era 'sano e diritto'  e quando lo rivide dopo il 1816 lo trovò ' consunto e scontorto', fino a diventare, come lo ebbe a descrivere il poeta tedesco August von Platen, 'qualcosa di assolutamente orribile'. Giacomo era diventato deforme, il suo corpo smise di crescere quando era ancora adolescente, la statura si fermò a 1 metro e 41 centimetri, nella parte anteriore e in quella posteriore del corpo si formarono due grosse gibbosità. Non si trattava di rachitismo, ma di qualcosa di più grave. La deformità era dovuta alla tubercolosi ossea o morbo di Plott, che riduce sempre di più la distanza delle vertebre fino a collassare. La malattia produce annebbiamento della vista, problemi neurologici, impotenza, dolori addominali, problemi cardiaci e respiratori, asma, emorragia al naso, reumatismi e quanto di peggio si possa immaginare. Leopardi si sentiva colpevole della sua malattia, che attribuiva ai 'sette anni di studio matto e disperatissimo' che avevano rovinato la complessione del suo organismo negli anni in cui questa doveva irrobustirsi. Il fratello Carlo in una lettera a Prospero Viviani, che raccolse e ordinò il 2° volume dell’epistolario di Giacomo Leopardi, scrisse all’amico che quando era adolescente con Giacomo dormiva nella stessa stanza e spesso a notte fonda gli capitava di vedere il fratello stare in ginocchio davanti al tavolino e scrivere finché il lume o la candela non si spegnesse. Non è difficile pensare che alla malattia si aggiungesse una grave depressione psicotica. All’amico Pietro Giordani nel 1817 scriveva: Qui a (Recanati) tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità … a tutto questo aggiunga un’ ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora' … Dio mi scampi poi dalle prelature che mi vorrebbero gettare sul muso … io voglio alzarmi e farmi grande ed eterno con l’ingegno e collo studio'.
Verso la metà del 1817 la malattia gli dava un po’ di tregua. Giacomo riprendeva i suoi studi filologici, leggeva l’Alfieri e il Foscolo e sentiva montare un’ansia crescente di fuggire da Recanati. Gli ideali di gloria, di amore, di libertà trovavano alimento nell’opera di Goethe e nell’Ortis. Werther e Jacopo suggerivano l’idea del suicidio. 
Intanto aveva preso l’abitudine di annotare le sue riflessioni in un diario, lo Zibaldone, che in 4526 pagine conterrà i suoi pensieri, le sue impressioni, progetti di opere fino al 1832.  
Nel 1819 Giacomo fu colpito da 'un’ostinatissima debolezza de’ nervi oculari' che gl’impediva, come scriveva al Giordani, di leggere, di pensare, di scrivere. La sua infelicità divenne ancora più tenebrosa e più volte pensò di porre fine alla sua miseranda resistenza. Nei momenti di tregua della malattia, che lo colpì per due anni, Giacomo cominciò ad organizzare la fuga da Recanati. Aveva compiuto 21 anni, era quindi maggiorenne e poteva chiedere il rilascio di un passaporto. Non ne parlò con nessuno dei familiari, di nascosto riuscì ad impadronirsi di una certa somma di denaro dallo 'stipo' del padre e il 29 luglio inviò la domanda per il rilascio di un passaporto per il Lombardo-Veneto alla Delegazione di Polizia di Macerata. Giacomo aveva scritto al delegato che suo padre era a conoscenza della richiesta e che lo ringraziava per quanto avrebbe fatto. Aveva, quindi, aggiunto alla lettera la somma per la relativa tassa del bollo e un suo breve autoritratto per i connotati: aveva compiuto 21 anni, statura piccola, capelli e sopracciglia neri, occhi cerulei, naso ordinario, bocca e mento regolari, carnagione pallida, nessun segno particolare. Da Macerata la pratica passò a Roma, dove venne completata, autorizzata da papa Pio VII e controfirmata dal marchese Filippo Solari, parente della famiglia Leopardi. Quindi il passaporto ritornò a Macerata, pronto per essere consegnato al richiedente. Per caso o a bella posta, il marchese Filippo Solari, che in quel periodo villeggiava a Recanati, scrisse allo zio di Giacomo, Carlo Antici, che aveva rilasciato il passaporto al nipote e che gli augurava buon viaggio. Lo zio Carlo si precipitò da Monaldo, il quale si ritenne profondamente offeso dal piano di fuga del figlio ed inviò le sue rimostranze alla Delegazione di Macerata. A questo punto, il passaporto fu inviato non a Giacomo ma al padre con mille scuse del delegato. Giacomo ancora una volta si sentiva prigioniero del padre e di Recanati. Non seppe, tuttavia, ribellarsi e cedette alla scena patetica di Monaldo, che dichiarava tutto il suo amore per il figlio. Giacomo nutrì in seno la sua disperazione che confidò al Giordani: si sentiva  legato al patibolo non con la violenza ma con le preghiere.
Il 1819 è l’anno della composizione dell’Infinito, che segna l’inizio della stagione più originale della sua poesia, il passaggio dal 'bello al vero', da una poesia d’immaginazione ad una nutrita di riflessione. Il poeta sogna la fuga al di là dell’ermo colle e della siepe che gli delimitano l’orizzonte. Agli ostacoli naturali risponde con il ricorso all’immaginazione, che gli consente di crearsi spazi interminati, avvolti in una quiete profondissima e di percorrere mentalmente il tempo infinito della storia umana. Tutto è indeterminato, senza confini e al di là dei limiti spazio-temporali. Il poeta è l’unico artefice di questo miracolo dell’ immaginazione, che unisce insieme estasi mistica e piacere sensoriale. Non c’è accenno ad alcun riferimento trascendente, né alcun richiamo al sovrannaturale. Il poeta è influenzato dalla concezione sensista dell’arte, diffusa dagli illuministi lombardi e lo stesso termine 'estasi' da lui usato nello Zibaldone va letto come sinonimo di  rapimento e di dolce naufragio dell’io cosciente che supera il non-io per realizzarsi.
Dal ’19 al ’21 nascono gli altri piccoli Idilli, Alla luna, La sera del dì di festa, Il Sogno, Lo spavento notturno, La vita solitaria. Si tratta di poesie originali, lontane dagli Idilli dei poeti greci a lui ben noti, quanto di liriche che, a detta del poeta, ritraevano'sentimenti, affezioni, avventure storiche' del suo animo: la realtà esterna diventava tutta soggettiva, trasferita in una dimensione vaga e indefinita, percorsa da una musicalità segreta e pudica.
Si può dire che il fallimento della fuga ha consentito ai posteri di apprezzare forse l’espressione poetica più alta del Leopardi, che trovava la sua gestazione in quel 'natio borgo selvaggio'. Il tentativo di fuga er un atto troppo disperato, perché in quel periodo Giacomo stava troppo male per lasciare la famiglia; le sue condizioni fisiche migliorarono qualche mese dopo, nella primavera del 1820. Riprese, infatti, a leggere e a scrivere numerose pagine dello Zibaldone, concluse la stagione delle Canzoni che aveva precedentemente iniziate: quelle civili All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Nelle nozze della sorella Paolina, Ad Angelo Mai. In esse il poeta affronta argomenti civili, ideali liberali con spunti polemici contro il suo secolo corrotto, debole, incapace di gesta eroiche, in tutto inferiore alle gloriose età antiche. È questa la fase del 'pessimismo storico', generato dalla scomparsa graduale del 'dolce immaginare'. Il prevalere della conoscenza razionale rivela l’'arido vero' dell’esistenza umana, che affoga nel nulla e nel tedio. Sempre a Recanati compose le cosiddette Canzoni del suicidio: Bruto minore e l’Ultimo canto di Saffo. La prima canzone fu composta nel dicembre del 1821, la seconda nel maggio del 1822. Il tema che li accomuna è il suicidio, sebbene il ricorso a tale estremo gesto è dettato da motivazioni diverse: Bruto si suicida, come già Catone a  Utica per affermare la propria libertà, dopo la sconfitta subita a Filippi nel 42 a. C. dagli eserciti di Ottaviano e Antonio. Saffo, animo sensibile in un corpo deforme, invano innamorata, sfida la Natura con una scelta tragica, avendo sperimentato che 'virtù non luce in disadorno ammanto'.
Il 17 novembre 1822 Giacomo poté finalmente lasciare Recanati per Roma. Per il fratello Carlo fu un dramma. Carlo e Giacomo avevano vissuto insieme gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza come se fossero stati un’anima sola. Eppure Carlo aveva un temperamento diverso. Era estroso, allegro, si vantava delle sue conquiste amorose. Ciò nonostante la partenza del fratello provocò nel suo animo una sofferenza indicibile: piangeva spesso, si disperava, immaginava di trovarlo accanto a sé nella loro camera. Il 3 maggio 1823 Giacomo tornò a Recanati e nel luglio di due anni dopo partirà alla volta di Bologna. Anche questa volta Carlo si sentì abbandonato e cominciò a odiare Recanati, desideroso di vivere accanto al fratello, per il quale nelle lettere mostrava una vera passione amorosa:' io ho aggiunto l’amore che ho tolto a me stesso … e quello che in altri tempi era capace d’ispirarmi una donna. Io non conosco più l’amor proprio, né amor passionato: tu sei il mio vero moi, e la mia innamorata'.  Qualche anno dopo Carlo s’innamorò della cugina Paolina Mazzagalli, figlia della sorella della madre. Il matrimonio fu avversato dai genitori sia per il rapporto di parentela sia per questioni di dote. Giacomo a un certo punto temette che il fratello per la disperazione potesse compiere un gesto inconsulto, ma non fu così. Il 20 marzo 1829 Carlo e Paolina si sposarono. Gli sposi per un periodo andarono a vivere ad Ancona, dove Carlo era stato nominato Direttore delle Poste. Rimasto vedovo, ritornò definitivamente a Recanati, dove sposò Teresa Teja, istitutrice dei figli del conte Carradori. Ebbe una lunga vita e morì a 79 anni d’età.
Il soggiorno romano ed oltre
Per trasferirsi da Recanati a Roma, Leopardi impiegò sei giorni. Per ordine del padre dovette accettare, controvoglia,  l’ospitalità dello zio materno a palazzo Antici-Mattei. A differenza della vita ordinata e fredda che aveva conosciuto dentro le mura paterne, a casa dello zio regnava la confusione, il disordine, i commensali parlavano ad alta voce delle loro faccende personali. Giacomo opponeva a quella dimensione di caos il suo più profondo silenzio, non provava alcun piacere, si sentiva un estraneo, incapace di comunicare con gli altri e di ciò si lamentava lo zio con Monaldo. Anche i rapporti con i letterati romani, che da Recanati aveva immaginato intellettuali  di grande cultura, lo deludevano per la loro superficialità e per la loro vacua erudizione. Ebbe però la fortuna di essere apprezzato da uno degli studiosi più importanti d’Europa, il ministro del re di Prussia, Barthold Georg Niebuhr, il più  grande storico di Roma antica e da altri dotti diplomatici stranieri, studiosi di archeologia, di storia, di letteratura greca. Il Niebuhr aveva letto le note filologiche di Giacomo al De repubblica di Cicerone, che il cardinale Angelo Mai aveva trovato in un palinsesto, e con grande entusiasmo aveva giudicato gli scritti di quel giovane letterato, che non conosceva, opera del più grande filologo d’Italia. Roma non era una città a dimensione di Giacomo, era troppo grande per il numero degli abitanti. Forse gli spazi troppo aperti gli procuravano uno stato d’ansia, non l’aiutavano a sentire il calore umano, ad avvertire la vicinanza con gli altri, come avverrà più tardi a Napoli. Provò una profonda emozione quando si trovò nella cappella di Sant’Onofrio dinanzi al  modesto sepolcro del Tasso, sito in un piccolo borgo industrioso, ravvivato dagli strepiti di telai e dai canti delle donne e degli operai, che gli ricordavano il suo paese. Qui pianse, provando una profonda comprensione del dramma umano del poeta della Gerusalemme liberata: Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato in Roma …' (Lettera di Giacomo a Carlo Leopardi, Roma, 20 febbraio 1823). Sempre da una lettera al fratello apprendiamo che Leopardi amava molto la musica e, in particolar modo, Rossini. Durante il soggiorno romano al teatro Argentina ebbe modo di assistere a La donna del lago, che gli parve 'una cosa stupenda', perché priva della aristocratica preziosità settecentesca e intrisa dell’immediatezza del sentimento popolare. A Roma lo delusero anche le donne, che trovò frivole, volgari negli atteggiamenti, nei costumi e nel modo di vestirsi. Giacomo era molto riservato, condizionato dal suo aspetto fisico, incapace, forse perché impossibilitato di trasferire il sogno nella realtà. Le sue esperienze amorose erano state, e lo saranno ancora dopo, tutte platoniche e unilaterali.
Il primo innamoramento risale all’11 dicembre del 1817, quando era arrivata a casa Leopardi la cugina di Monaldo, Gertrude Cassi, sposata con il conte Lazzari. Così Giacomo la descrive nelle sue Memorie del primo amore: ' La sera dell’ultimo giovedì arrivò a casa nostra … una Signora …alta e membruta quanto nessuna donna ch’io abbia veduta mai, di volto però tutt’altro che grossolano, di lineamenti tra il forte e il delicato, bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni, maniere benigne e, secondo me  graziose, lontanissime dalle affettate… ' Era una donna di ventisei anni, e suscitò nel cuore del poeta i primi palpiti amorosi. L’amore, allora, come annotò nello Zibaldone, gli apparve come 'principio vivificante della natura' ma allo stesso tempo'cosa amarissima'. L’unico contatto che ebbe con la Cassi durante i tre giorni di permanenza fu quello del pranzo ufficiale insieme con tutta la famiglia, durante il quale Giacomo non proferì parola alcuna, e di una partita a scacchi giocata con la Signora, come lui la chiamava, la sera prima della sua partenza, circondato dai familiari. Un altro innamoramento fu quello che provò per Benedetta Brini, una ragazza di Recanati, sua coetanea. Un giorno di maggio del 1819 la vide passare per le vie del paese, correndo gioiosamente con un fazzoletto in mano. La ragazza notò Giacomo e gli sorrise. La notte Leopardi sogno la fanciulla, le parlava, le prendeva la mano per sfiorarla con un bacio, tra il sogno e la veglia sentiva Benedetta come una creatura viva e vera.
Leopardi era un giovane ventenne, agitato da tempeste ormonali violente, condizionato sessualmente dal suo stato fisico. Era un grandissimo poeta, un acuto erudito, un profondo filosofo, ma pur sempre una creatura viva, soggetta agli impulsi naturali, che non riusciva a sfogare. Eugenio Scalfari nel suo Per l’alto mare aperto ricorda una sua esperienza personale. Aveva vent’anni come Giacomo ed era l’inverno del ’44. La sua famiglia da Sanremo, dove il padre era il direttore artistico del Casinò, si era rifugiata a Roma in casa della nonna materna. La città era occupata dai nazifascisti, che rastrellavano ebrei, giovani renitenti alla leva, antifascisti. La famiglia Scalfari stava tappata a casa, leggendo e ascoltando radio Londra. Il padre di Eugenio era uno studioso di letteratura e un estimatore della poesia e del pensiero di Leopardi. Quella sera Eugenio aveva preso in mano i Canti del poeta, lesse alcune canzoni, tra cui Le ricordanze e commentò con suo padre il dolore che traspariva da quei versi e dalla mancanza di amore che disperava il poeta costretto ad appagarsi delle sue fantasie e delle sue pratiche solitarie. Il padre non accettò quella volgare insinuazione di onanismo, s’infuriò e cacciò il figlio di casa, sebbene sua moglie gli ricordasse che fuori c’era il coprifuoco. Eugenio uscì nel pianerottolo e vi rimase finché l’ira del padre non si placò. Il Canto che Eugenio Scalfari aveva letto quella sera fa parte dei cosiddetti Grandi Idilli, che il poeta cominciò a comporre a Pisa  nel 1828. Fino a questa data Leopardi aveva cessato di dedicarsi alla poesia e si era impegnato nell’approfondimento dei suoi studi filosofici e nella stesura delle Operette morali. Queste prose furono scritte quasi tutte nel 1824 con l’intento di approfondire l’'arido vero', senza l’intenzione di giungere ad una sistematica trattazione filosofica, ma con l’intento di trasferire in letteratura la sua ricerca intellettuale. Personaggi storici, soggetti inventati, figure tratte dal mito e dalle letture giovanili diventano protagonisti di un processo di scavo alla luce della ragione sull’esistenza umana, sulle leggi che regolano la natura, sui miti ottocenteschi delle 'magnifiche sorti e progressive'. Sceglie, così, il povero Islandese per definire il 'pessimismo cosmico'; Cristoforo Colombo per esaltare l’azione, la sfida verso l’ignoto, l’eroismo contro l’incombere della noia;  immagina un dialogo serrato tra la moda e la morte, figlie entrambe della caducità; introduce personaggi del mito come Ercole e Atlante, ritratti a giocare a palla con la sfera della Terra che, a detta di Atlante, si era tanto alleggerita come se tutti gli uomini si fossero addormentati o  morti; nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo immagina che tutti gli uomini sono morti insieme con la loro presunzione di essere i padroni del Creato. Lo sciocco antropocentrismo degli spiritualisti li portava a credere che anche le zanzare e le pulci fossero state create per esercitarli alla pazienza; nel Dialogo di Torquato tasso e del suo genio familiare introduce il poeta dell’Aminta a colloquio con il suo genio, uno spirito buono e amico che gli  sedeva accanto. Torquato viveva prigioniero nell’ospedale di Sant’Anna a Ferrara, affetto da disturbi mentali, e ricordava nei momenti di lucidità il suo amore per Eleonora d’Este, esprimendo il desiderio di poterla rivedere. Il genio gli promette che gliela farà vedere in sogno, convincendolo che la realtà sognata è più bella di quella vissuta: 'il piacere è un subbietto speculativo, e non reale … il piacere è sempre o passato o futuro, e non mai presente'. Lo stesso tema venne sviluppato dal poeta in un’altra Operetta, Il dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere, scritta nel 1832, lontano ormai da Recanati, dove aveva composto le prime venti Operette, quasi tutte nel 1824 dopo il deludente soggiorno romano. Dello stesso anno è il Dialogo di Tristano e un amico, in cui il poeta riassume i momenti più significativi del suo pensiero: l’egoismo umano, l’infelicità, l’impossibilità di raggiungere il piacere, il disprezzo verso le teorie spiritualistiche che sviliscono l’educazione del corpo a differenza della paideia degli antichi, che esaltavano la cura del corpo come necessaria alla cura dello spirito; la polemica contro i teorici del progresso; l’accusa ai giornali e alle enciclopedie, che massificano la cultura estendendola per quantità non certo in qualità. Infine, è interessante soffermarsi sul Dialogo di Plotino e Porfirio, perché il poeta pare aprirsi a una nuova visione dell’esistenza umana fondata sul dolore, eroicamente accettato senza disperazione. Infatti, il tema del suicidio, tante altre volte da Giacomo affrontato come unica soluzione al male di vivere, ora viene rivisto alla luce della pietas, della solidarietà fraterna verso gli uomini, temi che anticipano il messaggio della 'social catena' presente nella Ginestra : Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita.
Nel ’25 l’editore milanese Stella offrì a Leopardi la possibilità di essere economicamente indipendente, chiedendogli una sua collaborazione per la pubblicazione di alcuni classici, tra cui un’edizione di Cicerone. In quei giorni, l’editore aveva già dato incarico al letterato Niccolò Tommaseo di stendere un saggio di note in latino e una sua idea dell’edizione. Quindi, senza indicare il nome dell’autore che aveva curato l’edizione, mandò il manoscritto al Leopardi, per riceverne un parere. Giacomo annotò nella sua risposta i tanti errori di testo e giudicò quel lavoro filologicamente debole. Stella mostrò la lettera al Tommaseo, donde si può comprendere quali sentimenti questi potesse cominciare a nutrire per quell’infelice 'gobbo'. Il livore di Niccolò Tommaseo non nasceva solo dall’invidia intellettuale, ma anche dalla sua posizione vetero-clericale, ostile all’ateismo professato da Giacomo nelle sue opere: 'Nell’anno 2000 d’eminente in Giacomo Leopardi non rimarrà né manco la gobba perché i bachi della sepoltura gliel’avranno appianata'. Il Tommaseo non era nuovo al queste volgari invettive contro altri letterati. Era entrato in polemica pure con Vincenzo Monti, già vecchio, il quale con spirito tra l’ironico e il sarcastico aveva preso per costume di chiamare tommasei una parte del corpo che non è lecito nominare. In effetti, anche il laico, liberale Giuseppe Mazzini mostrava le sue riserve nei confronti di un pensiero che negava il progresso e la speranza in un mondo migliore: 'Le Operette morali sono dialoghi sciocchi … vi era molto scetticismo, caustico scetticismo che ebbe principalmente origine dalla sua incapacità, a causa della sua deformità, a sperare d’essere amato e di raggiungere una felicità individuale … ma se non si è in grado di dominare gli effetti che tale situazione comporta è meglio spezzare la penna e non scrivere'. Così pure a Firenze il Leopardi ebbe rapporti difficili con i liberali per le sue posizioni polemiche contro il loro ottimismo progressistico. Del resto, la stessa Accademia della Crusca preferì assegnare il premio di un concorso all’opera storica di Carlo Botta anziché alle Operette morali.
A Firenze avvenne, però, la svolta determinante della vita del poeta. Strinse amicizia con un giovane esule napoletano, Antonio Ranieri, al quale rimase legato fino alla morte. Sempre nella capitale toscana visse la sua ultima passione amorosa per la nobildonna Fanny Targioni Tozzetti. Sposata con un medico che si occupava di botanica, la Signora teneva nel suo palazzo un salotto letterario frequentato da poeti e artisti. La sua esuberanza, la sua bellezza e il suo carattere disinvolto, la sua cultura davano adito a vari pettegolezzi, alcuni suffragati dalla verità. Il Leopardi provò per lei un’accesa passione, anche se dal carteggio della donna con Antonio Ranieri, di cui era diventata amante, pare che Giacomo non avesse mai osato rivelare apertamente i suoi sentimenti, sebbene la sua passione per la donna fosse manifesta per le attenzioni che le rivolgeva. Quest’amore non corrisposto ispirò al poeta alcune liriche che vanno sotto il nome di Ciclo di Aspasia, lo pseudonimo usato per celare quello di Fanny.
Il 1833 Ranieri ottenne il permesso di rientrare entro i confini del Regno delle due Sicilie. I due amici, ormai legati da profondo affetto, giunsero a Napoli il 2 ottobre, accolti affettuosamente dai parenti di Antonio e presero alloggio in un appartamentino di tre stanze ammobiliato in via San Mattia, 88 al secondo piano. La padrona della pensione, sentendo Giacomo tossire frequentemente, sospettò che fosse affetto dalla tubercolosi. Si convinse ad accogliere i due amici solo dietro la rassicurazione del regio dottor Mannella, che diagnosticò l’assenza della tisi. Tre giorni dopo l’arrivo, Giacomo  così comunicava al padre: 'la dolcezza del clima, le bellezze della città e l’indole amabile e benevola degli abitanti mi riescono assai piacevoli'.
Napoli si era presentata al poeta nei suoi aspetti migliori. Era una grande città di 360 mila abitanti, la quarta più popolosa in Europa dopo Londra, Parigi e San Pietroburgo. La vitalità e la gioia di vivere del popolo partenopeo gli procuravano entusiasmo e lo incoraggiavano ad uscire da solo senza l’amico per confondersi tra la gente, incuriosito del folclore napoletano e stimolato nella sua golosità. Come ci riferisce Antonio Ranieri, Giacomo si alzava molto tardi e 'aveva un mostruoso disordine delle ore'. A causa dei dolori che lo affliggevano spesso evitava di lavarsi. Con addosso un soprabito turchino a falde larghe logorato dall’uso e ai piedi delle calze rattoppate attraversava via Toledo e Santa Lucia e si soffermava spesso al Caffè Due Sicilie per gustare l’uno dopo l’altro i gelati di Vito Pinto, le sue pizze dolci e ancora granite, sfogliatelle, tazzine di caffè zuccheratissimo, incurante delle prescrizioni dei medici, o convinto che queste leccornie giovassero soprattutto alla sua nevrosi. Napoli era anche la città dei frutti di mare, cozze, mitili, cannolicchi, che facevano venire l’acquolina in bocca al fragile Giacomo, che non sapeva resistere ai loro stuzzichevoli sapori e odori, incurante dell’epidemia di colera, che aveva cominciato a falcidiare la popolazione.
Recentemente è stato pubblicato il libro di Domenico Pasquariello e Antonio Tubelli, dal titolo Leopardi a tavola, che svela il rapporto goloso tra il poeta e la cucina napoletana, con aneddoti, ricordi e le ricette dei suoi piatti preferiti. Tra le Carte Ranieri si legge una lista autografa del poeta, che comprende oltre quaranta piatti: riso al burro, frittelle di borragine, bignè di patate, selleri, ravaiuoli, bodin alla ricotta, pasticcini di maccheroni e il favoloso gelato al miele. Giacomo si intratteneva piacevolmente a discutere di argomenti futili con i popolani, che spesso gli chiedevano persino i numeri da giocare al lotto, considerandolo per la sua gobba un valido portafortuna. Diverso il rapporto con gli intellettuali, che non accettavano la sua misantropia e la sua aria sdegnosa, ma anche il suo ateismo. Contro gli ambienti liberali e cattolici fiorentini indirizzò la Palinodia al marchese Gino Capponi, in cui derideva la fede nel progresso sociale e tecnologico, fingendo la ritrattazione delle sue convinzioni; ne I nuovi credenti, satireggiava contro gli intellettuali napoletani, adusi a vivere felici senza avvertire né dolore né noia, sentimenti sublimi, che non provano coloro ai quali ' … la vita è cara,/ a cui grava il morir'. Gli stessi intellettuali, devoti dello spiritualismo cattolico, nemici del materialismo ateo, non disdegnavano però di trascorrere le loro giornate nell’ozio, occupati dalle passeggiate a Portici e  a via Toledo, che si concludevano con un gustoso piatto di maccheroni, contornati di alici, triglie, ostriche, frutti di mare, oppure con il dilettare il palato con uno degli eccezionali gelati di Vito Pinto, che divenne ricco, grazie alla ghiottoneria dei suoi concittadini, a tal punto da comprarsi il titolo di barone. Il rancore  di Giacomo verso l’ambiente colto napoletano trovava una reale motivazione nel fatto che la censura borbonica aveva vietato la pubblicazione delle sue Operette morali, mentre tutta la sua produzione era stata messa all’Indice dei libri proibiti: 'La mia filosofia, notava amaro Leopardi, è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto'. Per questo motivo, i il poeta pensava di far pubblicare tutte le sue opere fuori dall’Italia, forse in Francia.
Dopo due mesi di soggiorno nella casa di via San Mattia, Leopardi e Ranieri si trasferirono in un appartamento più salubre, alle pendici del Vomero, dove si fermarono fino ai primi di maggio del 1835. Il 9 maggio dello stesso anno Ranieri firmò il contatto per la casa di via del Pero n. 2.
Dall’inizio del 1836 le condizioni cliniche di Giacomo precipitarono. Non riusciva più a leggere e a scrivere, trascorreva la maggior parte del tempo a letto e dettava i suoi appunti ad Antonio e a sua sorella Paolina, legata da amore fraterno a Giacomo. La diagnosi del dottor Mannella fu di idropericardia e gli consigliò di cambiare aria. Il cognato di Antonio, Giuseppe Ferrigni, offrì la sua villa a Torre del Greco, alle pendici del Vesuvio, dove il poeta accettò di trasferirsi nell’aprile del 1836. I due amici vi rimasero per circa due mesi e vi ritornarono per un soggiorno più lungo fino al febbraio del 1837, perché a Napoli infuriava l’epidemia di colera. Nella villa Ferrigni, nella primavera del 1836, Leopardi compose il Tramonto della luna. Gli ultimi sei versi furono dettati all’amico Antonio due ore prima di morire: ' ... la vita mortal, poi che la bella/ giovinezza sparì, non si colora/ d’altra luce giammai, né d’altra aurora./ Vedova è insino al fine; ed alla notte/ che l’altre etadi oscura,/ segno poser gli dei la sepoltura'.
Anche la Ginestra fu composto nella villa Ferrigni, oggi villa delle Ginestre, nel 1836. Si tratta di un poemetto di 317 versi, in cui il paesaggio antidillico proietta la sintesi del suo materialismo ateo, la polemica contro chi crede nelle 'magnifiche sorti e progressive', l’immagine terrificante della natura matrigna, simboleggiata nella rappresentazione dello 'sterminator Vesevo', che ancora nel 1820 aveva dato vita ad una terribile eruzione. Ma, allo stesso tempo, Leopardi lanciava uno dei messaggi più significativi ed eticamente pregevoli alle nuove generazioni. Dall’infelicità e dai mali della Natura non si può fuggire, ma è da stolti aggiungere altre sofferenze e altri mali a quelli che abbondantemente ci vengono dalla Natura matrigna. L’esistenza è male perché è lotta, violenza, distruzione e morte. Ma può l’uomo vivere nell’attesa del nulla, come fanno i buddisti? Così scriveva Nicola Abbagnano  in un suo articolo Leopardi tra i moderni, apparso sulla Stampa il 18 gennaio del 1974. Il filosofo trovava nella Ginestra del Leopardi la risposta: l’uomo è solo, gettato in un mondo ostile, senza aiuti dalla natura o dal cielo. È soggetto a sofferenze d’ogni genere… può sopportare meglio questa condizione riducendo la sua sensibilità, conducendo una vita insignificante, stupida o illusa. Ma può accettare anche ad occhi aperti la sua condizione impegnandosi nell’azione e vivendo la sua vita con fervore. Quest’ultima è la soluzione che Leopardi preferisce e vorrebbe favorire con la sua opera. Ma è la soluzione che richiede la solidarietà di tutti gli uomini di fronte a tutti i mali dell’esistenza; ed a questa solidarietà è indirizzato l’inno alla Ginestra'. Il ritorno alle illusioni, la speranza di una palingenesi morale, la fiducia nella razionalità dell’uomo indussero il poeta a credere che un mondo migliore unito in una 'social catena' fosse possibile pensarlo. Si tratta forse di un’utopia, ma l’utopia è il fondamento di ogni illusione.
Leopardi, scrive Pietro Citati, morì con moltissima grazia, e in tono minore, come in tono minore era vissuto quasi tutta la sua vita.
Nel febbraio del 1837 Leopardi e Ranieri tornarono a Napoli, ma a giugno il colera aveva ripreso a seminare morte e Antonio aveva deciso di ritornare a Torre del Greco. Giacomo resisteva, si sentiva un po’ meglio ed era convinto che la sua malattia nervosa l’avrebbe tormentato allo stesso modo ovunque si fosse recato. Il 14 giugno verso le diciassette si alzò dal letto per il pranzo, prese qualche cucchiaiata di minestra e chiese a Paolina di portargli un’abbondante granita di limone. Improvvisamente si sentì assalito da una crisi d’asma e pregò l’amico Antonio di chiamargli il dott. Mannella. A questo punto occorre attenersi a quanto annotò Ranieri nella sua pubblicazione Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi. Quando il dottore lo visitò, si rese conto che le condizioni di Giacomo erano senza speranza. Tirò da parte l’amico e lo ammonì di far venire immediatamente un prete. Nell’attesa, Paolina gli sosteneva il capo e gli asciugava il sudore, mentre suo fratello cercava di tenerlo sveglio facendogli alitare delle essenze spiritose. Aperti per l’ultima volta gli occhi, rivoltosi all’amico, pronunciò con voce flebile le ultime parole: 'Io non ti veggo più' e chiuse gli occhi per sempre. In quel momento entrava nella camera frate Felice, agostiniano scalzo, per impartire al morto l’estrema unzione. La salma di Leopardi fu sepolta, per volere di Ranieri, nella chiesa di San Vitale a Fuorigrotta l’alba del 16 giugno 1837. L’epitaffio sulla lapide fu dettato da Pietro Giordani: 'Al conte Giacomo Leopardi recanatese/ filologo ammirato fuori d’Italia/ scrittore di filosofia e di poesie altissimo/ da paragonare soltanto coi Greci/ che finì di XXXIX anni la vita/ per continue malattie miserrima/  fece Antonio Ranieri/ per sette anni fino all’estrema ora congiunto/ all’amico adorato MDCCCXXXVII'.
Il 22 febbraio 1939 la tomba di Giacomo Leopardi  fu traslata nel Parco Virgiliano a Piedigrotta, che ospita il cenotafio del poeta latino Virgilio.
21.X.2014      Antonino Tobia 

Autore Prof-Greco

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Inserito il 21 Ottobre 2014 nella categoria Relazioni svolte