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A 750 anni dalla nascita di Dante Alighieri

Il prof. Antonino Tobia ha relazionato sul tema 'L'eco dell'eccellenza umana. Dante la Sicilia.'

Relatore: Prof. Antonino Tobia

 Dante e la Sicilia: 750 anni dalla nascita del poeta

Il principio da cui provengono le cose è il fuoco, la realtà è in continuo movimento. La più bella delle trame viene formata dagli opposti e tutte le cose scaturiscono dalla lotta di forze contrarie. Così si legge in un frammento del filosofo greco Eraclito. Dal fuoco che agita e brucia le viscere della terra,dalle forze contrarie e diverse, rappresentate dalle numerose dominazioni straniere, scaturisce la peculiarità più vera della Sicilia, che consiste nella sua capacità di assimilazione e di elaborazione del nuovo e nella felice ed originale sintesi che ne sa derivare.La Sicilia fu greca e produsse importanti testimonianze artistiche, letterarie e filosofiche nell’ambito della Magna Grecia. Divenne la prima provincia romana nel 241, a conclusione della Prima guerra punica, e fu cantata da Virgilio, che la inserì nel mito della nascita di Roma. Alla caduta dell’Impero romano (476 d. C.) per circa cinquecento anni fu ostrogota, bizantina, araba. Conquistata (1061-1072) da Ruggero d’Altavilla, rientrò definitivamente nella sfera politica della Penisola e dell’Europa cristiana. Alla Sicilia normanna e sveva si indirizzarono gli studi letterari e linguistici di Dante e al ruolo politico che l’Isola assunse con Federico II guardò per le sue teorie politiche.Nella formazione culturale dell’uomo politico esisteva, infatti, una connessione oggettiva tra l’ammirazione per quanto aveva rappresentato di grande e importante la corte Federico II nel quadro storico europeo e la sua ansia di fondazione di una Monarchia universale. Sul piano letterario, la Scuola siciliana rappresentava la possibilità di giungere ad un italiano illustre e ad una produzione poetica autonoma rispetto alle espressioni straniere dei trovatori provenzali e dei minnesanger tedeschi."Alla Sicilia tendeva il cuor di Dante ", ebbe a scrivere il Pascoli, che nel 1900 ricopriva la cattedra diLetteratura latina nell’università di Messina, dove soggiornò felicemente insieme con la sorella Mariù.Dante nacque nel 1265 e la sua vita fu condizionata dalle vicende storiche della Sicilia, che interessarono tutte le regioni dell’Italia. Federico II era morto nel 1250 e nel 1258 suo figlio Manfredi si era fatto incoronare re dell’Isola, ponendosi a capo delle forze ghibelline e sconfiggendo duramente i guelfi toscani nella battaglia di Montaperti nel 1260. Il suo potere fu, per questo, inviso alla Chiesa,sicché il 10 aprile del 1259 il papa Alessandro IV gli lanciò una scomunica accompagnata da anatema e gli mosse contro Carlo I d’Angiò, cui il suo successore Urbano IV offrì la corona del regno di Sicilia (1263). Lo scontro tra i due rivali si concluse tragicamente per il re svevo, che fu sconfitto ed ucciso a Benevento (1266) dalle milizie angioine.Ma, accanto agli interessi politici, le suggestioni del mito e della leggenda affluivano alla memoria e alla fantasia del poeta, appassionato lettore dei classici: Ovidio e, in particolar modo, Virgilio, nel cui poema l’Isola è presente con un ruolo non secondario.Dante ebbe il merito di aver compreso il ruolo internazionale delle vicende che interessavano l’Isola, a cominciare dalla conquista normanna, quando la storia del regno di Sicilia è già storia d’Italia e dell’Impero. La storia del regno di Sicilia era particolarmente cara a Dante che, come si legge nelle sue opere, dal Convivio alla Monarchia e ai tanti riferimenti presenti nella Commedia, ancora credeva nell’utopia di una monarchia universale, di un grande Impero europeo, politicamente federato in un solo consorzio umano che garantisse la pace universale sotto l’egida dell’imperatore. Una federazione di popoli,quindi, guidata dalle supreme autorità del tempo, l’imperatore e il pontefice, i due Soli che dovevano assicurare rispettivamente la felicità terrena e la salvezza eterna. Tali prospettive politiche s’infrangevano dinanzi allo scenario politico del suo tempo. Viveva, infatti, con amarezza l’infrangersi di quanto era stato realizzato nella costituzione dell’impero da Federico II e provava un profondo rammarico per lo scadimento politico e culturale del regno siciliano. Federico III d’Aragona (1272–1337), terzogenito di Pietro III d’Aragona e di Costanza di Svevia, figlia di Manfredi e nipote del grande Federico II, aveva ottenuto la corona del regno di Sicilia nel 1296, ma si era rivelato inetto e non in grado di reggere il confronto col mito del regale solium federiciano, sognato da Dante. Nel canto XIX del Paradiso il poeta ne rimprovera severamente 'l’avarizia e la viltate' :Vedrassi l’avarizia e la viltate di quel, che guarda l’Isola del foco, ove Anchise finì la lunga etate. (130-132) Il riferimento storico e il mito virgiliano s’intrecciano poeticamente, laddove il richiamo alla vicenda di Enea conferisce un alto prestigio alla terra siciliana. Il giovane Dante aveva cominciato ad amare la Sicilia oltre che per il modello politico federiciano, anche per l’ammirazione che provava per la Scuola potica che all’interno della Curia si era formata a Palermo, erede della raffinata poesia provenzale e culla del primo linguaggio poetico della Penisola.Così, nella Vita Nuova correva col pensiero ai primi rimatori in volgare affermatisi in Sicilia:' Non è molto numero d’anni passati, che appariro prima questi poete volgari... [i quali] quasi fuoro li primi che dissero in lingua di sì (XXV). La Magna Curia federiciana è ammirata da Dante come il più importante centro di cultura del XIII secolo. All’interno della scuola poetica era nato un volgare aulico e cardinale che doveva costituire il primo exemplum maximum di unità linguistica.Tra il 1303 e il 1305 Dante scrisse il De Vulgari Eloquentia, un trattato in latino sulle lingue volgari d’Italia. L’autore, disquisendo appunto sui volgari parlati in Italia, ne recensiva quattordici,riconoscendo solo al siciliano la caratteristica di lingua nobile ed illustre.De vulgari eloquentia, I, XI-XII XI. Nella grande varietà dei volgari italiani, andiamo in caccia della loquela migliore e illustre; e perché nella nostra caccia possiamo trovare una strada libera, puliamola dagli arbusti convoluti e dagli sterpi spinosi. E in effetti si può dire che quello dei romani è il pessimo tra tutti i volgari d’Italia.E ciò non stupisce dacché essi appaiono essere corrotti più di tutti gli altri per la mostruosità delle abitudini e dei costumi. XII. Eliminati in qualche modo i volgari più aspri d’Italia, sceglieremo rapidamente per comparazione il più degno di onore e più ricco di riconoscimenti tra quelli che sono rimasti nel nostro setaccio. Indagheremo in primo luogo la natura di quello siciliano: infatti pare che il volgare siciliano si sia conquistato una fama migliore degli altri, cosicché tutto ciò che viene composto in poesia dagli italiani è chiamato siciliano. Ma una simile fama della terra di Sicilia, se si osserva bene l’obiettivo cui mira, sembra ridondare solo a discredito dei principi italiani che secondo gli usi della plebe e non degli eroi sono schiavi della superbia.E in effetti, gli eroi illustri, l’imperatore Federico e il di lui degno erede Manfredi, diffondendo nobiltà e rettitudine finché fortuna concesse, seguirono i costumi umani, sdegnando i modi dei bruti. Per questo, i nobili di cuore e le persone dotate dei doni della grazia, si sforzarono di attenersi alla maestà di siffatti principi, di modo tutto ciò che gli italiani dotati di dotati di animo eccellente partorivano nasceva dapprima nella reggia di regnanti di tanta grandezza. E poiché la sede della corona era la Sicilia, avvenne che tutto ciò che i nostri predecessori hanno scritto in volgare è stato chiamato siciliano. E lo facciamo ancora, né i posteri potranno modificare l’uso. Quanto amore e quanta ammirazione per la bella Trinacria ! Eppure Dante non visitò mai la Sicilia. Le sue evocazioni paesaggistiche sono il risultato delle sue letture attraverso Virgilio, Ovidio, Plinio. In tutti questi autori il richiamo all’Etna rappresenta l’elemento geografico caratterizzante dell’Isola. Tali fonti letterarie suggeriscono la seguente fantastica visione dell’Isola : 'la bella Trinacria, che caliga tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo che riceve da Euro maggior briga,non per Tifeo ma per nascente solfo (Par. VIII 67-70). Mito e storia trovano nell’opera del poeta una felice combinazione. Infatti, se le evocazioni paesaggistiche sanno di rielaborazione letteraria, al contrario i giudizi storici sui personaggi più importanti della casa normanna sono di grande evidenza storica e appaiono incisi col bulino.Nel XX canto del Paradiso, nel cielo di Giove, tra gli spiriti giusti Dante annovera l’anima di Guglielmo II : 'E quel che vedi nell’arco declivo, / Guglielmo fu, cui quella terra plora / che piange Carlo e Federigo vivo : / ora conosce come s’innamora / lo ciel del giusto rege, e al sembiante / del suo fulgore il fa vedere ancora' (61-66). Guglielmo detto il Buono, figlio di Guglielmo I detto il Malo, quartogenito di Ruggero II, ebbe fama di uomo generoso, colto e illuminato, ma nel pensiero politico di Dante il sovrano occupa un posto di grande rilievo, perché pose fine alla tradizione antimperiale dei precedenti re normanni. ' È per simili motivi che il poeta fa calare una vera e propria cortina di silenzio sulla Sicilia normanna dopo Roberto il Guiscardo: torna a riparlarne soltanto quando il regno meridionale gli appare rientrato nell’ambito dell’obbedienza imperiale. Dal Guiscardo, insomma, compie un salto sino a Guglielmo II' (F. Giunta, Dante e la Sicilia, Pa, 1983). Infatti, dopo essere stato battuto a Carsoli, in Abruzzo, nel 1176 dall’esercito del Barbarossa, Guglielmo stipulò con l’imperatore tedesco un trattato di pace della durata di quindi anni, suggellato dal matrimonio di Enrico VI, figlio del Barbarossa, con la zia Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II ed erede del regno di Sicilia, dal momento che egli era senza eredi. Si trattava di un matrimonio politico (Enrico aveva 21 anni, Costanza 32), che realizzava la concentrazione nelle stesse mani delle terre a sud e a nord di Roma, ciò che la Curia romana aveva sempre temuto e cercato di evitare, contrastando la politica dell’imperatore Federico con l’aiuto normanno.Dal matrimonio di Enrico VI e Costanza d’Altavilla nacque Federico II che, rimasto orfano quando ancora non aveva compiuto il terzo anno d’età, per volere della madre fu incoronato nel 1198 re di Sicilia e affidato dalla stessa alla tutela del papa Innocenzo III.Dante nel canto III del Paradiso dedica 12 versi (109-120) al ricordo di Costanza imperatrice, la cui presentazione è affidata a Piccarda Donati, nel cielo della Luna, tra gli spiriti mancanti ai voti:

' E quest’altro splendor che ti si mostra

dalla mia destra parte e che s’accende

di tutto i lume della spera nostra

ciò ch’io dico di me, di sé intende:

sorella fu, e così le fu tolta

di capo l’ombra delle sacre bende.

Ma poi che pur al mondo fu rivolta

contra suo grado e contra buona usanza,

non fu dal vel del cor già mai disciolta.

Quest’è la luce della gran Costanza

che del secondo vento di Soave

generò ‘l terzo e l’ultima possanza'.

Una leggenda d’ispirazione guelfa tendeva a diffamare l’immagine di Federico II, ' terzo e ultima possanza ' della casa sveva, diffondendo l’opinione, accettata da Dante, che la figlia di Ruggero II fosse stata costretta dal padre a prendere i voti, spaventato da una profezia di Gioacchino da Fiore, teologo e profeta calabro, tenuto in grande stima. In seguito, sciolta dai voti professati per intervento papale, Costanza, secondo tale leggenda, sarebbe andata sposa all’età di 55 anni al figlio di Federico Barbarossa, e da queste nozze sarebbe nato Federico II. Dante riprende solo in parte la leggenda d’ispirazione guelfa. Non tace sull’imposizione esercitata dal padre affinché la figlia prendesse i voti,

ma sottolinea che Costanza, costretta ad interrompere la sua vocazione monacale, anche dopo che le fu tolta con la forza 'l’ombra delle sacre bende', non cancellò mai dal cuore la fedeltà alla sua vocazione monastica. Sull’età di Costanza Dante non fa cenno; probabilmente non credeva che la figlia di Ruggero fosse così avanti negli anni, se poté assicurare al marito, 'il secondo vento di Soave' un nobile erede. La grande ammirazione che Dante mostra per la madre di Federico II è dimostrata dalle parole che mette in bocca a Piccarda Donati, che presenta Costanza come lo 'splendore', che s’illumina di tutta la luce lunare.Dante nutre un grande apprezzamento per l’impero svevo, l’unica entità politica che poteva dar vita alla sua utopia di un impero universale, tuttavia la sua coscienza laica non gli consente di andar oltre il giudizio della Chiesa, dalla quale Federico II era stato scomunicato. E così il grande Svevo è ricordato solo indirettamente nell’Inferno in tre canti con brevi accenni di diversa natura. Nel canto X il figlio della grande Costanza è appena indicato da Farinata tra i tanti eretici che popolano la città di Dite : ' Qui con più di mille giaccio/ qua dentro è ‘l secondo Federico …'. Nel canto XIII Pier della Vigna, rimatore in volgare e protonotaro alla corte di Federico, pur dichiarando la sua innocenza, elogia il suo sovrano, di cui era divenuto consigliere e segretario fidato, al punto da presentarsi come colui che era più vicino di ogni altro al cuore dell’imperatore: 'Io son colui che tenni ambo le chiavi/ del cor di Federigo, e che le volsi,/ serrando e disserrando, sì soavi/ che dal secreto suo quasi ogn’uomo tolsi …'. Purtroppo, l’invidia, la grande meretrice delle corti, infiammò gli animi dei cortigiani che, a loro volta, accesero nell’imperatore il sospetto di tradimento. Imprigionato, torturato e accecato, preferì non sopravvivere a tanta infamia. Pur nello strazio del ricordo, Pier della Vigna non lesina parole di lode per il suo sovrano ' che fu d’onor sì degno'. Ne tace la violenza. La crudeltàdi Federico è tuttavia fatta balenare nel canto XXIII, nel cerchio degli ipocriti. Questi spiriti, collocati nella sesta bolgia dell’ottavo cerchio, procedono lentamente coperti da un manto con il cappuccio calato fino agli occhi. Il manto è d’oro all’esterno, ma dentro di piombo. Tale modalità di pena, diffusa dalla leggenda medievale di provenienza guelfa, era attribuita all’imperatore, che si narrava facesse ardere in cappe di piombo, immersi in una caldaia, i colpevoli di lesa maestà. Se Federico II era stato in vita 'd’onor sì degno' come uomo politico, mecenate e uomo di lettere, non così benevolmente poteva giudicarsi la sua anima, anche per le voci che circolavano nelle cronache sullo stile di vita dell’imperatore. Lo stesso Benvenuto Rambaldi da Imola, vissuto nel XIV secolo, uno dei commentatori più antichi della Commedia, esaltò nel suo Comentum le magnifiche virtù regalidell’Imperatore, ma non tralasciò di ritrarlo come uomo avido d’impero terreno, e poco curante del regno dei cieli . Il severo giudizio morale, che emerge da questi accenni nella prima cantica, crea qualche incertezza sulla cronologia della composizione del Poema. Se, infatti, i giudizi che accompagnano nell’Inferno la personalità dell’Imperatore: eretico, poco accorto nel valutare i suoi stretti collaboratori, come Pier della Vigna, giudicato vittima innocente della credulità del suo sovrano, si mettono a confronto con le qualità morali che allo stesso sono attribuite nel De vulgari eloquentia e nel Convivio, scritti tra il 1304 e il 1307, negli anni in cui era già in esilio, si nota una netta contraddizione. Nel De vulgari eloquentia al cap. XII si legge: 'Siquidem illustres heroes, Fredericus Cesar et bene genitus eius Manfredus, nobilitatem ac rectitudinem sue forme pandentes, donec fortuna permisit, humana secuti sunt, brutalia dedignantes'. Il poeta è andato ben oltre il ritratto che ha consegnato dell’imperatore nell’Inferno e non poteva tessere elogio migliore: Federico e suo figlio Manfredi furono uomini d’animo nobile e retto, nemici di ogni malvagità e impegnati nel dare prova di un onesto vivere civile. Una tale dichiarazione di stima fa immediatamente pensare al distacco dell’esule dal suo partito e alla rinata speranza che potesse realizzarsi il sogno della restaurazione imperiale sul modello tracciato dal grande Svevo. Nel 1310 si era diffusa la notizia che Enrico VII stesse calando in Italia per ristabilire l’autorità imperiale, ponendo fine alle lotte partigiane tra guelfi e ghibellini. Il giovane sovrano, insignito del titolo di imperatore del Sacro Romano impero, storicizzava la metafora del Veltro descritto nell’Inferno, e proprio sotto l’attesa di tale evento nasceva la Monarchia.

Della gloriosa stirpe sveva, solo l’anima del suo più fulgido rappresentante, lo Splendor mundi, è relegata dal poeta nell’Inferno, tra gli eretici della città di Dite. Al contrario sua madre Costanza gode della luce del Paradiso e suo figlio Manfredi è posto nell’Antipurgatorio, destinato alla gloria del Paradiso. Manfredi, sebbene fosse stato colpito dalla scomunica, come il padre, tuttavia Dante non lo colloca per l’eternità nelle fiamme che arroventano le arche degli scomunicati. Il principe svevo seppe conquistarsi il perdono divino, pentendosi in articulo mortis. La sua anima è nell’antipurgatorio tra i negligenti scomunicati. Dante, commosso ed ammirato, lo ritrae proprio nel canto terzo della cantica del Purgatorio, come nel terzo canto del Paradiso celebra lo spirito della grande Costanza. Dante sembra avere un debole per il principe svevo, vittima della Curia romana, che gli suscitò contro l’ostilità di Carlo d’Angiò. Infatti, mentre il nome di Federico II è appena accennato da Farinata, e l’imperatrice Costanza, presentata da Piccarda, non proferisce alcuna parola, Manfredi si rivolge direttamente a quel pellegrino, di cui avverte l’eccezionalità: 'Chiunque/ tu se’, così andando volgi il viso,/ pon mente, se di là mi vedesti unque.' La natura della domanda può suscitare qualche perplessità. Alcuni studiosi di Dante, tra cui il Castelvetro e il Tasso, si sono chiesti come poteva Dante, nato nel maggio del 1265, aver conosciuto Manfredi, morto nella battaglia di Benevento il 26 febbraio 1266. È evidente che a Manfredi non interessava conoscere l’età di Dante, ma tentare un approccio con un personaggio così singolare, al quale avrebbe potuto chiedere quanto gli stava a cuore: riscattare la sua memoria presso i posteri e rassicurare la propria figlia che suo padre non era un dannato dell’Inferno e che quindi poteva pregare per accelerare il suo periodo penitenziale. Al richiamo di Manfredi, Dante volse lo sguardo verso lo spirito che lo aveva interpellato:

Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:

biondo era e bello e di gentile aspetto,

ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso. 108

Quand’io mi fui umilmente disdetto

d’averlo visto mai, el disse: "Or vedi";

e mostrommi una piaga a sommo ’l petto. 111

Poi sorridendo disse: "Io son Manfredi,

nepote di Costanza imperadrice;

ond’io ti priego che, quando tu riedi, 114

vadi a mia bella figlia, genitrice

de l’onor di Cicilia e d’Aragona,

e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice. 117

Poscia ch’io ebbi rotta la persona

di due punte mortali, io mi rendei,

piangendo, a quei che volontier perdona. 120

Orribil furon li peccati miei;

ma la bontà infinita ha sì gran braccia,

che prende ciò che si rivolge a lei. 123

Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia

di me fu messo per Clemente allora,

avesse in Dio ben letta questa faccia, 126

l’ossa del corpo mio sarieno ancora

in co del ponte presso a Benevento,

sotto la guardia de la grave mora. 129

Or le bagna la pioggia e move il vento

di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,

dov’e’ le trasmutò a lume spento. 132

Per lor maladizion sì non si perde,

che non possa tornar, l’etterno amore,

mentre che la speranza ha fior del verde. 135

Vero è che quale in contumacia more

di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,

star li convien da questa ripa in fore, 138

per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,

in sua presunzïon, se tal decreto

più corto per buon prieghi non diventa. 141

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,

revelando a la mia buona Costanza

come m’ hai visto, e anco esto divieto; 144

ché qui per quei di là molto s’avanza".

(Purgatorio, III, vv. 107-145)

Dante non poteva conoscere direttamente il volto di Manfredi, ne conosceva bene le vicende storiche che lo avevano visto protagonista, e perciò l’immaginazione sopperisce all’esperienza. Dalla Cronica del Villani il poeta poteva ricostruire le caratteristiche somatiche di Manfredi, dove si legge: 'Erat autem rufus et pulcher aspectu decoraque facie'. Il ritratto che Dante consegna ai posteri è allo stesso tempo fisico e morale. Due attributi, bello e gentile, designano immediatamente la nobiltà e la dignità di quello spirito a Dio pacificato. Il valore dell’uomo d’arme è, invece, espresso dalle ferite che mostrasul ciglio e sul petto. Come Dante, anche Benvenuto, qualche decennio dopo, nel suo Commento rappresentò Manfredi 'bello di corpo, grande d’animo, dolce, prudente, civilissimo, suonatore,cantore e carissimo amatore. … Vestiva per lo più di color verde, liberale, lieto la maggior parte del tempo'. Fino a questo punto si era arrestato Dante nel suo ritratto, ma il commentatore aggiunse che Manfredi 'poscia oscurò queste buone qualità con grandi mende di lussuria, di voluttà, di laidezza e di epicureismo'. Benvenuto riconosceva quindi la condizione di epicureo del figlio di Federico II, ma  Dante volle andare oltre il decreto papale e salvare l’anima di Manfredi che confessa:

Orribil furon li peccati miei,

ma la bontà infinita ha sì gran braccia,

che prende ciò che si rivolge a lei.

Se ‘l pastor di Cosenza allora

avesse in Dio ben letta questa faccia,

l’ossa del corpo mio sarieno ancora

in co del ponte presso a Benevento,

sotto la guardia della grave mora.

Or le bagna la pioggia e move il vento

Di fuordal regno, quasi lungo il Verde, dov’e’ le trasmutò a lume spento.

Per lor maledizion sì non si perde,

che non possa tornar, l’etterno amore,

mentre che la speranza ha fior del verde. (w.121-135)

Dante non poteva non ricordare nella sua Commedia una delle pagine più esaltanti della storia siciliana: la guerra del Vespro. Nel canto VIII del Paradiso, tra gli spiriti amanti del cielo di Venere va incontro al poeta l’anima di Carlo Martello d’Angiò. Ancora una volta è affrontato il tema dell’amore. Ma se nel canto V dell’Inferno l’amore cortese cavalleresco induce al peccato Paolo e Francesca per il prevalere della passione terrena sulla ragione, qui si tratta dell’amore di un principe ideale, che ha superato l’amore passionale e terreno, sostituito con l’amore, la giustizia, la devozione verso i suoi sudditi. Dante conobbe personalmente Carlo Martello a Firenze nel 1294, quando il principe angioino aveva appena ventitré anni e Dante ventinove. In quella occasione, il Nostro ebbe modo di apprezzarne le qualità civili e letterarie, che giustificano la celebrazione che ne fa nel Paradiso, dove Carlo fa di sé un’autobiografia celebrativa:

… Il mondo m’ebbe

Giù poco tempo; e se più fosse stato,

molto sarà di mal, che non sarebbe.

…..

E la bella Trinacria …

Attesi avrebbe li suoi regi ancora,

nati per me di Carlo e di Ridolfo,

se mala signoria, che sempre accora

li popoli suggetti, non avesse

mosso Palermo a gridar ' Mora , Mora'.

Dante aveva diciassette anni quando in Sicilia scoppiò il 31 marzo del 1282 l’insurrezione popolare contro la mala signoria degli Angioini. Il popolo era stanco delle vessazioni fiscali e della corruzione del governo. Il motivo occasionale, che fece esplodere la rabbia popolare, fu il gesto di un soldato francese nei riguardi di una donna siciliana nel piazzale della chiesa di Santo Spirito a Palermo nell’ora del vespro. La rivolta fu tremenda e implacabile e si estese in tutta l’Isola. I soldati francesi furono massacrati senza pietà. Molti tentarono la fuga travestendosi, ma i Palermitani escogitarono uno stratagemma per identificarli: facevano pronunciare ai sospettati la parola 'ciciri', impossibile per i francesi che, mancando della pronunzia palatale della 'c', pronunciavano 'sisiri'.

Il 30 agosto dello stesso anno giunse a Trapani Pietro III d’Aragona, marito di Costanza, iManfredi, a cui i Siciliani offrirono la corona del regno di Sicilia. La lotta antifrancese si concluse on la pace di Caltabellotta nel 1302.Un canto popolare siciliano ricorda quest’avvenimento torico:

 E il francese con la sua potenza

in Sicilia si comportava male

ci toglieva il pane dalla mensa

si vedevano Francesi in ogni stanza

essi fidando nella loro potenza

e noi, miseri, sotto la loro lancia!

In un’ora fu distrutta quella razza

la Francia fu salata come tonnina.

Senti la Francia che suona a mortorio

no, la Francia non verrà più in Sicilia;

viva la Sicilia, che porta vittoria

viva Palermo, fece meraviglie!

L’opera di Dante venne diffusa nell’Isola subito dopo la sua composizione. Aldo Sparti, che è stato direttore dell’Archivio di Stato di Trapani dal 1980 al 1986, annota che le cantiche dantesche cominciarono a circolare in Sicilia a partire dalla seconda metà del XIV secolo sia nelle biblioteche degli ordini religiosi sia in quelle private dei notai e di alcuni giuristi. Il primo codice della  ommedia di cui si ha notizia faceva parte dei beni del re aragonese Federico IV (1355-1377). Nell’Archivio di Stato di Trapani sono conservate, ci informa Romualdo Giuffrida, due  sovraccoperte embranacee di due registri di atti notarili del XIV secolo, che contengono  frammenti dell’Inferno e del urgatorio. Insieme con quelli scoperti a Catania nel 1931,  costituiscono le uniche reliquie di codici danteschi del XIV secolo in Sicilia. Sono trascorsi 750 anni dalla nascita di Dante e la modernità del suo pensiero politico rappresenta ancora un approdo da raggiungere, mentre la nostra identità ulturale non può esimersi dal guardare alla sua poesia, alla sua lingua, al suo magistero. Prof. Antonino Tobia

 

Autore Prof-Greco

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Inserito il 27 Ottobre 2015 nella categoria Relazioni svolte